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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 16 marzo 2023

L’ex sindaca: “L’Occidente non ha mai capito nulla del mio Paese. Era qui contro Al Qaeda, non per noi”. “Sui diritti: “Ottenere un po’ di libertà per le donne serve a rabbonire chi chiede conto delle spese militari”.

Zarifa Ghafari è nata a Kabul nel 1994. É la più grande di otto figli. Da bambina ha studiato un anno nelle scuole clandestine sotto il primo Emirato Islamico, dopo l’invasione del 2001 il padre - che era un soldato - è stato trasferito a Paktia, una roccaforte talebana ai confini col Pakistan. Quando un attacco suicida contro la scuola l’ha quasi uccisa i suoi genitori le hanno imposto di tornare alle scuole nascoste, una volta tornata a Kabul, anni dopo, la sua famiglia le ha permesso di studiare all’estero. Si è laureata in Economia in India, e poi è tornata a casa per contribuire allo sviluppo del suo Paese. Giovanissima, fa domanda per la posizione di sindaco a Wardak, la città natale di suo padre. Supera i risultati di tutti i candidati uomini, ma impiega nove mesi ad assumere l’incarico, per le proteste della comunità, che non accettava una donna nel ruolo di sindaco.

Era il 2018 e lei aveva 25 anni. Suo padre, comandante veterano delle forze speciali sotto il governo precedente, è stato assassinato nel 2020. Zarifa è sopravvissuta a tre attentati. Quando i taleban conquistano Kabul, nell’estate del 2021, Zarifa Ghafari fa di tutto per mettere in salvo la sua famiglia. Viene evacuata anche lei a Dusseldorf, insieme al fidanzato Bashir Mohammadi. Mesi dopo, decide di tornare nell’Afghanistan dei taleban per una missione con la sua organizzazione umanitaria, vuole capire come aiutare ancora la sua gente e scopre la “zona crepuscolare dei taleban”. La povertà da un lato, la sicurezza dall’altra. Da quando il regime ha inasprito le politiche non è più tornata nel suo Paese. Zarifa Ghafari ha scelto di raccontare la sua vita in un libro, Zarifa, La battaglia di una donna in un mondo di uomini, pubblicato in Italia da Solferino. Abbiamo dialogato con lei al telefono, ci ha risposto dalla sua casa in Germania.

Partirei dal suo esilio, Zarifa, cosa significa questa parola per lei?

“Naturalmente sono riconoscente per la vita che sto conducendo, vivo in un Paese sicuro, ho il mio libro, un film racconta la mia storia, ma quando mi guardo intorno, ecco è molto semplice: mi sento un’estranea. Vivere in esilio non significa solo lasciare la propria casa, significa lasciare indietro la parte migliore di te stessa che resta altrove. Non mi sento solo distante dal mio Paese, mi sento spesso distante da un pezzo di me stessa. Potremmo fare un viaggio nelle centinaia migliaia di pagine scritte nel tentativo di definire la parola esilio, ma poi, quando vai al fondo di questa esperienza, è molto semplice: non sei a casa. Non ti senti a casa. Questo è l’esilio”.

Lei è nata nel 1994, un pezzo della sua memoria è determinato dal primo Emirato Islamico, e dall’inizio della guerra. Chi era la piccola Zarifa?

“Ero molto piccola, ho dei ricordi di una vita in bianco e nero, e i ricordi che mi ha trasmesso mia madre quando sono cresciuta. Mia madre prima dei taleban era un’insegnante, e non ha mai smesso di ricordarmi l’importanza dell’istruzione, ho passato il mio primo anno di scuola nelle scuole clandestine, l’anno dopo è iniziata la guerra. Ricordo la me bambina camminare in strada, dopo le bombe. Mi mandarono a comprare il pane nel forno del quartiere, a cento metri di distanza da me c’era un cadavere. Notai che una mano e un piede erano smembrati un po’ distanti dal corpo. Era di un combattente talebano. Avevo sette anni. Questa è stata l’infanzia”.

