di Marco Mobili e Giovanni Parente
Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2015
I nodi si scioglieranno solo nel Consiglio dei ministri del 20 febbraio quando, oltre al provvedimento sulla certezza del diritto, saranno esaminati anche gli altri provvedimenti attuativi della delega, come reso noto ieri dal premier Matteo Renzi nella sua e-news.
La soluzione più ardita - sia politicamente che tecnicamente - è l'abbassamento della soglia di non punibilità di tutti i reati per chi evade sotto il 3% dell'imponibile dichiarato o dell'Iva evasa. L'ipotesi più tranchant e più difficile da giustificare politicamente è l'eliminazione del tanto contestato articolo 19-bis inserito nell'ultimo giro di tavolo a Palazzo Chigi il 24 dicembre.
Alla fine, quindi, potrebbe prevalere una soluzione di compromesso. La via di mezzo consentirebbe di salvare la "faccia" e la norma, giustificando così le scelte fatte alla Vigilia di Natale, ma prevedendo l'inapplicabilità della soglia nei casi in cui la violazione configuri una frode fiscale. In questo modo, i grandi evasori sarebbero puniti e la norma perderebbe l'etichetta di "salva-Berlusconi".
L'amministrazione finanziaria e lo stesso presidente emerito della Consulta, Franco Gallo, considerano la soglia del 3% tecnicamente errata. Ne parlerà oggi nella riunione d'urgenza proprio la commissione di esperti e tecnici guidata da Gallo per rivedere la stesura finale del decreto sulla certezza del diritto e tutte le possibili criticità.
Nella formulazione attuale, la disposizione consente la non punibilità se l'imposta evasa non supera il 3% di imponibile dichiarato per tutti i reati tributari, compresi quelli di dichiarazione fraudolenta, per di più realizzata anche con particolari artifici, dunque con il dichiarato intento di frodare e ingannare il fisco. Quindi, secondo alcune delle voci critiche levatesi in questi giorni, la disposizione si tramuterebbe, di fatto, in un aiuto agli evasori più pericolosi con il rischio di minare la deterrenza dell'intero impianto penale-tributario.
Per l'amministrazione finanziaria, poi, la soglia del 3% contraddice di fatto l'intera ratio del decreto sterilizzando il meccanismo delle soglie che lo stesso decreto introduce e rivede per le differenti tipologie di reato tributario, anche quelle dove la violazione è più grave.
Motivi che porterebbero a pensare a una completa cancellazione della norma, se non fosse per un retromarcia politicamente difficile da giustificare soprattutto alla luce del fatto che la revisione del testo è stata rinviata al 20 febbraio.
Ecco perchè la "mediazione" potrebbe portare a lasciare in vita la soglia magari rivedendo la percentuale anche alla luce delle indicazioni che potrà fornire il Parlamento una volta che il decreto approderà all'esame delle Camere, ma prevedendo espressamente l'esclusione della non punibilità quando l'illecito configura una frode fiscale. Del resto, proprio Renzi l'ha definita ieri "una norma semplice che rispetta il principio di proporzionalità" lasciando intendere tra le righe che la soluzione intermedia potrebbe essere quella più quotata.
Lo spostamento al 20 febbraio consentirà di avere più tempo per una verifica anche sugli altri nodi del testo licenziato a Natale. Prima di tutto va ricordato che la soglia del 3% non è l'unica clausola di esclusione di punibilità ma ce n'è un'altra che estingue il reato: chi chiude i conti con il fisco prima del dibattimento in primo grado rischia di mettere su piani differenti i contribuenti perché le disponibilità finanziarie per effettuare l'adesione all'accertamento potrebbero fare la differenza.
Altri punti controversi (si veda anche la grafica in pagina) riguardano poi essenzialmente le soglie: quella minima di mille euro al di sotto della quale le false fatture sono depenalizzate, quella triplicata sugli omessi versamenti di Iva e ritenute (che il provvedimento del 24 dicembre puntava a portare da 50mila a 150mila euro) e i limiti più alti a partire dai quali scatta il reato di dichiarazione infedele. Tutti aspetti su cui i critici intravedono la possibilità di indebolire l'effetto deterrenza in chiave antievasione delle norme penali-tributarie.
