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di Mario Di Vito

Il Manifesto, 1 febbraio 2024

Il caso Ilaria Salis. Intervista all’ex giudice della Corte europea dei diritti umani: “Il modo di presentare l’imputata è una messa in scena per il pubblico. Oltre all’umiliazione e all’offesa alla dignità c’è violazione della presunzione di innocenza”.

Vladimiro Zagrebelsky, tra le altre cose giudice della Corte europea dei diritti umani per un decennio, anche lei, come tutti, ha visto le immagini di Ilaria Salis che entra incatenata in tribunale a Budapest. L’avvocato ungherese di Salis sostiene che questo tipo di misure sono stabilite dall’autorità penitenziaria e che sia così per tutti i detenuti. È accettabile una cosa del genere nell’Europa del 2024?

Il modo di presentare l’imputata al giudice mi è parso una messa in scena per il pubblico ungherese e italiano. Non solo manette e catene ai piedi, con annessa catena in mano alla poliziotta. Anche un poliziotto di scorta, con maschera sul viso e giubbotto antiproiettile. Il messaggio era che si trattava di un caso grave e pericoloso, di terrorismo o grande criminalità organizzata. Il risultato, oltre all’umiliazione e all’offesa alla dignità della persona, è stato di violazione della presunzione di innocenza. Si può anche vedere nel trattamento imposto all’imputata un trattamento degradante, anch’esso vietato dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Significative sono le regole contenute nella direttiva dell’Ue sulla presunzione di innocenza e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Quest’ultima ha riguardato ad esempio anche il non necessario, non motivato ricorso alle gabbie metalliche in cui viene messo l’imputato detenuto. In Italia, nel codice di procedura penale è stabilito che l’imputato, anche se detenuto, è presentato libero nella persona “salve le cautele necessarie per prevenire il rischio di fuga o di violenze”. Quest’ultima situazione deve essere esaminata e decisa dal giudice, normalmente d’intesa con il personale di polizia che ha in custodia l’imputato detenuto. Un tale rischio può venire dall’imputato stesso o dal pubblico nella sala, ma deve essere esaminato e motivatamente deciso tenendo conto delle esigenze di equità del processo, di cui la presunzione di innocenza è condizione.

La giustizia europea può intervenire in qualche modo?

Se l’imputato ritiene di essere stato trattato in modo incompatibile con le regole europee, dopo aver ricorso ai giudici per veder riconosciuta la lesione del suo diritto, può ricorrere alla Corte europea dei diritti umani. Può intervenire anche il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa. Inoltre nell’ambito dell’Unione sia la Commissione sia il parlamento possono intervenire con gli strumenti dei trattati. Questo non tanto con riferimento a singoli casi, ma piuttosto di fronte a fenomeni strutturali, generalizzati in un certo paese.

Allargando un po’ il campo: qual è oggi il rapporto tra i cosiddetti sovranismi e la giustizia?

L’amministrazione della giustizia (con le leggi sostanziali e procedurali che i magistrati attuano) è detta “funzione sovrana”. Nel senso che esprime i connotati essenziali dello Stato e della sua sovranità. Inoltre spesso i casi trattati nelle aule di giustizia sono molto delicati, legati a norme sentite come fortemente identitarie o legate a profili di sicurezza pubblica. La reazione dei governi e delle opinioni pubbliche tende così a rivendicare rilievo nazionale alle questioni che vi vengono discusse. Un esempio può essere la materia delle immigrazioni: in Italia, in Europa e non solo. In realtà però occorrerebbe tener conto che in vari modi gli Stati europei hanno accettato limitazioni alla propria sovranità specificamente quando i diritti fondamentali delle persone siano in gioco. Mi riferisco alla adesione alla Unione europea, ma anche alla ratifica di molte Convenzioni internazionali, come quella europea dei diritti umani.

Cosa può fare in concreto il governo italiano per la situazione di Ilaria Salis?

In questi giorni, dopo che sono state viste le immagini dell’udienza in Ungheria, si sono sentite espresse opinioni che mi paiono prive di fondamento. Salis è in Ungheria in stato di detenzione cautelare, quindi non si applicano le regole sull’esecuzione nello Stato di cittadinanza delle pene definitivamente stabilite. Né le regole sul mandato di arresto europeo. È stata citata una decisione quadro del 2009 sull’applicazione tra gli Stati membri dell’UE del principio di reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare. Ma tale decisione espressamente stabilisce che ogni decisione sulla applicazione di misure cautelari non detentive appartiene alla competenza dello Stato che procede. Quindi in questo caso all’Ungheria secondo le sue regole procedurali giudiziarie. Perché la decisione quadro sia applicabile - secondo le norme interne italiane e ungheresi - occorrerebbe che le autorità ungheresi trasformassero la custodia cautelare in carcere in una misura alternativa non detentiva. Potrebbe essere auspicabile, ma mi pare prematuro pensarlo ora. In ogni caso occorrerebbe che la difesa dell’imputata presentasse ai giudici una istanza, che essa venisse decisa, eventualmente impugnata… A questo proposito mi sembra difficile che il governo italiano possa utilmente intervenire, salvo che sul trattamento in carcere, e ciò tanto più se in modo ufficiale e pubblico. L’indipendenza dei giudici rispetto al governo vi si oppone. Altro è il livello diplomatico: è doveroso, ma perché possa avere qualche possibilità di essere efficace occorrerebbe che sia assicurata discrezione, flessibilità, non clamore.