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di Barbara Rosina

huffingtonpost.it, 7 gennaio 2024

Certamente sistemi processuali e legislativi diversi dal nostro, ma la storia di Beniamino Zuncheddu, cinquantottenne ex allevatore di un paese del cagliaritano che ha trascorso 32 anni in carcere a causa di una condanna definitiva all’ergastolo, ha richiamato alla mente le storie di persone ingiustamente condannate. Di carceri, di violenza tra le sbarre, di malagiustizia.

In queste giornate d’inizio d’anno sfogliando i giornali, ascoltando la radio, gettando un rapace sguardo su online e media di ogni sorta, è stato difficile non pensare a vecchie sceneggiature hollywoodiane e non solo molto amate dal pubblico. Me compresa.

Certamente sistemi processuali e legislativi diversi dal nostro, ma la storia di Beniamino Zuncheddu, cinquantottenne ex allevatore di un paese del cagliaritano che ha trascorso 32 anni in carcere a causa di una condanna definitiva all’ergastolo, ha richiamato alla mente le storie di persone ingiustamente condannate. Di carceri, di violenza tra le sbarre, di malagiustizia…

Zuncheddu è stato scarcerato una settimana fa grazie alla revisione processuale chiesta dal suo avvocato, ma si stima che in Italia siano numerosi i casi di errori giudiziari e ingiuste detenzioni, fortunatamente in calo negli ultimi anni. Quest’uomo che ha varcato la soglia di una cella all’età di 27 anni, il 30 dicembre 2023 ha lasciato il carcere di Uta, nella zona occidentale di Cagliari, e ha iniziato a camminare da solo verso casa, a Burcei, un comune distante circa 60 chilometri. In un’intervista ha chiesto che ci si occupi di tutti i detenuti e non soltanto della sua situazione - il caso è stata una vera e propria battaglia dei Radicali - denunciando il degrado delle strutture penitenziarie nelle quali è stato in questi lunghi anni e l’assenza di cure mediche.

Impossibile non scorgere nelle sue parole il tema della violenza istituzionale: nelle carceri, nelle aule dei tribunali, nei comportamenti violenti delle forze dell’ordine, nella gestione dei migranti, nelle strutture di ricovero delle persone con problemi di salute mentale o di tossicodipendenza, nel servizio sociale.

Lo scorso anno ci siamo interrogati come assistenti sociali sulla violenza dello Stato, in ogni sua forma. Avevamo insistito sul fatto che ogni comunità professionale, quando viene conclamata una forma di violenza addebitabile a un proprio membro, dovrebbe schierarsi dalla parte della vittima e non coprire mai un colpevole.

Avevamo chiesto al Governo - con una lettera indirizzata alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, un tavolo istituzionale a Palazzo Chigi per capire, prevenire, intervenire, cambiare. Lettera, ad oggi senza risposta e che rilanciamo con forza. Anche sulla base delle parole che la Presidente durante la conferenza stampa di fine anno, spostata all’inizio del 2024, ha voluto dedicare alla vicenda Zuncheddu e alla quantità di situazioni simili: “mille casi di ingiusta detenzione all’anno”.

Rubare alla cronaca la vicenda di Beniamino oggi, significa parlare di tutte le storie di ingiustizia, di privazione dei diritti, situazioni difficili da vedere, accettare, affrontare, di persone che vivono in condizioni di estrema vulnerabilità e fragilità, isolate ed escluse dalla società, bersagliate da riprovazione e condanna, commenti denigratori.

Gli assistenti sociali quotidianamente sono a fianco di situazioni simili, sono impegnati a ridurre gli ostacoli che le persone si trovano di fronte attraverso l’ascolto delle singole storie. Continuiamo a ripetere, instancabilmente, che occorre lavorare sulla prevenzione, sulla strutturazione di servizi accessibili a tutti, sulla scuola, sulle realtà associative dei territori, consapevoli che il disagio e la devianza non nascono dal nulla, non si manifestano sempre nello stesso modo, ma sono legati al contesto in cui le persone vivono, al modo in cui sono aiutate ad affrontare le situazioni di difficoltà.

Perché l’Autorità non faccia ingiustizia, perché le persone non siano abbandonate, perché si agisca sui fattori che possono determinare situazioni di devianza, perché le persone in carcere possano avere un trattamento coerente con il valore rieducativo della pena, servono formazione, risorse, informazione, semplificazione e non solo l’incremento dei padiglioni carcerari o degli agenti di polizia penitenziaria.

Tutto questo, forse, allevierà la piaga delle morti tra le sbarre: 67 da gennaio al 10 dicembre 2023 - secondo la drammatica mappa di Ristretti orizzonti resa nota nei giorni scorsi - tutto questo, se fatto da domani e non quando un uomo viene rilasciato dopo 32 anni, chiama in causa ogni istituzione. Dal vertice, da chi governa, a noi. Tutti. Aspettando la sentenza, buona vita Beniamino.