A ciò si aggiunge poi la questione del raddoppio dei termini di accertamento. Lo schema di Dlgs non fa riferimento al regime transitorio (ipotesi circolata nei giorni precedenti) per il 2015 e il 2016, che avrebbe consentito al fisco la presentazione o la trasmissione della denuncia rispettivamente entro due anni e un anno dal termine di decadenza. In più la legge delega chiede, comunque, di salvaguardare gli effetti degli atti di controllo già inviati al momento dell'entrata in vigore delle nuove norme. E anche questo sarà un aspetto da pesare attentamente per non rischiare altri infortuni.
di Giusi Fasano
Corriere della Sera, 7 gennaio 2015
L'incontro in carcere tra il padre del bimbo ucciso e la moglie accusata dell'omicidio. Lui: "Chi stai coprendo? In paese parlano di un amante". Veronica: "Credimi, ti prego". Carcere femminile di Agrigento. Un uomo e una donna si avvicinano l'uno all'altra, nella sala colloqui. Lei gli va incontro, vorrebbe un abbraccio, una carezza, vorrebbe sentire il calore delle mani di quell'uomo.
Ma gli agenti della polizia penitenziaria che seguono a distanza l'incontro vedono lui ritrarsi. "No, Veronica, per favore... non posso". E lei capisce da quel gesto che questa partita l'ha perduta. Suo marito, l'uomo che l'ha tanto amata, non le crede più.
Davide Stival ci ha provato, ieri. Ha voluto guardare negli occhi la donna che per dieci anni ha creduto moglie e madre esemplare, la stessa che la procura di Ragusa accusa di aver ucciso il figlio Lorys, otto anni, strangolato e buttato in un canale a Santa Croce Camerina, nel Ragusano. "Ho voluto darle una possibilità" ha detto Davide al suo avvocato, Daniele Scrofani Cancellieri. "Ma lei insiste con le bugie e per me i ponti si chiudono qui".
Un'ora assieme, la prima da quando Veronica Panarello è in carcere. Lei lo aveva supplicato più e più volte: "Ti prego, Davide, non abbandonarmi. Io non ho ucciso il nostro Lorys". Lui ci ha pensato a lungo e alla fine ha deciso che la madre del suo bambino perduto e di Diego, il più piccolo di casa, meritava una chance. Una specie di prova del fuoco per quest'uomo mite che voleva capire, più di quanto non sappia già, dagli occhi e dalla voce di sua moglie.
"Dimmi la verità, non raccontarmi bugie e io cercherò di aiutarti, proverò farti uscire da qui. Dammi la possibilità di aiutarti, te lo chiedo per favore..." l'ha supplicata. "Ma perché non mi credi? Non sono stata io: quella mattina l'ho portato a scuola, è questa la verità" ha giurato lei ancora una volta.
Ma nella mente di Davide scorrevano le immagini delle telecamere di Santa Croce, quelle viste assieme agli inquirenti la notte che Veronica è stata arrestata: la Polo nera di sua moglie che seguiva un percorso diverso da quello raccontato da lei... la sagoma di Lorys che usciva di casa e invece di salire in macchina tornava indietro... l'auto che correva in direzione del Vecchio Mulino, proprio dove c'è il canale.
Le domande arrivano da sole: "Ho i visto i video, perché ti ostini a raccontare un percorso che non hai fatto?". "Non ho detto bugie. Ho fatto la strada che ho detto". "Ma si vede la macchina e non va verso la scuola".
"Io l'ho portato a scuola". "Non mentirmi, Veronica. Si vede Lorys che torna a casa. Non è mai andato a scuola". "Non è vero, si vede un'ombra e non è Lorys. Io l'ho lasciato vicino alla scuola".
Veronica piange, è fin troppo evidente che lui non crede a una parola. Chiede di Diego, vorrebbe vederlo, è disperata. Ma Davide non segue la sua emotività, la guarda con distacco, la incalza. "Stai cercando di coprire qualcuno? C'è qualcuno che ti minaccia o che minaccia Diego? In paese si dice che avevi un amante, che forse stai proteggendo lui... Si dice che Lorys forse ha visto qualcosa. Può essere per questo che non vuoi parlare? Dimmi come stanno le cose, ti prego. A questo punto me lo puoi dire".
Ancora una risposta decisa, razionale: "Non sto coprendo nessuno. E se anche ci fosse stato un amante ti pare che potrei pensare di coprire lui davanti al nostro bambino ammazzato? Si può mai pensare di ammazzare un figlio per salvare il matrimonio? Mi conosci. Non so come fai a pensare a quello che si dice in paese dopo dieci anni passati con me, non posso credere che tu mi pensi capace di una cosa del genere".
