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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 12 agosto 2023

L’ex “primula rossa” ha un tumore al quarto stadio e rischia di morire detenuto al 41 bis come il boss arrestato nel 2006 e spirato dieci anni dopo, dopo un lungo periodo in stato vegetativo. Quando si sente dire dal suo legale, l’avvocato Alessandro Cerella, che il detenuto Matteo Messina Denaro non riesce più ad alimentarsi e viene nutrito con un sondino, e che anche mandar giù un sorso d’acqua è per lui grande fatica, il pensiero va lontano, a un altro prigioniero che era stato un altro capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano.

Ero andata, quel 24 aprile del 2016, all’ospedale S. Paolo di Milano, quartiere Barona, dove un vecchio amico, il professor Rodolfo Casati, internista e cardiologo, oggi in pensione, svolgeva un lavoro particolarmente delicato. Era il primario della quinta Divisione di medicina protetta, cioè carceraria. Un pezzetto di prigione all’interno di un grande ospedale, con 22 letti più due stanze separate e protette per detenuti al regime 41 bis, in una delle quali, da due anni stazionava il corpo di Bernando Provenzano. Il corpo, non la persona, come ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo che per la prigionia di quel corpo ormai ridotto a vegetale, ha condannato lo Stato italiano.

Il professor Casati in quell’incontro dell’aprile 2016 era particolarmente amareggiato per il comportamento della magistratura e dello stesso governo, mentre mi diceva: “Provenzano non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento”. Che cosa dice nei vostri incontri? “Articola spesso le sillabe mmm e mam, forse intende dire mamma”, mi aveva risposto sconsolato il medico, aggiungendo che lui ogni giorno lo visitava, lo controllava, poi scriveva relazioni su relazioni. Ai giudici di mezza Italia, da Palermo a Caltanissetta, da Milano a Firenze. E al ministro. Ma la situazione non si sbloccava. I familiari chiedevano che il congiunto, ormai al puro stato vegetativo, potesse essere trasferito in un reparto per lungodegenti, quegli hospice dove si va a morire, ma almeno senza manette.

Le manette di Bernardo Provenzano in quell’aprile 2016 consistevano, ormai da due anni, in due auto di polizia che stazionavano in modo stabile ai lati nord e sud dell’ospedale, e 28 agenti che si alternavano alla sua sorveglianza, in un reparto dove si occupavano dei detenuti 9 medici, 14 infermieri e 8 operatori sociosanitari. Quale è la patologia di questo detenuto, avevo chiesto. “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali - era stata la risposta del professor Casati - è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson, è in uno stato degenerativo gravissimo”. Un vegetale. Pure la Corte di Cassazione aveva stabilito che quel vegetale potesse restare là dove era, con le restrizioni dell’articolo 41 bis del regolamento penitenziario, che nel suo caso consistevano solo nella riduzione dei colloqui con i parenti. Altri contatti non poteva avere, e neppure sarebbe stato in grado. Ma per la suprema corte, finché il paziente rispondeva in qualche modo alle cure era vivo, quindi anche pericoloso. Super-manette, dunque.

Tra l’altro a un certo punto proprio coloro che, a parte i familiari e gli amici, avevano maggior interesse a tenere Provenzano in vita, cioè i pubblici ministeri del processo “trattativa” in cui lui era tra i principali imputati, avevano rinunciato e accettato la decisione dei giudici di stralciare la posizione del boss dal processo. Ma chi non volle sentir ragioni fu il ministro di giustizia Andrea Orlando, forse consigliato da colui che poi diventerà suo compagno di partito ed eurodeputato, il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Il guardasigilli, nel prorogare il 24 marzo per l’ultima volta il 41 bis ebbe il coraggio di scrivere: “Seppure ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. C’è da domandarsi se Andrea Orlando, o chi ha scritto per lui questo capolavoro di intuizione psicologica, sappia che cosa vuol dire quando una persona è in “stato clinico deteriorato dal punto di vista cognitivo”. O forse qualcuno ha pensato che quel sillabare continuamente mmm o mam equivalesse a ordinare omicidi e stragi. Pure quel corpo ridotto allo stato vegetale doveva rimanere prigioniero. Bernardo Provenzano è morto il 13 luglio di quel 2016, quattro mesi dopo l’ultima proroga del 41 bis, quella per cui l’Italia è stata condannata per la violazione dell’articolo 3 Cedu. Una sanzione con motivazioni gravissime, per violazione del divieto di tortura e di trattamenti degradanti e disumani, e anche per non aver tenuto conto del fatto che le condizioni di salute del prigioniero erano incompatibili con lo stato di detenzione.

Detenzione, altro che 41 bis e carcere speciale! Sono stati violati i diritti umani, hanno scritto i giudici europei. Ma intanto il detenuto era morto. Il corpo si era sottratto. Anche a quel circo mediatico e giudiziario che aveva messo in scena la patacca colossale della trattativa Stato-mafia, di cui Provenzano sarebbe stato protagonista in combutta con il generale Mario Mori. Non ha fatto in tempo, il boss di Cosa Nostra, a veder andare in fumo la sceneggiata del secolo.

Quel che possiamo domandarci oggi è: farà la stessa fine Matteo Messina Denaro, malato di cancro al quarto stadio, il quale già oggi, come dice il suo avvocato, dopo l’ennesima operazione, non mangia, è nutrito con un sondino e fatica a bere un sorso d’acqua? Vogliamo aspettare che sia ridotto allo stato vegetativo prima di decidere che anche il peggior assassino è pur sempre una persona e, soprattutto quando è, come pare sia lui, ormai alla fine dei suoi giorni, ha diritto come tutti a un trattamento umano? Non crediamo che il ministro Nordio terrà lo stesso comportamento del suo predecessore Orlando, insistendo con l’applicazione dell’articolo 41 bis fino alla condanna della Cedu. Non sarebbe degno di lui.