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di Dario Di Vico

Corriere della Sera, 22 agosto 2022

Se nel centrosinistra qualcuno nei giorni scorsi si era illuso che la nuova Cei targata Zuppi potesse/volesse far da argine contro l’avanzata elettorale delle destre, o almeno stroncasse l’uso salviniano della simbologia religiosa a fini di partito, dovrà cambiare passo e registro.

Prendendo la parola dal palco di Rimini il neo-presidente dei vescovi italiani non ha lasciato alcun margine di dubbio: il lavoro che attende la Chiesa italiana - ha fatto capire - è di più largo respiro e di più lungo esito. Non può farsi carico dei tempi e delle scadenze della transizione italiana e soprattutto delle contraddizioni di un quadro politico nel quale è difficile combinare gli umori dell’elettorato e gli impegni di politica economica presi con l’Europa.

La Chiesa lavora per diffondere “la passione per l’uomo” che volendo potremmo arrivare a tradurre come passione per la polis, per la comunità ma questa tensione immessa nel calendario italiano finisce per assomigliare a una traversata nel deserto. Formula assai cara ai politici di qualche generazione fa, quando volevano indicare una stagione di semina più che di raccolto.

Nessuno può mettere in dubbio come la stessa formazione politico-culturale di Zuppi - made in S.Egidio - lo porti a privilegiare i temi del welfare e della lotta alla povertà e quanto la sua sensibilità sia lontana dai populismi di qualsiasi specie ma non è per la via elettorale che l’Italia degli anni Venti potrà diventare d’incanto più compassionevole, giusta e inclusiva. Almeno non grazie a un appoggio esplicito dei vescovi invocato per tagliare la strada al sovranismo. Serve un ampio e oscuro lavoro in sala macchine per ricucire la società scossa dalle pandemie, per rivalutare la cultura comunitaria contro l’esasperazione dell’individualismo, per mettere al primo posto l’esperienza della vita e zittire “i tecnici di laboratorio” ovvero quelli che Zuppi considera i tanti grilli parlanti di questa nostra epoca. E davanti all’ampiezza di questo lavoro la Cei non pare volersi tirare indietro sia prendendo come riferimento continuo della propria presenza il popolo delle periferie sia accollandosi persino le sfide più delicate della seconda modernità: “Non abbiamo capito ancora cosa sia davvero l’uomo digitale”.

All’uditorio riminese che lo ha ricompensato con un interminabile applauso il presidente della Cei ha indicato come segnalibro l’enciclica “Fratelli tutti” di papa Bergoglio, laddove al cristiano viene indicata la via dell’amicizia sociale verso ogni essere umano e alla politica viene chiesto di avere come anima “la carità sociale”. Di suo Zuppi ha aggiunto un elogio senza se e senza ma del Terzo Settore per la capacità che ha dimostrato nella pandemia di interpretare la sofferenza e il disagio e lo ha indicato come “interlocutore decisivo per le istituzioni presenti e future. Sottolineo “future”.

Ma, e la domanda è più che lecita, la Chiesa italiana dell’anno di grazia 2022 è in grado di farsi carico di quest’impegno? Non è - come ha avuto modo di scrivere sul Corriere Andrea Riccardi - che spesso i discorsi ecclesiastici non sono capaci di parlare della vita comune? Insomma, posto che non abbia ancora trovato le “nuove parole per incrociare il discorso pubblico” (sempre Riccardi) e che quindi non sarà protagonista nell’immediato, saprà però diventare quel sarto della società italiana di cui c’è un grandissimo bisogno?

È evidente che nella risposta a questa domanda si gioca la presidenza Zuppi che appare come un fattore di netta discontinuità e non solo in ambito religioso. La sua è un’empatia contagiosa (esiste addirittura una pagina Facebook “Zuppi che fa cose”), i ciellini ieri lo hanno amato come pochi e lui li ha salutati leggendo un passo di don Giussani ma adesso arriva il difficile: riconnettere la struttura ecclesiale con le periferie è in fondo anch’esso un programma ambizioso.