Un'ora e un milione di parole rimaste in sospeso. Il tempo è bastato appena per capire che le strade di Veronica e di Davide sono ormai divise, forse per sempre. "Tornerai a trovarmi?" "No, mi dispiace. Non posso più sentire le tue bugie". Carcere femminile di Agrigento. Un uomo e una donna si salutano nella sala colloqui. Sanno tutti e due che potrebbe essere un addio.
risponde Furio Colombo
Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2015
Caro Furio Colombo, in un recente articolo, Valter Vecellio definisce i metodi di cattura, prigionia e interrogatorio che hanno segnato l'America di Bush uno dei tanti frutti perversi della "Ragion di Stato", la stessa che viene invocata per non svelare segreti e non rendere pubblici certi documenti. Sono convinto anch'io (e dunque d'accordo con i Radicali) che la "Ragion di Stato" è l'impenetrabile scudo di decisioni arbitrarie. Ma la "Ragion di Stato" non ha impedito le rivelazioni americane. Allora perché non avviene anche nel nostro Paese?
Gianfranco
Ho ascoltato l'articolo di Vecellio letto nella rassegna stampa mattutina di Radio Radicale (e che era stato pubblicato quel giorno, 4 gennaio, da "Il Garantista"). Sono ovviamente d'accordo sia con la campagna che i Radicali conducono da sempre contro la sparizione di interi ed essenziali fatti e decisioni della vita italiana sotto il cemento del segreto di Stato, sia con la narrazione della esemplare vicenda americana: la senatrice Diane Feinstein, entrata in possesso di documenti sul comportamento di vari diversi servizi impegnati nella lotta al terrorismo, per ragioni del suo lavoro parlamentare, ha preso la decisione di renderli pubblici, perché disumani, con l'intento di denunciare una violazione grave delle leggi americane e della Costituzione del Paese.
È stata accusata di tradimento da Dick Cheney, un personaggio disposto a tutto, che era stato vice presidente di George W. Bush e che, con l'occasione e il pretesto di difendere il suo capo, adesso attribuisca a Bush tutta la responsabilità di ciò che, di illegale, è accaduto sotto la sua presidenza.
Di suo era arrivato al punto da far trapelare l'affiliazione "coperta" alla Cia - dunque creando un immediato pericolo di vita - contro personaggi che avevano smentito lui e Blair e avevano avversato la guerra in Iraq, dimostrando che non vi erano armi di distruzione di massa.
Ha ragione di nuovo Vecellio quando ricorda che si deve a Blair e a personaggi come questi se una guerra terribile ma evitabile è scoppiata in anticipo per sventare l'accordo quasi perfezionato di esilio e di abbandono del potere per Saddam Hussein a cui avevano lavorato fin quasi al successo i Radicali italiani. Tutto ciò però non era segreto di Stato ma politica cieca, che ha condotto migliaia di americani a una guerra rovinosa e a una morte inutile, e ha provocato il disastro che dura tuttora e minaccia il crollo di quella parte del mondo.
Per questo la senatrice Feinstein ha potuto rivelare ciò che ha rivelato senza incorrere in alcuna accusa di tradimento (la violenza di Cheney è in vista della elezioni presidenziali del dopo Obama). Lo ha fatto perché ha coraggio e ha voluto tener fede al giuramento costituzionale di rispondere ai suoi elettori.
Molti italiani avrebbero potuto farlo in circostanze simili, ma hanno ritenuto utile e prudente tacere. E vorrei difendere Obama dalla accusa di "non aver mosso un dito". L'avversione di alcuni potentati del Pentagono contro il presidente è storia nota quasi solo in America e poco narrata anche in quel liberissimo Paese.
Infatti Obama stesso ha scelto la strada di aggirare quasi in silenzio certi ostacoli, per esempio svuotando a poco a poco Guantánamo con ordini presidenziali che non passano dal Congresso, sulla base di vari espedienti sostenuti di volta in volta dai media liberal e avversati ferocemente da quella Fox Television che è la fonte delle accuse di Cheney. Per capire la gravità della opposizione che assedia Obama si pensi che un presidente che ha mantenuto tutte le sue promesse, cominciando dalla riforma del sistema sanitario, e ha portato a una crescita del suo paese unica al mondo, del 5 per cento, ha perduto la maggioranza alla Camera e al Senato.
Ma è vero che il segreto di Stato pesa su quel Paese e sul nostro, dove però è "dichiarato" dieci volte di più che negli Usa, dove non si fanno avanti senatori come Feinstein, dove da decenni si bloccano inchieste e processi e accertamenti di fatti, in molti casi gravissimi. È questa la battaglia, combattuta da Pannella e dai Radicali per decenni, e sempre attualissima, in difesa dello Stato di diritto contro la ragion di Stato, di cui ha parlato Vecellio, nel suo ultimo articolo.
