Ansa, 8 gennaio 2015
L'autopsia effettuata ieri sul corpo del 19enne romeno morto in carcere a Venezia due giorni fa ha confermato che si tratta di un suicidio. Il dato, reso noto dalla procura, emerge dalle risultanze dell'autopsia eseguita dall'anatomopatologo Antonello Cirnelli alla presenza del medico nominato dai genitori del giovane. Il ragazzo, che viveva nel comasco con la madre separata, si era temporaneamente trasferito a Mestre dove stava con il padre, operaio in difficoltà economiche.
Proprio qui era stato prelevato dai carabinieri su istanza del Tribunale di Como per dei carichi pendenti relativi a danni al patrimonio. Una volta rinchiuso nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore aveva ottenuto dal Gip di Venezia gli arresti domiciliari ma nelle more del reperimento di una comunità cui affidarlo il giovane si è suicidato nel bagno della cella che condivideva con altri due detenuti usando una striscia di lenzuolo come cappio mentre fingeva di farsi la doccia. Scattato l'allarme, dato dagli stessi, sul posto sono intervenuti i sanitari che hanno constatato la morte; sia la scientifica dell'arma che un primo esame medico sul cadavere alla presenza del Pm Lucia D'Alessandro, avevano già escluso atti di violenza sia da parte della polizia penitenziaria che da altri carcerati. Gli atti, sulla vicenda, saranno trasmessi al Tribunale di Como.
Giornale di Monza, 8 gennaio 2015
Il suicidio di un detenuto ha riacceso i riflettori sul penitenziario di Sanquirico dopo l'allarme lanciato dai Sindacati di Polizia penitenziaria nelle scorse settimane sulla preoccupante escalation di autolesionismo (ben 75 nei primi sei mesi, uno ogni cinque giorni). Martedì 23 dicembre 2014 un recluso di 28 anni, mentre si trovava in infermeria, pochi minuti prima delle 7, ha preso la cintura dell'accappatoio e ha tentato di impiccarsi alle grate. L'uomo è stato soccorso e trasportato al Policlinico di via Amati in codice rosso. È morto in ospedale il 3 gennaio 2015.
La Sicilia, 8 gennaio 2015
Il suicidio del poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio al nucleo traduzioni della casa circondariale di Catania Bicocca, che si è tolto la vita a bordo della sua auto nelle campagne di Caltagirone, lasciando moglie e due figlie adolescenti, riporta in primo piano il problema delle carceri italiane, dove sempre più spesso detenuti e "custodi" continuano a togliersi la vita nell'indifferenza generale. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ha ricordato che "nel 2014 sono stati 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria". Altre cifre parlano di oltre cento poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita dal 200 a oggi. Spesso le cause segrete dietro questi gesti sono da attribuirsi al degrado delle carceri del nostro Paese, dove in condizioni disumane non vivono solo i detenuti - come denuncia continuamente l'Unione europea - ma anche gli agenti della polizia penitenziaria.
Condizioni che poi sovente portano a gesti estremi, le cui motivazioni reali spesso restano oscure ma che potrebbero essere spiegati con la cosiddetta sindrome del burnout, ovvero un eccessivo carico emotivo attribuito al lavoro, con assenza di fattori motivanti. Il burnout è legato alle professioni d'aiuto (helping profession). Queste sono le professioni che si occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica, etc. Si parla quindi di infermieri, medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, preti ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata. Ne consegue che, se non opportunamente trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato. Letteralmente burnout significa proprio "bruciare fuori". Dunque è qualcosa d'interiore che esplode all'esterno e si manifesta.
