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di Barbara Stefanelli

Corriere della Sera, 22 dicembre 2023

Ci sentiamo sovraesposti alle crisi. Anche le immagini dei bimbi generano solo liti o rimozioni. Ma il nostro sguardo conta. Nelle immagini raccolte dai primi soccorritori israeliani, il 7 ottobre, i bambini uccisi dai terroristi di Hamas sono in pigiama. Stesi per terra, i volti pixellati, indossano per l’ultima volta la tutina con la faccia di Topolino sul petto o la camicia da notte estiva con le farfalle blu. Su ciascuno, un cerotto rosa per l’identificazione e la conta finale. Come per le ragazze stuprate, una parte consistente e robusta di mondo si è subito predisposta a rimuovere il massacro, compreso quello dei più deboli: non ha lasciato trascorrere neppure una giornata intera e ha cominciato a dubitare, soppesare, divagare tra contesti.

Dei tanti video che da settimane raccontano la catastrofe di Gaza, travolta dall’invasione, ce n’è uno che sembrava poter calmare gli sguardi. Si vede una bimba palestinese, scalza: probabilmente si è disorientata durante la fuga dei civili spinti a forza verso Sud (qui il link al video sul sito di The Times of Israel), ha cercato un rifugio per la notte e ha finito per sdraiarsi davanti a una tenda dell’esercito israeliano, sul tappetino dai disegni arabeggianti. I soldati l’hanno trovata al risveglio, il filmato li mostra mentre le medicano e bendano i piedi insanguinati, scacciano via le mosche, provano a non spaventarla. Spaventosi sono i commenti sotto. Utenti israeliani: “A parti invertite, l’avrebbero ammazzata perché ebrea, come è successo nei kibbutz”. Utenti non israeliani: “Mostrateci la fine del video, nella scena successiva sicuramente le sparano”.

Ci sentiamo forse tutti sovraesposti a crisi continue e senza soluzione: approdiamo a questo Natale così stanchi - sonnambuli attraverso paesaggi globali slabbrati - che neppure le storie dei piccoli riescono a sfilarci dai circuiti chiusi e prevedibili delle nostre reazioni. Risse o rimozioni, rimozioni e risse. Come avessimo sempre fretta di inveire attorno ai fatti oppure di svenire prima di dover ragionare. Ora l’obiezione è facile: ma se anche ci imponessimo di rallentare per osservare, ascoltare le voci, accostare le mappe, che cosa cambierebbe? In che modo, credenti o non credenti, potremmo santificare la vita, riconoscerne la sacralità in mezzo allo scompiglio rigeneratore e allo stupore di ogni nascita? Se anche ci fermassimo per una notte, noi, qui, quale mutamento potremmo mai indurre, quale breccia in muri cementati da decenni e secoli, da ideologie antiche come le torri dei fondamentalismi e giovani come il reticolo dei social network che avvolge le identità nel filo spinato?

Il nostro sguardo non cambierà il mondo, certo, non spegnerà i roghi dell’odio o abbasserà la marea del dolore. Ma uno sguardo che prediliga la consapevolezza e l’empatia cambia, di sicuro, noi. E quindi, prima o poi, il mondo. Alla fine, la nostra esistenza prende - e riprende - forma riempiendosi delle persone e delle cose alle quali prestiamo attenzione. Tutto dipende dalla nostra libertà interiore, da quanto siamo disposti a rischiare rispetto alla tentazione di azzerare l’incertezza. Suggerisce Chandra Candiani, autrice e maestra di meditazione, ne Il silenzio è cosa viva: “Per essere nella presenza devo coltivare a lungo uno sguardo sull’io, anziché guardare tutto dai suoi occhi”. Invece di squadrare gli altri “fuori” muovendo dalla rabbia, dall’eccitazione o dalla tristezza, “guardo direttamente la rabbia, l’eccitazione e la tristezza”.

Le guardo e riconosco: raccolgo i pezzi per ricomporli e tentare un senso.