Furio Colombo
di Liana Milella
La Repubblica, 7 gennaio 2015
Sparisce la reclusione per i giornalisti ma in cambio la nuova legge prevede multe da migliaia di euro, rettifiche senza diritto di replica, "oblio" che cancellerà i fatti. Scatta una raccolta di firme contro.
Per una volta, contro i giornalisti, sembrano proprio tutti d'accordo. Niente divisioni politiche in questo caso. La legge sulla diffamazione, una delle peggiori tra le tante che si sono succedute ormai da un decennio in Parlamento, incombe alla Camera. Atto 925-B. Se dovesse passare così com'è adesso, il bavaglio per la stampa, anche e soprattutto per quella online, è assicurato.
Multe da migliaia di euro, rettifiche ad horas, ma soprattutto quell'odioso "diritto all'oblio" che non c'entra nulla con la legge, ma che finirà per cancellare la memoria stessa di centinaia di fatti. Il giornalismo scomodo ha le ore segnate, cronisti ed editori rischiano di immolare sull'altare della cancellazione del carcere la libertà stessa di fare questo mestiere, senza gioghi e senza incubi.
Pare proprio che non ci sia nulla da fare. Intorno alla legge sulla diffamazione, già approvata al Senato e oggi in commissione Giustizia alla Camera in attesa degli emendamenti, si registra soprattutto consenso.
Perfino i rappresentanti della categoria, quando sono stati ascoltati, hanno dato la netta impressione che, sull'altare del carcere definitivamente abolito, sarebbero disposti ad accettare una legge pesante, che sta mettendo in profondo subbuglio tutto il mondo dell'informazione online.
A scatenare l'allarme è soprattutto la previsione di un meccanismo rigido della rettifica, il "prezzo" che ogni tipo di stampa, dai quotidiani, alle testate registrate sul web, ai libri, alla tv, dovrà pagare per evitare le manette.
Basta leggere questa lapidaria indicazione contenuta nel testo: "Il direttore è tenuto a pubblicare la rettifica gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo". Inutile cercare di far capire che per una pena del carcere rara come l'araba fenice, cadrà addosso a tutti i giornalisti e ai direttori italiani un obbligo di rettifica capestro. La nuova legge impone di pubblicare la nota del presunto diffamato non solo entro 48 ore, ma soprattutto senza alcuna chiosa.
Il tempo estremamente risicato impedirà di poter verificare se la richiesta è fondata oppure se si tratta di un'imposizione pretestuosa e arrogante, come purtroppo avviene molto spesso. Non solo: la negazione del diritto di replica, ai limiti della costituzionalità, mette a rischio il giornalista e il direttore della testata, una figura parafulmine, che risponderà di ogni riga pubblicata, anche anonima.
Se la rettifica non esce, perché viene considerata spropositata e inaccettabile, ma soprattutto falsa dagli autori del pezzo e dai responsabili della testata e ovviamente dagli avvocati difensori, il presunto diffamato potrà rivolgersi al giudice che a sua volta potrà segnalare il caso pure all'Ordine professionale per una rivalsa disciplinare sul cronista.
È superfluo aggiungere che, nel caotico mondo del web e delle tv che trasmettono news 24 ore al giorno, una rettifica così congegnata rischia di provocare la paralisi dell'informazione. Ma i guai non finiscono di certo qui. Ecco le multe. Un altro capitolo pesantissimo. Fino a 10mila euro per una diffamazione commessa, per così dire, in buona fede.
Ma se invece c'è "cattiva fede", se è stato pubblicato "un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità" (definizione, in verità, un po' ridicola), allora la multa andrà da 10 a 50mila euro. In tempi di crisi, una cifra simile potrà avere effetti catastrofici sui magri bilanci delle aziende editoriali e produrrà un solo effetto, una stretta automatica sulle notizie, forme di autocensura, raccomandazioni alla prudenza e alla cautela. La stampa si mobilita, numerose e autorevoli le firme (Rodotà, Annunziata, Gabanelli, Vauro, Iacopino) che stanno sottoscrivendo l'appello sul sito www.nodiffamazione.it promosso da "Articolo 21" e da giuristi e giornalisti.