Burnout è quindi il "non farcela più", l'insoddisfazione e l'irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori e conduce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri "clienti", indifferenti e distaccati dall'ambiente di lavoro. Se a questo si aggiunge che nel caso dei poliziotti penitenziari, l'ambiente di lavoro è il carcere - dove si condividono spazi ristretti in una nota condizione di sovraffollamento e dove si è sollecitati da richieste plurime, si capisce che il problema non è solo psicologico e va affrontato anche con interventi di carattere organizzativo da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
È per questo che il segretario generale aggiunto del sindacato Osapp, Domenico Nicotra, ha chiesto nuovamente al capo del dipartimento di affrontare seriamente i problemi della polizia penitenziaria che - come ha ricordato Donato Capece - è uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano.
di Biagio Salvati
Il Mattino, 8 gennaio 2015
Sarà un'inchiesta della Procura della Repubblica di Napoli Nord a stabilire le cause della morte di un marittimo di Vico Equense, affetto da turbe psichiche, deceduto nel pomeriggio dell'Epifania nell'Ospedale Psichiatrico di Aversa dove era detenuto da circa dieci anni.
Il corpo di Antonio Staiano, 50 anni - questo il suo nome - è stato trovato senza vita dal personale di polizia penitenziaria poco dopo le cinque del pomeriggio del 6 gennaio scorso, durante i controlli di routine degli agenti. I poliziotti hanno notato l'uomo immobile, in una posizione che ha insospettito la divisa e che ha poi trovato riscontro nella constatazione del decesso da parte del medico legale.
Staiano, morto apparentemente per una crisi cardiaca, era detenuto nella struttura aversana in quanto accusato del duplice omicidio dei suoi genitori avvenuto nella notte fra il 20 ed il 21 agosto del 2001. Bussò alla porta dei genitori e si scagliò contro la madre, accoltellandola. Fece lo stesso con il padre mentre riuscì a sfuggire alla morte sicura, la sorella. Sposato e all'epoca padre di una bambina di tre anni si costituì al carcere di Poggioreale approdando successivamente all'Opg di Aversa, per il suo stato di infermità mentale dopo una condanna a dieci anni non del tutto scontata.
Sul corpo dell'uomo, a quanto si apprende, sarebbe stata disposta un'autopsia per accertare con più precisione i dettagli della morte: un decesso che ha fatto aprire un'inchiesta della Procura competente di Napoli Nord. Nel carcere aversano, infatti, il sostituto procuratore Rossana Esposito ha presenziato al sopralluogo giudiziario protrattosi fino a tarda notte delegando i carabinieri del Ris di Napoli che hanno eseguito una serie di accertamenti fino a tarda notte.
Una morte naturale trattata - visto anche il contesto - con un vero e proprio approfondimento sulla dinamica che ha portato al decesso di quell'omone di circa due metri, rinchiuso a scontare la cosiddetta "pena bianca" in una struttura che è stata teatro di diversi decessi (anche suicidi) e inchieste giudiziarie che in passato hanno toccato medici, personale e vertici. Nel fascicolo giudiziario aperto dalla Procura sono confluite anche testimonianze e altri elementi acquisiti dagli investigatori che hanno lavorato usando strumentazioni e apparecchiature dello speciale reparto dell'Arma seguendo un particolare protocollo.
Anche l'anno scorso si sono susseguite una serie di decessi naturali mentre uno degli ultimi episodi, legati alla morte dei reclusi, risale a circa due anni fa quando il corpo di un internato fu trovato carbonizzato. La salma di Staiano è stata trasferita presso l'istituto di Medicina Legale di Caserta dove verrà eseguita l'autopsia (per una questione di tutela) tra oggi e domani: un ulteriore passaggio per certificare ulteriormente la causa della morte che è risultata essere per arresto cardiaco. Anche l'Opg aversano, diretto da Elisabetta Palmieri, secondo la legge avrebbe già dovuto chiudere.
E invece, 76 campani nel 2013 sono usciti, ma 107 sono entrati a distanza di due anni dall'annunciata chiusura delle sei strutture che nella penisola oggi contengono un migliaio di uomini e donne e avrebbero dovuto cessare le attività già al marzo del 2013: data slittata al marzo del 2015 dopo due proroghe. Intanto, si aprirà il 27 marzo prossimo, davanti al giudice monocratico del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il processo a carico dell'ex direttore dell'Opg di Aversa, Adolfo Ferraro (peraltro anche autore di libri tra cui uno sulle storie del manicomio aversano) accusato con altri 17 medici di maltrattamento e sequestro di persona. L'inchiesta nasce da un'ispezione e dalle denunce di alcuni familiari dei pazienti raccolte in un fascicolo della Procura. Si tratta di reati commessi ai danni degli internati, dal 2006 e fino al gennaio 2011. Gli imputati sono accusati, tra l'altro, di aver costretto alcuni internati nei letti di contenzione per periodi temporali e con modalità non consentiti.
