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di Giansandro Merli

Il Manifesto, 8 dicembre 2023

Intervista intorno al caso di Mediterranea. Il senatore della maggioranza: “C’è un problema di privacy: in smartphone o computer si trovano informazioni personali che riguardano la sfera complessiva della persona. Lo dice anche la Cassazione”. Pierantonio Zanettin è senatore di Forza Italia. Ha depositato un disegno di legge per limitare la circolazione dei materiali contenuti in smartphone e pc sequestrati agli indagati, considerandoli al pari di intercettazioni.

Le pare possibile che siano pubblicate chat di colloqui privati tra indagati o con altre persone?

Non è la prima volta. È la storia giudiziaria di questo paese. In tante occasioni a seguito di indagini penali sono acquisite conversazioni, video e chat penalmente non rilevanti che però confluiscono nel fascicolo processuale e diventano di pubblico dominio. Tra i casi più recenti ricordo le chat in cui Luca Zaia esprimeva giudizi su Andrea Crisanti o i “video hard” del sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei.

Quindi ritiene scorretto quanto sta accadendo sulle pagine di Panorama e La Verità nei confronti di Mediterranea...

Non entro nel caso specifico, che non ho esaminato. Non faccio una battaglia per questo o quello. Quando tali dati sono acquisiti scatenano il voyeurismo di giornalisti e opinione pubblica. Di volta in volta la tifoseria di destra o sinistra si esalta in base a chi è coinvolto. A me interessa andare oltre, perciò ho depositato in Senato un disegno di legge per limitare il fenomeno rispetto ai sequestri di smartphone e dispositivi. Non sono regolati per bene.

La legge non protegge la privacy degli indagati?

Non adeguatamente. C’è un vuoto normativo in parte colmato da alcune pronunce di Cassazione e Corte costituzionale. Perché quando vengono sequestrati smartphone o computer sono trattati come elementi di reato. Come un fucile che ha sparato, per esempio. Ma dentro ci sono foto, video e informazioni private che riguardano la sfera complessiva della persona. Perciò la Cassazione e la dottrina più raffinata dicono che il sequestro va trattato come le intercettazioni. La ratio del mio testo è che da questi dispositivi bisogna selezionare solo ciò che è penalmente rilevante e serve per l’inchiesta. Tutto il resto deve finire nell’archivio riservato della procura, come con le intercettazioni telefoniche a partire dalla riforma Orlando.

Se venisse fuori che oltre alle chat sono stati pubblicati brogliacci di telefonate o colloqui con gli avvocati difensori sarebbe più grave?

Il principio è lo stesso, ma bisogna vedere se questi brogliacci sono parte del fascicolo o, come successo in passato, filtrano dalle procure. In tali casi si fanno denunce per violazione di segreto ma, ahimé, tante volte ottengono ben pochi risultati.

Chi è responsabile della protezione di queste conversazioni?

Dipende se sono confluite nel fascicolo o meno. In quello relativo a Tidei erano finiti video senza alcuna attinenza, in sede di selezione il pm non aveva valutato bene. Nella vicenda di Zaia, invece, le chat che riguardavano Crisanti erano tra quelle non rilevanti e quindi c’è stata una violazione del dovere di vigilanza, tendenzialmente in capo al procuratore della Repubblica. Dipende da caso a caso, non si può fare di tutta l’erba un fascio.

Rendere di pubblico dominio simili materiali a ridosso dell’udienza preliminare rischia di influenzare il giudice?

Non direi, i giudici sono sufficientemente impermeabili a questi comportamenti o informazioni. Il problema è la privacy. Credo possa diventare pubblico solo ciò che è penalmente rilevante, il resto va cancellato. Poi è diverso per i reati di mafia e terrorismo, dove può esserci un margine più ampio sulle cose rilevanti. La questione è molto complessa, non va fatta una battaglia a favore di Zaia o Casarini. Sono strumenti estremamente intrusivi e serve grandissima tutela. Non si possono intaccare i diritti civili dei cittadini.