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 7 gennaio 2015
L'ha fatta finita a Santa Maria Maggiore, Venezia. Era un ragazzo. Ed era stato arrestato per un furtarello prima di capodanno. Con l'anno nuovo si ricomincia la triste e inarrestabile conta delle morti in carcere. Domenica scorsa, un diciannovenne romeno, residente ad Appiano Gentile (Como), si è tolto la vita all'interno del carcere di Santa Maggiore a Venezia.
Era stato tratto in arresto alla vigilia di Capodanno per un reato contro il patrimonio, ovvero per un furto; un reato non grave, tanto è vero che il magistrato Andrea Gomez ha ritenuto dì non doverlo rinchiudere in carcere, ma affidarlo agli arresti domiciliari mentre è in attesa di giudizio.
La vicenda drammatica del ragazzo sarebbe iniziata con il fatto che i genitori avrebbero rifiutato di accoglierlo in casa. A quel punto, senza nessuna dimora dove scontare la custodia cautelare, al ragazzo è rimasta come una unica alternativa il carcere stesso. Ma non ha resistito perché dopo cinque giorni è stato ritrovato impiccato nella doccia della cella che divideva con altri detenuti. Nonostante il tempestivo intervento degli operatori sanitari del 118, per il giovane non c'è stato nulla da fare e, dopo numerosi tentativi di rianimazione, non e rimasto altro che constatare il decesso. Il ragazzo, sulla cui morte stanno attualmente indagando i carabinieri del nucleo investigativo, viveva in Italia da ben quattordici anni.
E un terribile dramma umano che mette di nuovo in luce il problema principale dei detenuti senza fissa dimora, e colpisce soprattutto gli stranieri. I reati di cui sono in genere responsabili i senza fissa dimora rientrano nella cosiddetta "micro-criminalità": la scarsa gravità dei reati da una parte, e dall'altra i benefici previsti dalla legge per pene di questo genere (affidamento ai servizi sociali, semilibertà, etc. etc.), farebbero pensare a buone possibilità di reinserimento per questa area di detenuti.
Oppure, proprio per i reati non gravi, hanno la possibilità di non essere rinchiusi in carcere mentre sono in attesa di giudizio. La realtà è un'altra e possono accadere anche eventi paradossali come la storia del clochard arrestato perché era "evaso" dalla panchina. Era agli arresti domiciliari.
Ma non avendo una casa, aveva eletto come domicilio una panchina del parco di Borgosatollo, un paese alla porte di Brescia. E il giudice aveva dato parere favorevole. Ma quando i carabinieri effettuarono il solito controllo, non vedendolo sulla panchina, lo considerarono alla stregua di un evaso.
E così, per il 43enne Ilario Bonazzoli, questo il nome del clochard, nel 2009 per arrivata la condanna in primo grado a 10 mesi dì carcere: la motivazione suona come una beffa recitando che l'imputato era colpevole "per non essersi fatto trovare a casa nonostante fosse agli arresti domiciliari". L'anno scorso la sentenza d'appello aveva ribaltato il primo grado e sancì che Bonazzoli doveva lasciare il penitenziario di Ivrea dove era attualmente detenuto.
Ma la questione del domicilio si ripropose inevitabilmente. Il problema, a quel punto, ricadde sui servizi sociali di Borgosatollo, dove il senza fissa dimora doveva risiedere: "Oggi come oggi, non saprei nemmeno dove alloggiarlo, non abbiamo strutture da offrirgli - commentò all'epoca il sindaco di Borgosatollo Francesco Zanardini. L'unico aiuto che gli possiamo dare è trovare una residenza fittizia".
Per i senza fissa dimora, il carcere non sarà mai la soluzione e la punizione non è utile per la stessa sicurezza sociale. I comportamenti - considerati "devianti" dalla società - tendono a ripetersi nel tempo per assenza di alternative sostanziali. L'esperienza di detenzione infatti si inserisce in situazioni personali e familiari spesso deprivate sia dal punto dì vista economico che culturale: questa posizione di svantaggio - assieme alla carenza di risorse del sistema di sicurezza sociale - fa sì che chi "sbaglia" una volta, paga una pena doppia: cioè la detenzione e la successiva esclusione ripetuta esclusione del contesto sociale e lavorativo.
Chi ha precedenti penali infatti avrà sempre poche speranze di trovare un lavoro regolarmente retribuito. Ad aggravare questa situazione è l'assenza di una fissa dimora; la ricerca dì un lavoro si presenta pressoché impossibile a meno che non si reperisce una sistemazione alloggiativa, ma altrettanto irraggiungibile per una persona sola senza un reddito fisso. Altrettanto difficile è, per loro, usufruire delle misure alternative alla detenzione. La prima difficoltà è dell'ordine economico: l'impossibilità di pagarsi un avvocato fa sì che debbano ricorrere alla difesa dell'avvocato d'ufficio.