Nelle prime pagine del libro riesce a condensare la sua biografia e incrociarla alle contraddizioni degli ultimi vent’anni. Parte dall’oggi, da quando è tornata nell’Afghanistan dei taleban e ha visitato il villaggio di Changa. Scrive: “La maggior parte dei servizi, lì, compresa la scuola è opera dei taleban, nel 2001 a Changa non si sarebbero neanche accorti che il regime di Kabul era cambiato se non fosse stato per gli attacchi aerei e i raid notturni iniziati subito dopo. Nessuno si era mai preso la briga di asfaltare le strade, finanziare un mercato, costruire una rete fognaria....

“Il villaggio di Changa è solo uno degli esempi, uno su migliaia, del Paese che la comunità internazionale non ha mai conosciuto, pensando, o meglio volendo credere che l’Afghanistan fosse Kabul. Per vent’anni gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno ripetuto di aver trionfato sui taleban, sbandierando il controllo su Kabul, ma la capitale non è l’Afghanistan, come New York non è l’America”.

Cos’è che l’Occidente non ha capito del suo Paese?

(Ride a lungo) “L’Occidente non ha capito niente dell’Afghanistan. Dalla storia alla natura, dalle montagne alla gente. Dalla situazione geopolitica alla vita sociale, i nostri usi, costumi, niente. L’Occidente non ha capito perché non ha voluto conoscere, non ha avuto curiosità di capire la complessità del Paese. E anche i pochi che hanno cercato di entrare nelle differenze e nelle contraddizioni afgane, alla fine non se ne sono curati. Nessuno ci ha mai davvero chiesto quali fossero i nostri obiettivi, tutti i cosiddetti alleati erano lì - alla fine dei conti - per curare i loro interessi, non quelli della popolazione locale. Volevano tutelare la loro sicurezza, la loro ricchezza, non la nostra. E con questo non sto dicendo che non abbiano investito denaro, risorse o non abbiano subito perdite. Sto dicendo altro, cioè, che questi sforzi non erano diretti a noi, ma a loro stessi. Erano lì contro Al Qaeda, non per noi. Sono due cose molto diverse. Erano lì contro Osama bin Laden, non per la mia gente. Se non ci fosse stata la tragedia delle Torri Gemelle, avrebbero continuato a non curarsi di noi. Due anni fa era arrivato il momento per la comunità internazionale di occuparsi d’altro, dell’influenza cinese, del regime iraniano e oggi anche della guerra in Ucraina. Se ne sono andati, e a noi restano i taleban”.

Le capiterà, di tanto in tanto, di ascoltare le dichiarazioni dei leader occidentali preoccupati per le sorti delle donne costrette a non studiare, né lavorare. Escluse ormai dalla vita pubblica...

“Mi capita spesso. Accendo la televisione, le dichiarazioni per l’8 Marzo, oppure il giorno in cui i taleban impongono un nuovo divieto e alcuni leader di fronte alle telecamere si dicono preoccupati del rispetto dei diritti umani in Afghanistan. Provo un sincero disgusto. Non si sono occupati dei diritti umani per vent’anni, non hanno mai compreso i valori che fondano le nostre tradizioni. Non nego, anzi so, quanto fossero corrotte le istituzioni precedenti, quante responsabilità abbiano nel crollo del Paese, ma so che la Nato è stata in Afghanistan per vent’anni a recitare slogan, con diplomatici e funzionari nascosti per anni nei compound e nelle ambasciate, senza vedere, senza capire e certamente senza controllare come venissero spesi i soldi che portavano. Quindi sentirli parlare oggi di diritti umani è ridicolo”.

Scrive che l’equilibrio tra progresso delle città e l’arretratezza dei villaggi è sempre stato delicato, e appena gli Stati Uniti hanno cominciato a negoziare con i taleban si inclinò a favore delle campagne. La Kabul che aveva imparato ad amare, scrive, era un miraggio anche se avevate creduto fosse reale. Un’ammissione di grande sincerità. Ci spiega in cosa consisteva il miraggio?

“Era un’illusione comune. Gli Occidentali per vent’anni hanno avuto bisogno di qualche prova per anestetizzare le loro opinioni pubbliche. Dovevano rispondere alla domanda: cosa stiamo facendo ancora lì? Continuare a restare in Afghanistan era sostenibile dal loro “pubblico” solo a fronte di qualche conquista, per questo hanno usato le donne. Ottenere un po’ di libertà per le giovani afgane serviva a rabbonire chi chiedeva conto delle spese militari”.