di Claudio Laugeri
La Stampa, 8 gennaio 2015
L'invio di detenuti in ospedale ridotto a un terzo in meno di due anni, la spesa per la sanità in carcere passata da 10 a sei milioni di euro. A parità di servizi. "Ma abbiamo ancora molto lavoro da fare per razionalizzare la spesa" spiega Roberto Testi, direttore del dipartimento Tutela della salute e direttore della Medicina legale della Asl2, che da pochi giorni ricopre anche l'incarico di responsabile sanitario per il "Lorusso e Cutugno". In attesa di un concorso, sostituisce la collega Lucia Casolaro, che aveva gestito la struttura negli ultimi cinque anni con un incarico appena scaduto e non rinnovabile.
Già da tempo, i sindacati della polizia penitenziaria (in particolare l'Osapp) e la stessa Asl2 (diretta da Maurizio Dall'Acqua) avevano sollevato perplessità sul frequente invio di detenuti in ospedale. Sia chiaro, il principio della cura è sacrosanto: per quanto possibile, chi è in carcere ha diritto alle stesse attenzioni di chi sta fuori. E l'infermeria non può avere le attrezzature né gli specialisti di un ospedale.
Nonostante questo, dai 271 (23 in media ogni mese) ricoverati al Maria Vittoria nel 2012, l'ospedale è passato a ospitarne 93 (8 al mese). La cifra dei trasporti dal carcere al pronto soccorso, però, è un po' più alta. "Calcoliamo che almeno l'80 per cento resta in osservazione per 24 ore" spiega Testi. Una precauzione necessaria, quando i problemi segnalati siano potenzialmente gravi. E questo accade sovente: la maggior parte chiede aiuto per dolori al petto oppure all'addome, assai difficili da valutare senza esami radiografici.
"Abbiamo istituito anche un piccolo presidio di emergenza, proprio per valutare al meglio le situazioni ed evitare trasferimenti inutili" spiega ancora Testi. E non solo. Per quanto riguarda i problemi al cuore, i medici del "Lorusso e Cutugno" fanno in infermeria gli elettrocardiogrammi e prelevano gli enzimi cardiaci, che inviano in ospedale per le analisi. In questo modo, è possibile evitare il trasferimento del detenuto, fino al momento della terapia oppure della visita specialistica, decisa dopo aver valutato il quadro clinico.
C'è ancora un problema, però, che nessuno ha risolto. Un anno fa, la direzione del carcere (in accordo con Asl e provveditorato regionale delle strutture penitenziarie) aveva inaugurato il "superwc", studiato per trattare con getti d'acqua ad alta pressione gli escrementi dei detenuti sospettati di aver ingoiato "ovuli" di droga. Un macchinario "gemello" è utilizzato dal Cto. E funziona. Quello del "Lorusso e Cutugno" fa cilecca: pressione dell'acqua troppo bassa. Problema segnalato anche dal sindacato Osapp. "Mi sono informato, ho contattato tecnici, mi sono anche dichiarato disponibile a pagare una pompa ausiliaria. Ho saputo più nulla" dice il direttore generale Dall'Acqua. Addirittura, alcuni mesi fa la direzione del carcere aveva rassicurato il provveditore sul fatto che il "superwc è perfettamente funzionante". Sarà, ma fino a ieri gli agenti di polizia penitenziaria sono stati costretti a fare senza.