Inoltre non sempre dispongono delle informazioni necessarie per richiedere i benefici di cui hanno diritto: è necessario un collegamento con l'esterno, una conoscenza delle risorse del sistema sociale che chi vive per strada spesso non ha. Un ruolo decisivo, come abbiamo già raccontato, è di nuovo determinato dalla possibilità di avere una dimora stabile che è indispensabile per ottenere misure alternative come gli arresti domiciliari o l'affidamento in prova al servizio sociale o delle licenze. Sarà forse il caso di evocare meno "giustizia penale" e invocare, invece, più "giustizia sociale"?
Suicida a 19 anni a Santa Maria Maggiore (La Nuova Venezia)
Il giovane si è impiccato nelle docce con un lenzuolo. La Procura apre un'indagine. il padre: "Voleva disintossicarsi".
Si è impiccato a 19 anni, nella doccia di una cella del carcere di Santa Maria Maggiore, domenica. È morto così un ragazzo di nazionalità rumena, ma residente sin da piccolo in provincia di Como - ad Appiano Gentile - arrestato il 31 dicembre a Venezia dai carabinieri, su ordine di custodia cautelare emesso dalla Procura di Como, per un reato contro il patrimonio: nulla di così drammaticamente grave, tanto che il giudice per le indagini preliminari Andrea Comez - che lo ha sentito in sede di interrogatorio di garanzia - avrebbe voluto disporre per lui gli arresti domiciliari, ma la madre ha negato l'autorizzazione ad accoglierlo in casa, dopo una vita di tribolazioni, tra i continui arresti, furti e "bravate" del figlio, con problemi di tossicodipendenza.
La donna sperava che tenendolo lontano dal Comasco, il ragazzo riuscisse a stare fuori dai guai e disintossicarsi. Invece il giovane Adrian è tornato in cella, ha portato con sé in doccia un lenzuolo e si è impiccato nel piccolo bagno: uno spazio non visibile, per questioni di privacy.
Nel tardo pomeriggio di domenica l'allarme, dato dai due compagni di cella che hanno tentato inutilmente di aiutarlo, come vano è stato l'intervento del personale del carcere (prima) e dei medici del Suem 118 (dopo).
Fino a tarda ora sono proseguiti gli accertamenti da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo e dei Ris, alla presenza del pubblico ministero di turno, Lucia d'Alessandro, rimasta in carcere con gli investigatori fino alle 3 di notte, per sentire gli agenti di Polizia penitenziaria e i due compagni di cella del ragazzo.
Non è emersa alcuna responsabilità nella morte di Adrian da parte del personale del carcere o di altri detenuti, ma gli accertamenti proseguiranno con l'autopsia, affidata al medico legale Antonello Cirnelli: il suicidio di un ragazzo affidato allo Stato in un carcere è un dramma da chiarire in ogni aspetto.
Una vita così breve, eppure segnata più volte da piccoli furti, segnalazioni alle forze dell'ordine di Appiano Gentile, che ben conoscevano il ragazzo e i suoi problemi con la droga: Adrian a 14 anni era scappato di casa e da solo, alla guida di un'auto, aveva raggiunto il padre, che da anni abita in un furgone a Marghera. Poi i carabinieri lo avevano riportato indietro.
Agli investigatori ieri il padre, distrutto, ha raccontato che avrebbe dovuto incontrare il figlio a Venezia, per andare a visitare insieme una comunità. Invece erano scattate le manette - nella serata di san Silvestro - per quell'ordine di custodia in arrivo da Como: sabato 3 gennaio l'interrogatorio di garanzia e il ritorno a Santa Maria Maggiore in attesa del processo, non essendo stato possibile individuare un'abitazione per gli arresti domiciliari. Poche ore dopo, la tragedia di una famiglia.
di Alessandra Longo
La Repubblica, 7 gennaio 2015
Entrare in un supermercato con la fame addosso. Portarsi via le cose, rubarle, per puro istinto di sopravvivenza. Succede sempre più spesso che vengano sorpresi "i ladri di cibo", quelli che non lo farebbero mai ma ci provano, maldestramente, per mangiare. Le cronache ci raccontano di un senzatetto piacentino fermato in un negozio con le tasche gonfie.
