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di Patrizio Gonnella

Il Manifesto, 10 dicembre 2022

Palla al Piede. I festeggiamenti per la nazionale magrebina ci ricordano come sia la comunità più presente dietro le sbarre in Italia: senza poter giocare a pallone.

Nel giorno in cui la città era sveglia dall’alba per festeggiare il suo santo, venerato ad est e ovest, Bari ha tenuto il fiato sospeso fino all’ultimo rigore per stringersi intorno a Walino, il suo bomber marocchino. Così come a Bari i tanti Nicola sono chiamati Colino, Walid Cheddira ha avuto la fortuna di essere ribattezzato dai baresi Walino. Da tantissimi anni si attendeva una punta che segnasse a raffica e sostituisse nel cuore il brasiliano Paulo Vitor Barreto, detto Vitino. Così quando Walino, dopo avere segnato nove reti nel campionato di serie B, è stato convocato dal Marocco per partecipare ai Mondiali, la città ha trovato chi tifare. Doppia festa dunque ieri a Bari che sarebbe stata tripla se solo Walino l’avesse buttata dentro dopo essersi fatto spazio tra le maglie della difesa spagnola. E allora altro che fuochi d’artificio per festeggiare San Nicola, le cui ossa furono trafugate ai turchi un migliaio di anni fa da una sessantina di marinai baresi. Forse sarà anche per questo furto che San Nicola è considerato protettore di avvocati, prigionieri e vittime di errori giudiziari.

E di prigionieri marocchini in Italia ce ne sono ben 3.602, quasi tutti maschi. Un detenuto straniero su cinque proviene dal Marocco, che rappresenta circa il 6% del totale della popolazione detenuta nel nostro paese. E, purtroppo, i marocchini sono anche quelli che hanno lasciato più morti nelle prigioni italiane. Negli ultimi dieci anni, come ci ha segnalato il Garante Nazionale delle persone private della libertà in una ricerca analitica sui suicidi nelle carceri italiane, ben trentasette marocchini si sono tolti la vita negli ultimi dieci anni, di cui cinque nel solo 2022.

Settantanove suicidi in totale dall’inizio dell’anno. Un numero enorme che dovrebbe fermare tutti noi, dovrebbe interrogare le forze politiche e di governo intorno a quello che sta accadendo nel nostro sistema penitenziario. Il più grave errore di fronte alla perdita di una vita è andare alla ricerca del capro espiatorio di turno, piuttosto che mettere in discussione il modello penale e carcerario vigente. Ogni suicidio è una storia a sé di disperazione che non va trattata in modo standardizzato, trasformando quella persona in un oggetto anonimo.

Ogni persona suicida ha una storia, una sua biografia. Riprendiamole in mano, restituiamo loro una piena dignità visto che non possiamo ridar loro la vita. Per farlo dobbiamo tornare a residualizzare la risposta carceraria che è sempre patogena, tanto più quanto è lontana dall’essere necessaria. Dobbiamo uscire dal carcerocentrismo che ha colpito i passionari della giustizia bendata e truce. Dobbiamo anche investire tutti i fondi disponibili, non nel costruire nuove prigioni funzionali all’internamento di massa, ma per assumere migliaia di nuovi operatori che possano conoscere una ad una le persone recluse e le loro storie individuali. Conoscerle per aiutarle. Conoscerle per prenderle in carico. Non abbiamo bisogno di nuovi reati ma di umanizzare e modernizzare la vita nelle carceri. La tecnologia va messa al servizio dei diritti dei detenuti, favorendo la promozione di una vita che si approssimi a quella normale.

Nei giorni scorsi ero in visita al carcere di Pesaro. Mi è stato detto che i detenuti marocchini avevano festeggiato per la qualificazione agli ottavi di finale. In quel carcere, però, il campo di calcio per i detenuti non sembrava ben messo. La possibilità di fare sport era veramente limitata. Mancanza di risorse, forse. Mancanza di pianificazione, forse. Partiamo da quel campo, e riformiamo un sistema che per ora ha prodotto troppi morti e troppe tragedie.