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di Paolo Foschini

Corriere della Sera, 10 dicembre 2023

Coprogettazione anche con le aziende per le iniziative di sostegno ai lavoratori. Sistema classico fallito, ora si cambi”. Da competitor a partner, una rivoluzione tra pubblico e privato, profit e non profit. Con l’articolo 55 nel Codice del Terzo settore c’è uno schema operativo per passare dalla teoria alla pratica. Presa d’atto numero uno: “Veniamo da sedici anni di crisi ripetute e i modelli di intervento non hanno funzionato, il Paese si è impoverito e le disuguaglianze sono aumentate”. Presa d’atto numero due: “Il welfare nel suo modello tradizionale non funziona più”. Conclusione, cosa bisogna fare allora? Semplice: una rivoluzione. Culturale, radicale, profonda: e cioè costruire il nuovo welfare “insieme”. Tra pubblico e privato, non profit e profit, istituzioni e semplici gruppi di cittadini. Perché questo significano le parole “coprogrammazione” e “coprogettazione”. Già da molto tempo dette e ripetute in mille convegni. Ma ancora molto, troppo raramente tradotte in pratica. Non che sia una cosa facile, per carità: “Certo, non è un automatismo. Serve un cambio totale di mentalità”.

I virgolettati sono di Franca Maino, docente dell’Università Statale di Milano, direttrice scientifica del laboratorio di ricerca Percorsi di secondo welfare e curatrice della sesta edizione del relativo Rapporto biennale appena presentato e il cui titolo - “Agire insieme. Coprogettazione e coprogrammazione per cambiare il welfare” - sintetizza di fatto ciò che la professoressa ha spiegato nel paragrafo sopra.

Punto di partenza del Rapporto è l’analisi - partendo dai dati Eurostat - di come sta oggi il welfare italiano in un contesto di “policrisi” che vede da un lato la crescita dei bisogni (5,6 milioni di poveri, un abitante su quattro con più di 65 anni) e dall’altro un sistema sempre più incapace di rispondervi nonostante 561 miliardi di spesa sociale pubblica che nel 2021 erano il 30,7% del Pil, due punti sopra la media europea. A fronte di questo ci sarebbe il “secondo welfare”, e cioè il contributo di attori non-pubblici quali aziende, organizzazioni di Terzo Settore, sindacati, associazioni e gruppi di cittadini. Un universo in crescita, con iniziative di welfare aziendale per quasi 3 miliardi di euro e una platea potenziale di oltre sei milioni e mezzo di lavoratori; un salvadanaio filantropico da 9 miliardi tra donazioni individuali e istituzionali; e il capitale umano di 363mila organizzazioni di Terzo settore, con 870mila dipendenti e quasi 4,7 milioni di volontari. Qual è il punto? Quel che si è detto sopra: finché queste forze non vengono fatte lavorare “insieme”, superando gli steccati di sempre e anche l’abitudine del “si è sempre fatto così”, il risultato continuerà a essere quello di avere tipo una nave pronta usandola però come una barchetta.

Eppure, sottolinea la professoressa Maino, esperienze nella giusta direzione e strumenti per accelerare non mancano. “L’articolo 55 del Codice del Terzo settore - ricorda - fornisce da tempo uno schema operativo per tradurre coprogettazione e coprogrammazione da teoria a realtà pratica”. Dopodiché il compito di muoversi chiama in causa tutti: “In primo luogo enti locali e istituzioni pubbliche, per chiamare al tavolo il Terzo settore non più solo se ci sono servizi da esternalizzare ma allo scopo di individuare prima e insieme bisogni e risposte. Tuttavia la collaborazione da cercare non è solo quella tra pubblico e privato. Va costruita anche tra non profit e profit. Oltre che tra realtà diverse del non profit”.

Il Rapporto cita esempi virtuosi di buona relazione tra welfare aziendali e coprogettazione come le Reti territoriali di conciliazione, che in Lombardia promuovono iniziative e percorsi per meglio conciliare vita e lavoro; o come il ruolo delle Fondazioni di comunità nel facilitare le pratiche collaborative; o esperienze sul modello del progetto Cambia Terra con cui ActionAid Italia - proprio partendo da azioni di coprogettazione dei servizi nell’Arco Ionico - si propone di tutelare i diritti delle donne nell’agricoltura.

La domanda è: quali sono state, finora, le resistenze rispetto a tutto questo? A rispondere è il sociologo Flaviano Zandonai, esperto di Terzo settore: “Più che in resistenze consapevoli il problema sta nel cambio totale di mentalità che questo passaggio richiede. Passare da una logica di competizione, che poi era anche la dinamica classica dei bandi e bene o male ha sempre caratterizzato tutti gli attori in campo, a una logica di collaborazione in nome di un obiettivo comune non è un cambiamento né immediato né semplice. Trasformare in partner quello che prima era un competitor è una rivoluzione culturale. Ma il salto da fare è quello”.

E in effetti la coprogettazione è già diventata un requisito di molti bandi di oggi. “Ma per finire - chiude di nuovo Franca Maino - gli altri e non ultimi attori da chiamare in causa sono le persone. È a loro che bisogna chiedere quali sono i servizi che servono alla comunità. Coprogettare e coprogrammare, in definitiva, significa mettere le persone al centro. Cioè quel che si dice da sempre. Questa è la via per farlo”.