"Ho fame e non so come fare", ha detto agli agenti. E sapete cosa hanno fatto quelli del 113, in accordo con il direttore del supermercato? Lo hanno portato in un fast-food e gli hanno pagato il pranzo. Sempre a Piacenza anche il secondo episodio di queste ore.
I poliziotti hanno intercettato un italiano di 51 anni che, dopo aver saltato una recinzione, rovistava nei cassonetti di un negozio di alimentari in cerca di avanzi e alimenti scaduti. Gli agenti hanno visto la scena. È calato il silenzio. Nessuna denuncia. Sono scene che fanno male.
La Sicilia, 7 gennaio 2015
Un poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio al nucleo traduzioni della casa Circondariale di Catania Bicocca, si è tolto la vita, nel primo pomeriggio, a bordo della sua macchina nelle campagne di Caltagirone, vicino al penitenziario della cittadina sicula.
Ne danno notizia il Sindacato autonomo polizia penitenziaria e l'Osapp. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano" dice Donato Capece, segretario generale del Sappe che ricorda come "nel 2014 furono 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria".
Ancora oscure le cause che hanno portato l'uomo, sposato e padre di due figlie di 13 e 17 anni, al tragico gesto, ma Capece sottolinea come sia importante "evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l'attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto.
"È arrivato il momento che il nuovo Capo del Dipartimento cominci seriamente ad affrontare i problemi del Corpo e dei suoi uomini, perché adesso più che mai è diventato sempre più complicato, anche sotto l'aspetto psichico, fare il Poliziotto Penitenziario nelle carceri italiane", dice il segretario generale aggiunto dell'Osapp Domenico Nicotra.
www.leccesette.it, 7 gennaio 2015
L'azienda chiede massima attenzione per una patologia infettiva che da noi era quasi scomparsa. Attenzione alla recrudescenza da Tbc. Lo chiede la Asl allertando gli operatori che devono prestare soccorsi a immigrati e ai detenuti del carcere di Borgo San Nicola. Come spiega il sito salutesalento.it da qualche anno in qua la Tbc fa paura per la sua recrudescenza, soprattutto la forma "bacillifera".
Una patologia infettiva che da noi era quasi scomparsa e che ha ripreso a galoppare dopo l'accoglienza e l'ospitalità agli immigrati e agli extracomunitari. Soggetti, spiegano gli pneumologi di casa nostra, che spesso sono portatori sani, nei quali la Tbc lantentizza.
"Rispetto agli anni passati, quando i casi di Tbc erano rari - ha riferito Anacleto Romano primario di Malattie Infettive al "Vito Fazzi" nel corso di un convegno - Adesso è quasi sempre presente in reparto almeno un paziente con una Tbc polmonare bacillifera. E in alcuni periodi anche 2-3-4 ricoverati contemporaneamente. Si tratta in genere di soggetti immigrati, che vengono soprattutto dell'est, come la Romania e dall'Africa. Ma anche casi di italiani infettati".
Ma il rischio della ripresa della Tbc, per il quale la Asl di Lecce sta mobilitando e allertando le sue unità operative, ridefinendo funzioni e responsabilità, risale ad alcuni anni addietro. Elio Costantino, presidente regionale di Aipo, l'associazione italiana degli pneumologi ospedalieri, ha confermato che "in Puglia la presenza di immigrati e di extracomunitari ha sicuramente una relazione con il ritorno della Tbc e con l'aumento delle Bpco (broncopneumopatie).
Sono state fatte delle indagini al Cara, il centro accoglienza richiedenti asilo di Bari in tre anni successivi: 2009 -2010 e 2011. Per il 2009 e 2010 si è visto che l'incidenza di "cutipositivi", cioè di soggetti che erano risultati positivi al "tine-test", era presente in una percentuale intorno al 30 per cento. Di questi però soltanto 4 su 912 presentavano tubercolosi attiva. I dati del 2011 erano parziali perché l'indagine venne fatta i giorni in cui ci fu la rivolta per il riconoscimento di rifugiati politici".
