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di Francesca Spasiano

Il Dubbio, 6 novembre 2023

L’85enne liberata da hamas che stringe la mano al suo carceriere è tra gli attivisti che ancora sperano in una società condivisa. Le immagini della guerra che ogni giorno entrano nei nostri salotti ci sconvolgono e ci indignano. Qualche volta ci lasciano indifferenti, assuefatti di fronte all’ennesimo orrore che scorre via rapido tra i titoli del tg. Ma quasi mai succede che un’immagine ci restituisca fiducia e speranza, come invece è successo quando abbiamo visto un’anziana signora afferrare la mano del suo carceriere. La foto ha fatto rapidamente il giro del mondo: ritrae Yocheved Lifshitz, 85 anni, uno dei due ostaggi di Hamas che ha lasciato la Striscia di Gaza nella notte del 24 ottobre.

Suo marito Oded, 83 anni, è ancora in quella ragnatela di cunicoli dove il movimento islamista trattiene gli oltre 200 civili israeliani rapiti durante il massacro del 7 ottobre. Yocheved Lifshitz lo racconterà di lì a breve da un ospedale di Tel Aviv, quell’inferno al quale temeva di non sopravvivere. Ma dopo due settimane passate negli abissi di Gaza, l’orrore della guerra non ha ancora spazzato via il desiderio di pace. E allora Yocheved si volta un’ultima volta verso l’uomo che l’ha appena consegnata nelle mani della Croce rossa internazionale e gli dice: “Shalom”. Benda verde in testa e fucile in spalla, lui accetta volentieri la stretta. È sorpreso oppure un po’ compiaciuto? Non possiamo saperlo: è impossibile indovinare l’espressione di quel miliziano col volto interamente coperto.

Ma sappiamo che una donna, reduce da una delle esperienze più traumatiche che si possano immaginare, è riuscita con un semplice gesto a tenerci incollati davanti allo schermo per incassare la lezione che aveva da darci. Un messaggio di pace che Yocheved Lifshitz coltivava insieme a suo marito da sempre - lui giornalista, lei appassionata di fotografia -, come attivisti per i diritti umani impegnati in quel territorio nel sud di Israele colpito così duramente da Hamas. La mattina del 7 ottobre si trovavano nella loro casa nel Kibbutz Nir Oz, uno dei luoghi presi d’assalto dai miliziani. Che hanno “fatto saltare in aria la recinzione elettronica, quella recinzione speciale la cui costruzione è costata 2,5 miliardi di dollari ma non è servita a nulla”, spiega la donna. “Hanno assalito le nostre case, picchiato la gente, preso ostaggi, non facevano distinzione tra giovani e anziani”, racconta ancora Yocheved ai giornalisti riuniti davanti all’ospedale Ichilov di Tel Aviv. È su una sedie a rotelle, visibilmente provata per quell’incubo che ora rivive attraverso i ricordi, ma le sue parole tradotte in inglese dalla figlia accorsa in fretta e furia dalla Gran Bretagna lasciano sbigottiti l’intera platea. Chi si aspettava rabbia e vendetta ha fatto male i suoi conti. “Ho attraversato un inferno al quale non pensavo che sarei sopravvissuta. Non pensavo che saremmo arrivati fin qui”, dice Yocheved. È stata caricata su una motocicletta e colpita con dei bastoni di legno durante il trasferimento verso la Striscia. Le costole le fanno così male che non riesce a respirare. Ma la “mostrificazione del nemico” che un po’ tutti erano pronti ad accogliere, non è mai arrivata. “Abbiamo camminato sottoterra per chilometri, per due o tre ore, in una ragnatela di tunnel, fino a raggiungere una grande sala, dove eravamo un gruppo di 25 persone e ci hanno separato in base al kibbutz di provenienza. Ci hanno detto che credono nel Corano, che non ci avrebbero fatto del male e che avremmo vissuto come loro nei tunnel. Poi un medico è arrivato e ci ha visitato a giorni alterni”. E ancora: “Eravamo sdraiati su materassi, si assicuravano che tutto fosse igienico, che non ci ammalassimo. Si assicuravano che mangiassimo, lo stesso cibo che mangiavano loro: pita con formaggio bianco e cetrioli. Ci hanno trattato con gentilezza e si sono presi cura di noi”.

Insomma, dice Yocheved, ci hanno trattato bene. Ma un fatto è certo: quelle immagini le torneranno in mente per sempre. Insieme al dolore per la comunità israeliana che viveva intorno alla Striscia e che è stata “abbandonata” a se stessa: “Tre settimane fa, masse di gente sono arrivate alla recinzione” al confine ma “le forze armate non hanno preso la cosa sul serio. Siamo stati lasciati a noi stessi. Eravamo il capro espiatorio”, accusa la donna.

La cui testimonianza non è passata inosservata: nei giorni a seguire le parole e quel gesto riservato a chi l’aveva rapita hanno sollevato più di un interrogativo tra gli israeliani. La figlia di Yocheved spiega alla stampa che quel miliziano a cui sua madre ha stretto la mano era un paramedico che si era preso cura di lei. Ma “come si può attribuire gentilezza a un gruppo che ha appena brutalmente spazzato via gran parte del kibbutz, Nir Oz, che era la sua casa? Potrebbe essere la sindrome di Stoccolma da manuale? O forse ha sentito il bisogno di parlare bene dei suoi rapitori, dato che stanno ancora trattenendo suo marito?”, si chiede Linda Dayan su Haaretz. “Lifshitz non sta dimostrando che Hamas sia umano - scrive la giornalista -, sta dimostrando di esserlo lei”. Ma la storia di Yocheved racconta qualcosa di più. È la storia di una donna che da anni aiuta i palestinesi di Gaza feriti e malati a lasciare la Striscia per essere curati negli ospedali israeliani. Li accompagnava lei stessa come faceva anche Vivian Silver, l’attivista italo-canadese di 74 anni dispersa dal 7 ottobre. La sua famiglia teme che sia finita tra gli ostaggi di Hamas, rapita dal Kibbutz Bèeri dove viveva dagli anni ‘90. Lì al confine, tra le comunità di attivisti che hanno deciso di dedicare la propria vita alla costruzione di una società condivisa tra ebrei e arabi. Lì dove quel sogno ora sembra essersi spezzato per sempre.