La green zone di Kabul era lo specchio di tutto questo: un quartiere che prima era afgano e poi è diventato una zona iper-protetta, fortificata. Quando un afgano provava a entrare lì non si sentiva più a casa, sentiva che quella era diventata l’espressione della corruzione e dell’ipocrisia. Non ricordo nessun ambasciatore, console, funzionario, camminare nel Paese, parlare con la gente...

“Provate a immaginare come doveva sentirsi un comune cittadino di fronte a quell’espressione di privilegio quando a quattro, cinque chilometri di distanza si moriva di fame e le persone erano terrorizzate dalla guerra o dagli attentati”.

Pensate che un afgano, alla luce di questi ricordi, possa ancora fidarsi della comunità internazionale? Nell’aprile del 2021 ebbe occasione di incontrare il segretario di Stato americano Antony Blinken, era tra le funzionarie del governo invitate all’ambasciata statunitense. Espose a Blinken tutte le sue preoccupazioni per gli accordi di Doha e lui rispose: “Se i taleban non mantengono le promesse in merito all’istruzione delle donne non sosterremo il loro governo”. Cos’ha capito in quel momento?

“Che ci avrebbero abbandonato. Ero realista, le parole di Blinken stavano dicendo alla mia gente non solo che se ne stavano andando, ma che il Paese sarebbe inevitabilmente finito in mano talebana. É stato terribile. Vedevo di fronte a me il peggior scenario possibile mentre continuavo a ripetermi che non poteva essere, non poteva accadere davvero. Ma mentre me lo dicevo, era già accaduto”.

Per questo dice di aver cominciato a capire perché per gli afgani la pace repressiva possa essere preferibile alla libertà violenta che avevano vissuto per vent’anni?

“Noi afgani viviamo in guerra da decenni. La guerra ci ha modellati perché ci siamo abituati a essa e perché abbiamo sperato ogni giorno della nostra vita che finisse. Bene, è finita, ma nel peggiore dei modi possibili. Oggi la gente ha smesso di vedere dozzine di morti al giorno per le strade. C’è una forma di pace che ha un prezzo spaventoso”.

Il prezzo della pace e della sicurezza è la mancanza di diritti?

“Vede, quando qualcuno ha perso così tanto, ed è così tanto stanco, comincia a pensare che vada bene qualsiasi pace. Perciò molti pensano: non ci sono università per le ragazze, non ci sono scuole per le bambine, non ci sono lavori per le donne. Ok. Ma almeno siamo vivi. Possiamo biasimarli?”.

La sua vita è stata esposta alla violenza per anni. Lei è sopravvissuta tre volte, un attentato in città, due tentativi di ucciderla. Il suo corpo porta i segni del tentativo di eliminarla. Ha perso suo padre, vittima di un omicidio. Una delle frasi che più mi hanno colpita del suo libro è “gli attacchi terroristici hanno fatto di me un’afgana”. Cos’è la paura per lei Zarifa?

(Esita a lungo, prima di rispondere) “É difficile dire cosa sia la paura quando ti sei abituata a essa. Non vivi più come una persona normale, non parlo solo di me, o della mia famiglia. Tutte le famiglie afgane piangono una perdita. Piangono le vedove, piangono gli orfani. Ti abitui all’odore della paura, che cambia le tue aspettative sul futuro perché lo allontana. Negli anni ho imparato a farmi guidare dal coraggio, ma è difficile lasciare andare via quel terrore che resta stretto da qualche parte, dentro di te”.

Vorrei portarla in Italia, per un momento. La scorsa settimana 81 persone sono morte annegate al largo delle nostre coste. La maggioranza arrivava dall’Afghanistan, tra loro c’erano molti bambini. Di chi è la responsabilità di queste morti?

“Di ogni singola persona, ogni Stato, ogni istituzione che è stata coinvolta nella vita del mio Paese per vent’anni senza curarsi di come sarebbe finita. Di ogni singolo afgano che per vent’anni ha preferito arricchirsi con i soldi occidentali invece di migliorare il nostro paese. É un fallimento di tutti”.