Corriere dell'Abruzzo, 8 gennaio 2015
Donato Colasante, 21enne di Guardiagrele, ha provato a togliersi la vita tagliandosi le vene nel carcere di Madonna del Freddo a Chieti, dopo che gli è stato vietato di partecipare ai funerali della nonna. Il giovane, che ora versa in condizioni critiche nell'ospedale clinicizzato teatino, è detenuto in quanto accusato insieme a Davide Nunziato di aver intimidito con una finta bomba l'ex segretario nazionale della Cisl Raffaele Bonanni. Il 21 marzo scorso i due avrebbero piazzato il falso ordigno esplosivo nei pressi dell'abitazione estiva del sindacalista abruzzese a Francavilla al Mare.
Dopo che il suo avvocato Graziano Benedetto gli ha comunicato che la Procura Distrettuale Antimafia dell'Aquila gli aveva negato il permesso di rendere omaggio alla nonna paterna Lucia, deceduta l'altro ieri all'età di 78 anni e alla quale era legato da un affetto quasi morboso, in preda alla disperazione Colasante si è tagliato le vene di un avambraccio al fine di dissanguarsi. Prontamente soccorso dalla guardie carcerarie all'alba di ieri, il ragazzo è stato trasportato d'urgenza al policlinico teatino dove è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico per ricucire i vasi sanguigni danneggiati. A seguito di un breve periodo di rianimazione, il 21enne è stato trasferito nel reparto di chirurgia vascolare, anche se i medici si sono riservati la prognosi. Tra l'altro, il giovane è tossicodipendente e da qualche giorno era finito in crisi di astinenza dopo la sospensione della terapia a base di metadone.
Radicali: irragionevole decisione dei giudici
"Il tentativo di suicidio da parte di un giovane detenuto a Chieti a cui è stato negato il diritto di far visita alla salma dell'amata nonna, colpisce per non solo per l'irragionevolezza della decisione dei giudici ma, soprattutto, per l'accanimento che si è dimostrato verso un ragazzo, appena ventunenne, detenuto in attesa di giudizio e, quindi, tecnicamente tuttora innocente". Lo affermano in una nota congiunta Dario Boilini, segretario dell'associazione Radicali Abruzzo e membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e Alessio Di Carlo, membro di Giunta di Radicali Italiani.
"Purtroppo, pero', anche nelle aule di giustizia della nostra regione - proseguono - il principio di presunzione di innocenza viene sistematicamente calpestato: e questo nell'indifferenza della classe politica che da oltre tre anni deve nominare il garante regionale dei detenuti il quale potrebbe efficacemente monitorare lo stato generale della detenzione carceraria abruzzese per evitare che accadano tragedie come quella, fortunatamente appena sfiorata, avvenuta ieri a Chieti".
di Alessandra Ziniti
La Repubblica, 8 gennaio 2015
Il "Grand hotel Ucciardone", come lo chiamavano i boss quando, per motivi di giustizia erano costretti ad "andare in villeggiatura" non esiste ormai più da molti anni. Ma adesso c'è un altro pezzo di Palermo nell'immaginario collettivo che tramonta: ed è lo spauracchio di quel vecchio carcere borbonico da sempre meta del classico "s'u purtaru", espressione dialettale utilizzata quando nelle case nottetempo bussavano polizia, carabinieri o guardia di finanza e arrestavano qualcuno.
Dal primo gennaio, il carcere dell'Ucciardone ha cambiato definitivamente il suo volto: non più casa circondariale ma casa di reclusione, il che significa che nei suoi bracci verranno ospitati solo detenuti definitivi, dunque coloro che dovranno espiare la pena, e non più gli arrestati in regime di custodia cautelare, che saranno invece destinati al carcere di Pagliarelli che ospiterà anche una sezione per detenuti definitivi.
"Quello che è sempre stato il carcere simbolo di Palermo cambierà radicalmente - spiega Maurizio Veneziano, responsabile del Dipartimento affari penali in Sicilia - grazie alla rivisitazione delle strutture penitenziarie disponibili in Sicilia, siamo finalmente riusciti a differenziare la stessa natura dei due istituti di pena di Palermo e adesso l'Ucciardone sarà votato alla filosofia del recupero del detenuto in espiazione pena con una serie di attività che verranno ospitate in una delle sezioni che stiamo ristrutturando, la quinta, dove ci saranno dalle aule di insegnamento ai laboratori professionali. E in ristrutturazione sono anche altre due sezioni, la sesta e la settima dove contiamo di ricavare altri 108 posti per ognuna e soprattutto a garantire le condizioni di una detenzione civile così come previsto dalle direttive della comunità europea".