I tisiologi spiegano che lo screening è necessario "perché questi soggetti presentano un'infezione tubercolare latente; cioè sono venuti a contatto con il bacillo di Kock, ma non sono soggetti malati e non sono pericolosi per gli altri, "ma qualora le difese immunitarie dovessero abbassarsi - mette in guardia il dottore Costantino - possono slatentizzare la malattia e diventano con Tbc attiva". Al Servizio Pneumotisiologico Sovradistrettuale della Asl è stato affidato il coordinamento funzionale degli Ambulatori Distrettuali di Pneumologia e degli Pneumologi in servizio presso la Casa Circondariale di Lecce.
di Vincenzo Falci
Giornale di Sicilia, 7 gennaio 2015
Il giudice dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e che è stata impugnata dai familiari della vittima. Nelle mani del Gip il dossier a carico di cinque medici indagati per omicidio colposo sull'onda del suicidio in carcere di un detenuto. Sarà il giudice a stabilire da che parte penderà l'ago della bilancia.
Se verso la procura che per la seconda volta ha proposto l'archiviazione del caso o, piuttosto, dall'altro lato, quello dei familiari della vittima (assistiti dall'avvocato Massimiliano Bellini) che di contro hanno chiesto nuove indagini o, spingendosi oltre, anche l'imputazione coatta.
Una partita giudiziaria tutta da giocare. E che ruota attorno all'estremo gesto compiuto in carcere dal quarantaseienne Giuseppe Di Blasi, trovato ucciso nella sua cella del "Malaspina" il pomeriggio del 27 dicembre 2011. I suoi familiari hanno sempre posto sul tappeto la precarie condizioni di salute del detenuto. Che nel periodo di detenzione aveva pure perso parecchio peso. Di Blasi, al momento del suo ingresso in carcere per scontare una condanna, pesava infatti oltre cento chili. Ma nel giro di nove mesi si sarebbe smagrito perdendo oltre venticinque chilogrammi.
di Francesca Mariani
Il Tempo, 7 gennaio 2015
Aveva saputo che il padre stava male. Da un momento all'altro il cuore del genitore si sarebbe potuto fermare. Così non ha esitato a rivolgersi al giudice per chiedere un permesso necessario per andare a visitare il padre. Nulla da fare. Il Tribunale gli ha negato questa possibilità. E così, il detenuto non ha potuto far altro che venire a sapere dalla cella di Rebibbia che il papà dopo qualche giorno dalla sua richiesta era morto. E così non ha potuto dargli l'ultimo saluto.
L'uomo, detenuto nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia, Nuovo Complesso, aveva infatti chiesto un permesso di necessità di due ore con scorta per visitare il padre gravemente malato, ma per la Corte di appello di Napoli non sussisteva il requisito dell'imminente pericolo di vita. Qualche giorno dopo, però, l'uomo è deceduto senza che il figlio detenuto potesse fargli visita. Protagonista della vicenda, denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è il napoletano Massimiliano P., 48 anni, rinchiuso nel penitenziario romano in attesa di giudizio.
La vicenda risale al primo dicembre, quando l'uomo - che si è rivolto al Garante per segnalare quanto accaduto - aveva chiesto alla Corte d'appello di Napoli di visitare il padre malato ma i giudici napoletani, negando il permesso, avevano valutato l'uomo non in imminente pericolo di vita.
Purtroppo però, smentendo drammaticamente quanto scritto nel provvedimento di diniego, il 26 dicembre il padre del detenuto è deceduto, senza che il figlio potesse fargli visita un'ultima volta. A ciò si aggiunga che Massimiliano P. non ha potuto presenziare alle esequie o vedere la salma prima della cremazione perché un'altra richiesta alla Corte di appello è rimasta senza risposta.
Per protestare, il 29 dicembre il detenuto ha iniziato uno sciopero della fame, sospeso solo dopo l'intervento degli operatori del Garante. "La cosa che più mi rattrista - ha raccontato l'uomo al Garante - è sapere che mio padre aspettava me per morire. Lo sciopero della fame non me lo riporterà, né riuscirà a placare la rabbia di ingiustizia. Voglio solo esprimere pacificamente il mio dolore per evitare che, in futuro, si verifichino altri casi del genere".
Sulla vicenda, il Garante Angiolo Marroni, ha inviato una lettera al Presidente della 1 sezione della Corte di appello di Napoli. "Mi chiedo - ha scritto Marroni - sulla base di quale istruttoria ha ritenuto di rigettare l'istanza in questione e se vi siano state ragioni particolari che hanno giustificato un trattamento inumano nei confronti del detenuto in questione".
E ancora: "Prova ne sia il fatto che pochi giorni dopo quella richiesta lo stesso è deceduto. Le chiedo inoltre quali siano le ragioni che hanno impedito di rispondere alla richiesta del detenuto di poter presenziare alle esequie". E intanto un poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio nella Casa circondariale di Catania si è tolto la vita a bordo della sua auto a Caltagirone.
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