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di Pierluigi Battista

Corriere della Sera, 25 settembre 2023

Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell: seppero rischiare la solitudine per non smettere di dire la loro “verità”. Un libro per raccontare una triplice lezione di indipendenza intellettuale “che io non ho saputo seguire fino in fondo”. I miei tre eroi, Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell, mi fanno sentire meno solo. Men solo umanamente, culturalmente, politicamente, esistenzialmente. Quando mi sono avvicinato a loro, tra la fine dei cupi anni Settanta e i primi anni Ottanta, ho sentito emanare dalle loro vite e dalle loro opere, qualcosa di straordinariamente vivificante. Ossigeno, per me che ero imprigionato in un conformismo ossificato e asfissiante. Una triplice lezione di indipendenza intellettuale che io non ho saputo seguire fino in fondo, per quel fondo di pusillanimità che ci fa preferire il quieto vivere al conflitto contro un nemico potente e arrogante, ma che è maturata in me come ideale regolativo, modello di pensiero. Coraggio culturale. Ecco, coraggio culturale. “Dire la verità, anche se è ripugnante, a costo di offendere ciò che hai di più sacro dentro”.

Chi sceglie la menzogna davanti ai totalitarismi - Ecco, io non so cosa sia la verità, concetto troppo sublime per chi come me è paralizzato dal dubbio. So però cos’è il suo contrario, la menzogna. Un ceto intellettuale che di fronte ai totalitarismi ha scelto la menzogna. I miei tre eroi l’hanno rifiutata. E con loro altri personaggi che mi stanno a cuore come se fossero miei maestri: Simone Weil, Mary McCarthy, Walter Benjamin, Nicola Chiaromonte. Di loro, e del mio rapporto con loro, ho voluto scrivere. Tradirono la loro appartenenza per non tradire sé stessi: ecco la formula che mi affascina e mi avvince, e di cui sono e sarò eternamente grato fino a quando le forze mi terranno legato a questo mondo. Hannah Arendt, ebrea esule dalla Germania di Hitler, studiosa insigne, una vita da espatriata, di fronte al processo Eichmann disse cose che non piacevano al mondo ebraico di cui si sentiva orgogliosamente parte, sin da bambina quando la madre, è proprio Arendt a raccontarlo, “era sempre dell’idea che non bisognasse chinare la testa. Ero tenuta ad alzarmi e a uscire immediatamente dalla classe se per caso qualche insegnante avesse fatto esternazioni antisemite e, una volta tornata a casa, a scrivere un resoconto particolareggiato dell’accaduto”.

Il concetto storpiato di banalità del Male - Eppure non si fermò, andò fino in fondo, con la schiena diritta anche nel linciaggio di chi aveva grossolanamente manipolato il significato del termine “banalità del Male” con cui aveva riassunto la personalità dell’aguzzino nazista. Si ritrovò sola per non aver ceduto alle logiche dell’appartenenza, ma fortissimamente volle, lei laica, che al funerale del marito non ebreo venisse recitato il Kaddish, la preghiera per i defunti della tradizione ebraica. Non tradì mai sé stesso George Orwell, che morì non in tarda età di tubercolosi, che si metteva contro tutti e infatti gli editori, dalla guerra di Spagna in poi, stentarono a pubblicargli i libri. Se ne andò da solo in Spagna, per combattere il franchismo e per raccontare una storia che stava spaccando il mondo intellettuale.

Solo, senza un’organizzazione, un partito o un giornale, con i soldi racimolati vendendo ciò che restava della già scarsa argenteria di famiglia. Lui era dalla parte antifascista, ma a differenza di Hemingway che con “Per chi suona la campana” dava una rappresentazione elegiaca, mutilata e a conti fatti propagandistica della guerra civile, non nascose nulla delle nefandezze degli scherani di Stalin che a Barcellona perseguitavano e uccidevano gli esponenti anarchici e gli eretici del Poum: un’altra guerra civile.

Gli scritti rifiutati di Orwell - Gli editori traccheggiavano, cercavano di edulcorare, rifiutando gli scritti di un autore che con i libri precedenti aveva venduto tante copie e lui reagì con queste parole sprezzanti: “I cani da circo saltano quando il domatore fa schioccare la frusta, ma il cane ben addestrato è quello che fa il suo salto mortale anche senza frusta”. E che coraggio, Albert Camus. Lui era un beniamino della società letteraria, un seduttore abilissimo, un genio polivalente che dal teatro andava al giornalismo, dal saggio filosofico alla letteratura. Eppure premeva in lui una pulsione all’onestà intellettuale che non poteva fermarsi davanti a questioni di opportunità, di spirito di gruppo. Per lui l’azione per la giustizia conteneva un’intimazione morale a non oltrepassare i limiti della crudeltà. Non poteva essere, e lo scrisse nel Mito di Sisifo che per costruire una nuova società occorresse il filo spianto del gigantesco Gulag che si stava edificando nel mondo comunista. Lo insultarono, lo maltrattarono, si fece il vuoto attorno a lui, ma lui, anche lui come Hannah Arendt, come George Orwell, non arretrò nemmeno di un millimetro.

La forza che non sarei mai riuscito ad avere - Che forza che avevano quei tre. E che forza non sarei mai riuscito ad avere io. Perciò ho scelto di scrivere di loro. Non per farne dei santini. La loro vita è piena di errori. Errori intellettuali. Ed errori nella vita privata. O meglio, più che errori, manifestazioni di insensibilità, egoismo, egotismo. L’amore tempestoso tra Hannah Arendt e Martin Heidegger, il filosofo che teorizza il destino tedesco da compiersi sotto il comando totalitario di un Führer e che pretendeva di concludere le riunioni accademiche con un marziale Sigh Heil. Lei lo disprezzava, ma lo amava anche negli anni dell’esilio, in una forma di incantamento difficile da spiegare in una donna che passava al rasoio ogni argomento. O il dongiovannismo ossessivo di Camus, che nemmeno si accorgeva che la moglie Francine voleva farla finita per il dolore di un amore frantumato. O Orwell, che in gioventù, era stato un privilegiato dell’Inghilterra imperiale e che però passerà il resto della vita a denunciare, insieme agli altri totalitarismi, anche l’imperialismo della sua nazione.

Indipendenza intellettuale, merce rara - Persone, non solo nomi da collocare nelle antologie del pensiero politico, letterario e filosofico. Esistenze ricche, che io ho cercato di esplorare in tutti i loro risvolti, nei chiaroscuri, nelle pagine non sempre limpide che caratterizzano ogni vita. Però esempi di un’indipendenza intellettuale che è stata merce molto rara in un’epoca in cui gli intellettuali hanno brillato per il loro servilismo nei confronti degli orrori totalitari. Rara come la figura di Simone Weil, pensatrice sottilissima che non poteva sopportare di magiare pasti abbondanti finché un solo essere umano fosse costretto a patire la fame. Come Walter Benjamin, un genio collezionatore di insuccessi. O Mary McCarthy, una delle intellettuali più profonde e brillanti nel firmamento culturale del Novecento. Ecco perché sono i miei eroi. Da ammirare come eroi. Eroi culturali, che seppero rischiare la solitudine per non smettere di dire la “verità”.