Solo detenuti definitivi dunque all'Ucciardone, ma non "eccellenti". Nelle sezioni dello storico carcere borbonico costruito nei primi dell'Ottocento alla fine di via Enrico Albanese in un vecchio campo di cardi (in francese chardon, da cui il nome 'U ciarduni), andranno solo uomini chiamati a scontare pene per reati comuni. Niente a che vedere con gli ospiti di questa vecchia struttura che hanno segnato la storia dell'Ucciardone, i grandi boss di Cosa nostra che, alla settima sezione, ricevevano i "picciotti" nelle loro celle in vestaglia di seta e banchettavano a champagne e aragosta che i familiari facevano giungere in quantità da fuori in via Albanese numero 14, e che si facevano persino cucinare.
A Tommaso Buscetta, nella seconda metà degli anni Settanta, colazione, pranzo e cena arrivavano ogni giorno da uno dei più noti ristoranti di Palermo. Nessuno dei capi di Cosa nostra, per principio, si degnava di mangiare il "rancio del governo", troppo disonorevole. E la potenza di un boss detenuto in quegli anni si misurava anche da quello che riusciva a ottenere in carcere, dagli abiti firmati, al cibo e - si dice - ogni tanto persino delle donne.
All'Ucciardone i mafiosi "si facevano il carcere con dignità" mentre continuavano tranquillamente a gestire i loro affari e persino a regolare i loro conti in perfetta sincronia con chi stava fuori: in cella fu assassinato a colpi di padella Vincenzo Puccio mentre nelle stesse ore suo fratello Pietro veniva assassinato al cimitero dei Rotoli nel momento in cui pregava sulla tomba della madre. Non erano ancora i tempi del 41 bis e per quanto incredibile possa sembrare persino i boss latitanti riuscivano a entrare per andare a trovare gli "amici", come fece un giorno Saro Riccobono in visita all'amico Gaspare Mutolo.
Fu all'Ucciardone che i capi della Cupola brindarono a champagne alla morte di Giovanni Falcone prima e a quella di Paolo Borsellino dopo subito, prima di essere portati tutti via in una notte nelle carceri di Pianosa e dell'Asinara quando il 41 bis cancellò per sempre i fasti del "Grand Hotel Ucciardone". Adesso, con i suoi 600 detenuti comuni in regime di espiazione pena, l'Ucciardone limiterà il suo contatto con i mafiosi solo ai processi ospitati in un altro pezzo di storia di quelle mura, l'aula bunker che fu teatro del maxiprocesso a Cosa nostra.
www.radicali.it, 8 gennaio 2015
Lunedì 5 gennaio una delegazione del Partito Radicale, composta da Maria Grazia Lucchiari, Sergio Martini, Antonella Sacco e Tiziana Boldo ha effettuato una visita ispettiva al carcere di Montorio (Verona). La visita, durata più di 6 ore, è iniziata dal carcere femminile - che ospita oggi 57 detenute, di cui solo 10 impiegate in lavori manuali, per poi passare in infermeria dove si rilevano le situazioni di maggiore disagio: anche 3 detenuti per cella fra cui un cardiopatico, un detenuto affetto da hiv, ritenuto non compatibile con gli altri dal medico del Sert, un altro con sospetto di tbc e un caso di scabbia contratta nelle docce.
Una detenuta presenta patologia accertata di schizofrenia e anoressia, un detenuto è da quattro giorni in sciopero della fame per le mancate cure di una patologia renale. Il settore maschile conta 568 detenuti di cui più di 400 extracomunitari e solo una settantina impiegati lavorativamente. Tutti i detenuti lamentano la scarsità di educatori e psicologi nonché l'assenza della figura del mediatore culturale.
