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di Daniele Piccini

Corriere della Sera, 28 gennaio 2024

“Silvana Ceruti. Oltre le mura”, il documentario di Marco Manzoni rievoca i trent’anni del laboratorio di scrittura in versi che Silvana Ceruti tiene nel carcere milanese di Opera. “Tutti possono diventare autori, per un detenuto è necessario dare uno sfogo alle emozioni”. Sul finire della sua breve vita, nel 1995, in uno scritto che introduce l’antologia Scrittori dal carcere (edita in Italia da Feltrinelli nel 1998), Iosif Brodskij osserva che la carcerazione è quasi levatrice della letteratura. Certo, Brodskij pensa ai poeti e agli scrittori reclusi per ragioni di dissidenza.

Ma forse quella “limitazione di spazio compensata da eccesso di tempo”, di cui il poeta parla a proposito della reclusione, può diventare incubatrice di un’espressione letteraria anche in chi prima di entrare in carcere scrittore non era. Ne è sicura, da trent’anni, Silvana Ceruti, toscana di origine ma milanese da una vita, che appunto dal 1994 tiene un laboratorio di lettura e scrittura creativa nella casa di reclusione di Milano-Opera. “Sono fermamente convinta - ci dice - che ogni persona possa imparare a scrivere poesia”. E a proposito dei detenuti che frequentano il suo corso osserva: “Per le persone detenute c’è una vera urgenza di essere ascoltate, di sentire accettati i propri sentimenti. Riuscire a dare una forma, con le parole, al proprio sentire, cioè a dargli dei contorni, dei limiti che rendono oggettivabile ciò che si prova, aiuta la persona detenuta a non “esplodere” per la forza di sentimenti che non trovano altrimenti via di uscita”.

La lunga militanza di educazione alla poesia nella casa di reclusione di Opera è diventata oggetto di un documentario di Marco Manzoni, intitolato “Silvana Ceruti. Oltre le mura”, che verrà presentato a Milano, a Palazzo Marino, il 21 febbraio, con un’anteprima sabato 3 febbraio nel carcere, appunto, di Opera. Manzoni si è costruito negli anni un percorso di riflessione sul tema della ricerca di senso con una serie di film-intervista a grandi personaggi della società e della cultura, tra cui Ermanno Olmi e Franco Loi (sono tutti visionabili sul sito nuovoumanesimo.it). A proposito della poesia, Manzoni, fondatore di Studio Oikos e animatore di progetti culturali interdisciplinari, osserva: “Penso che i poeti parlino sempre all’uomo, anche a quello contemporaneo. E penso che la sparizione progressiva di uno spazio poetico nella società contemporanea non sia solo una perdita culturale, ma una perdita di senso dell’esistenza poiché, come diceva Loi, la parola poetica è quella che si avvicina di più al territorio dell’indicibile, quindi al silenzio, quindi all’essenza, quasi impronunciabile, della vita”. Leggendo gli autori che Silvana Ceruti propone loro, con l’aiuto di altri volontari, ma anche interrogando il proprio vissuto, i detenuti di Opera imparano ad avvicinarsi a una zona incandescente dell’interiorità, dove la parola zampilla da una sorta di pulizia dell’anima. Passano attraverso un’opera di rimozione del male fatto e ricevuto, per aprirsi di nuovo.

Sono ormai diverse le antologie poetiche nate dal laboratorio di lettura e scrittura creativa tenuto all’interno della casa di reclusione e curate da Silvana Ceruti (da un certo punto in poi con Alberto Figliolia) per la casa editrice milanese La Vita Felice. Si va da In un mignolo d’aria (1999) fino alle più recenti: Attraversando muri di silenzio (2016), Nacqui ortica selvatica (2017), Gridi e preghiere (2019). Ceruti, che è poetessa in prima persona, è persuasa anche della dignità dei testi scritti dai detenuti, oltre che della loro funzione liberatoria: “Il contatto di così tanti anni con persone detenute ha rafforzato la mia convinzione che ogni persona, di qualunque età, provenienza sociale e culturale, abbia bisogno di dirsi in poesia, per riconoscersi, per scoprire e avere fiducia nella propria ricerca di verità e bellezza”. Alcuni degli allievi del laboratorio hanno poi pubblicato sillogi personali, tutte loro. Ma già nelle antologie a più voci i detenuti - i cui nomi si ripetono di libro in libro, perché si affezionano a quell’esperienza di condivisione che è il laboratorio del sabato mattina e la rifanno anno dopo anno - si esprimono con una loro originalità.

È il caso di Domenico Branca, che vede fiorire dalla solitudine che si sperimenta in carcere la possibilità di spalancarsi alla “pienezza/ del mistero”. O ancora di Carmine Alvaro, che azzarda un “mi ansierò”, per dire del passaggio lento e logorante del tempo nella reclusione, che non esclude però la speranza di ritrovare chi si è amato: “Rivivrò con chi ho vissuto./ Ritroverò chi ho perso”. Antonino Di Mauro scrive invece in siciliano e sogna di cancellare il lungo tratto della vita segnato dagli sbagli: “Lassassi sulu tannicchia/ da me vita./ Quali? / Quannu era picciriddu,/ u restu ‘u scancillassi” (“lascerei solo un poco/ della mia vita./ Quale?/ Quando ero bambino,/ il resto lo cancellerei”). Molti degli allievi del laboratorio sono stranieri: dà loro voce Gentian Ndoja, che in versicoli di sapore ungarettiano paragona a un albero solitario esposto alle raffiche del tempo atmosferico “la vita/ dura, anonima/ di uno straniero/ imprigionato”.

Sembrano chiedere la nostra attenzione queste voci, chiamarci, indovinare il punto in cui siamo non loro giudici, ma piuttosto fratelli. Viene alla mente un passaggio della Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde (1898), dove il poeta a proposito di sé e del recluso condannato a morte che è al centro dell’opera scrive (la traduzione è di Masolino d’Amico): “Circondava entrambi un muro di prigione./ Due reietti eravamo:/ Il mondo ci aveva espulsi dal suo cuore,/ E Dio dalla Sua Grazia:/ E la ferrea tagliola che aspetta il Peccato/ Ci aveva presi nella sua insidia”. Proprio di un’esperienza di comunione parla Silvana Ceruti a proposito del laboratorio, di uno scambio profondo di sentimenti, che spesso è all’origine di rapporti che si mantengono negli anni tra i volontari e i detenuti, anche quando questi tornano liberi. E paragona i carcerati ai bambini di cui è stata in passato maestra nella scuola elementare: “Ho sempre chiesto ai miei piccoli alunni di scrivere poesie con risultati straordinari e copiosi”.

Il punto, secondo lei, è che la poesia non sia “un privilegio solo di alcune menti straordinarie”. Per cui non basta imparare a memoria i testi ormai classici, occorre anche sentirsi adeguati alla poesia e immergersi nel suo linguaggio. Perciò se spesso il laboratorio fa spazio alla presenza di poeti riconosciuti, come Franco Loi o Milo De Angelis, che ne sono stati ospiti nel corso degli anni, il segreto della longevità di questa esperienza poetica fatta con gli ultimi sta nella tenacia di credere che la poesia si possa insegnare. I detenuti amici del laboratorio la leggono e la scrivono e si trasformano in alunni. E noi?