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di Francesco Jori

La Nuova Venezia, 5 settembre 2023

La lettera della moglie di un detenuto elenca la vita raccapricciante che scorre entro le mura delle prigioni. È questo squallore a generare i reiterati episodi di violenza: dai litigi fino alle vere e proprie aggressioni. Nomen omen, il destino nel nome: istituto di pena. La cruda lettera-denuncia della moglie di un detenuto nel carcere di Verona, con la sua forte e sacrosanta eco mediatica, dà voce ai tanti volti anonimi per i quali la condanna giudiziaria si accompagna ad un’autentica pena umana nel senso più drastico della parola, sofferenza. Elenca con raggelante freddezza la “vita raccapricciante”, per usare le testuali parole, della quotidianità che scorre entro le mura di troppe delle nostre prigioni: per la quale non a caso l’Italia è già stata sanzionata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; e che anche in questi giorni continua a riproporre sconcertanti casi di cronaca.

A differenza di molte altre, quella lettera non si limita a una vicenda individuale: senza entrare nel merito della sentenza, chi l’ha stesa si propone come “compagna, moglie, madre, figlia, sorella di qualsiasi detenuto”: rendendo drammaticamente vive le migliaia di pagine di denunce che da anni si susseguono con sconcertante inutilità.

Tra i tanti, l’esempio del puntuale rapporto dell’associazione Antigone, che dal 1998 porta in primo piano le storture del sistema carcerario: a partire dal sovraffollamento, pari al 121 per cento, con 10mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, e punte del 200 per cento in una ventina di istituti. Una vergognosa graduatoria in cui l’Italia occupa il secondo posto in Europa dopo Cipro.

La ricaduta più tragica è quella dei suicidi in cella, in quota venti volte superiore a quella della vita ordinaria, e che si accentuano d’estate per le condizioni estreme di troppe carceri: dopo gli 85 del 2022, già 47 quest’anno, 1. 325 dal 2000 ad oggi. E tuttavia, è solo la punta d’iceberg di uno squallore diffuso: in sei penitenziari su dieci le celle sono senza doccia, in uno su tre ci sono celle con meno di tre metri quadri calpestabili per persona, in quattro su dieci esistono schermature alle finestre che impediscono il passaggio d’aria; quattro istituti su dieci non hanno corsi di formazione professionale, meno di un terzo dei 57mila e passa detenuti può disporre di un lavoro. È questo squallore diffuso a generare i reiterati episodi di violenza nelle carceri, dai litigi fino alle vere e proprie aggressioni.

E qui entra in campo l’altra pesante criticità del caso italiano, quello della polizia penitenziaria (a sua volta sotto assedio: sei agenti feriti in cinque giorni a Padova), in forte sofferenza numerica già oggi ma ancor più in prospettiva: nei prossimi cinque anni si creerà un’emergenza senza precedenti, con quasi 20mila addetti che andranno in pensione. Per scongiurarla, servirebbero 3mila ingressi l’anno, ma le strutture sono del tutto inadeguate, con appena sette scuole di formazione per una capienza totale di 1. 800 unità.

Se il catalogo è questo, risulta di bruciante evidenza che la Costituzione, con l’articolo 27 (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), ha cambiato il volto e la finalità delle pene stesse ma non il carcere. D’altra parte, ci sono voluti trent’anni per passare dal dettato costituzionale alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Perfino il funesto Spielberg nel frattempo ha mutato anima e pelle: resta l’Italia, con la sua vergogna.