Per quanto riguarda le strutture, nel settore maschile si arriva ad un sovraffollamento con quattro detenuti per cella, manca l'acqua calda per l'igiene personale e la notte il riscaldamento viene abbassato per cui l'ambiente risulta gelido. Per alcuni è impossibile telefonare a casa ai famigliari. Tutti sono concordi nel sottolineare la disponibilità e la competenza del personale carcerario che con sensibilità assolve i compiti di un lavoro spesso molto duro e poco appagante.
Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2015
Interruzione del servizio di trasporto dei bambini 0 a 3 anni della Sezione Nido della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia. Apprezzamento dell'Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" delle dichiarazioni dell'assessore ai Servizi Sociali di Roma Capitale, Francesca Danese. Le dichiarazioni della neo Assessora Francesca Danese, in ordine all'emergenza rappresentata dalla ventilata interruzione del servizio trasporto dei bambini, detenuti con le loro madri nel Nido di Rebibbia femminile, ci conforta.
Apprezziamo in particolare il Suo dichiarato impegno ad operare, nell'ambito delle proprie responsabilità istituzionali, per rendere finalmente attuativa la legge 62 del 2011, finora rimasta immotivatamente sulla carta. L'Assessora Danese, nello sforzo teso a realizzare tali impegni, troverà al suo fianco l'Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini". L'augurio sincero è che il nuovo anno rappresenti per i tanti e diversi soggetti, che a vario titolo si sono negli anni impegnati per rendere meno dolorosa la condizione di bambini che, senza colpa, vivono dietro le sbarre, un terreno più avanzato e fruttuoso per il riconoscimento dei diritti e della dignità dell'infanzia.
Ansa, 8 gennaio 2015
Il problema della videosorveglianza nel carcere di Parma, dove sono detenuti boss di calibro e il presunto capo di Mafia Capitale Massimo Carminati, "è un problema tecnico che verrà risolto in brevissimo tempo". Ad assicurarlo oggi all'esponente dei Radicali Marco Maria Freddi, è stato il direttore del penitenziario di Parma, Mario Antonio Galati.
"Sono appena rientrato da una visita al carcere di Parma - spiega Freddi, segretario dei Radicali a Parma - abbiamo visitato alcune celle destinate al carcere duro, il 41 bis, e l'infermeria. Le condizioni del carcere sono buone: le celle sono pulite, ordinate; ogni cella del 41 bis ha il bagno e un piccolo televisore. I problemi legati al sistema di video sorveglianza e video registrazione a rischio continuo di black-out sono dovuti ai lavori nella nuova ala del carcere, lavori che sono al momento fermi. Ma il problema, mi è stato assicurato, verrà risolto nel giro di poco tempo".
La questione era stata sollevata nei giorni scorsi dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia, che a Parma aveva incontrato il presunto boss di Roma Capitale Massimo Carminati. Il carcere di Parma conta al momento 537 detenuti di cui circa la metà è in regime di 41 bis o in alta sicurezza. "Il direttore ci ha comunicato - ha aggiunto Freddi - che nel giro di due settimane entrerà in vigore anche in questo penitenziario la sorveglianza dinamica, grazie alla quale i detenuti "comuni", con un percorso di auto-responsabilizzazione, svolgeranno nel carcere, per 8 ore giornaliere, una serie di attività di formazione e di riabilitazione. Siamo grati al direttore Galati - ha concluso l'esponente dei Radicali - di aver consentito in tempi brevissimi questa nostra visita al carcere, siamo lieti per queste novità che arriveranno a breve e siamo dispiaciuti per il fatto che non rimarrà a lungo a dirigere il penitenziario. Rimaniamo sempre in attesa che il legislatore decida di evitare il carcere ad una miriade di reati prevedendo pene alternative".
- Firenze: i Radicali "le parole del cardinal Betori sulle carceri siano utili ai politici"
- Salerno: infermiere e agente aggrediti da detenuto nella medicheria del carcere
- Fermo (Ap): i detenuti si raccontano nel giornale "L'Altra chiave news", uscito nuovo numero
- Varese: "Dona un francobollo", aiuta un detenuto a spedire una lettera ai suoi cari
- Pisa: Ben e Buffy, nel carcere Don Bosco per regalare un sorriso ai detenuti