di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 7 gennaio 2015
L'ha fatta finita a Santa Maria Maggiore, Venezia. Era un ragazzo. Ed era stato arrestato per un furtarello prima di capodanno. Con l'anno nuovo si ricomincia la triste e inarrestabile conta delle morti in carcere. Domenica scorsa, un diciannovenne romeno, residente ad Appiano Gentile (Como), si è tolto la vita all'interno del carcere di Santa Maggiore a Venezia.
Era stato tratto in arresto alla vigilia di Capodanno per un reato contro il patrimonio, ovvero per un furto; un reato non grave, tanto è vero che il magistrato Andrea Gomez ha ritenuto dì non doverlo rinchiudere in carcere, ma affidarlo agli arresti domiciliari mentre è in attesa di giudizio.
La vicenda drammatica del ragazzo sarebbe iniziata con il fatto che i genitori avrebbero rifiutato di accoglierlo in casa. A quel punto, senza nessuna dimora dove scontare la custodia cautelare, al ragazzo è rimasta come una unica alternativa il carcere stesso. Ma non ha resistito perché dopo cinque giorni è stato ritrovato impiccato nella doccia della cella che divideva con altri detenuti. Nonostante il tempestivo intervento degli operatori sanitari del 118, per il giovane non c'è stato nulla da fare e, dopo numerosi tentativi di rianimazione, non e rimasto altro che constatare il decesso. Il ragazzo, sulla cui morte stanno attualmente indagando i carabinieri del nucleo investigativo, viveva in Italia da ben quattordici anni.
E un terribile dramma umano che mette di nuovo in luce il problema principale dei detenuti senza fissa dimora, e colpisce soprattutto gli stranieri. I reati di cui sono in genere responsabili i senza fissa dimora rientrano nella cosiddetta "micro-criminalità": la scarsa gravità dei reati da una parte, e dall'altra i benefici previsti dalla legge per pene di questo genere (affidamento ai servizi sociali, semilibertà, etc. etc.), farebbero pensare a buone possibilità di reinserimento per questa area di detenuti.
Oppure, proprio per i reati non gravi, hanno la possibilità di non essere rinchiusi in carcere mentre sono in attesa di giudizio. La realtà è un'altra e possono accadere anche eventi paradossali come la storia del clochard arrestato perché era "evaso" dalla panchina. Era agli arresti domiciliari.
Ma non avendo una casa, aveva eletto come domicilio una panchina del parco di Borgosatollo, un paese alla porte di Brescia. E il giudice aveva dato parere favorevole. Ma quando i carabinieri effettuarono il solito controllo, non vedendolo sulla panchina, lo considerarono alla stregua di un evaso.
E così, per il 43enne Ilario Bonazzoli, questo il nome del clochard, nel 2009 per arrivata la condanna in primo grado a 10 mesi dì carcere: la motivazione suona come una beffa recitando che l'imputato era colpevole "per non essersi fatto trovare a casa nonostante fosse agli arresti domiciliari". L'anno scorso la sentenza d'appello aveva ribaltato il primo grado e sancì che Bonazzoli doveva lasciare il penitenziario di Ivrea dove era attualmente detenuto.
Ma la questione del domicilio si ripropose inevitabilmente. Il problema, a quel punto, ricadde sui servizi sociali di Borgosatollo, dove il senza fissa dimora doveva risiedere: "Oggi come oggi, non saprei nemmeno dove alloggiarlo, non abbiamo strutture da offrirgli - commentò all'epoca il sindaco di Borgosatollo Francesco Zanardini. L'unico aiuto che gli possiamo dare è trovare una residenza fittizia".
Per i senza fissa dimora, il carcere non sarà mai la soluzione e la punizione non è utile per la stessa sicurezza sociale. I comportamenti - considerati "devianti" dalla società - tendono a ripetersi nel tempo per assenza di alternative sostanziali. L'esperienza di detenzione infatti si inserisce in situazioni personali e familiari spesso deprivate sia dal punto dì vista economico che culturale: questa posizione di svantaggio - assieme alla carenza di risorse del sistema di sicurezza sociale - fa sì che chi "sbaglia" una volta, paga una pena doppia: cioè la detenzione e la successiva esclusione ripetuta esclusione del contesto sociale e lavorativo.
Chi ha precedenti penali infatti avrà sempre poche speranze di trovare un lavoro regolarmente retribuito. Ad aggravare questa situazione è l'assenza di una fissa dimora; la ricerca dì un lavoro si presenta pressoché impossibile a meno che non si reperisce una sistemazione alloggiativa, ma altrettanto irraggiungibile per una persona sola senza un reddito fisso. Altrettanto difficile è, per loro, usufruire delle misure alternative alla detenzione. La prima difficoltà è dell'ordine economico: l'impossibilità di pagarsi un avvocato fa sì che debbano ricorrere alla difesa dell'avvocato d'ufficio.
Inoltre non sempre dispongono delle informazioni necessarie per richiedere i benefici di cui hanno diritto: è necessario un collegamento con l'esterno, una conoscenza delle risorse del sistema sociale che chi vive per strada spesso non ha. Un ruolo decisivo, come abbiamo già raccontato, è di nuovo determinato dalla possibilità di avere una dimora stabile che è indispensabile per ottenere misure alternative come gli arresti domiciliari o l'affidamento in prova al servizio sociale o delle licenze. Sarà forse il caso di evocare meno "giustizia penale" e invocare, invece, più "giustizia sociale"?
Suicida a 19 anni a Santa Maria Maggiore (La Nuova Venezia)
Il giovane si è impiccato nelle docce con un lenzuolo. La Procura apre un'indagine. il padre: "Voleva disintossicarsi".
Si è impiccato a 19 anni, nella doccia di una cella del carcere di Santa Maria Maggiore, domenica. È morto così un ragazzo di nazionalità rumena, ma residente sin da piccolo in provincia di Como - ad Appiano Gentile - arrestato il 31 dicembre a Venezia dai carabinieri, su ordine di custodia cautelare emesso dalla Procura di Como, per un reato contro il patrimonio: nulla di così drammaticamente grave, tanto che il giudice per le indagini preliminari Andrea Comez - che lo ha sentito in sede di interrogatorio di garanzia - avrebbe voluto disporre per lui gli arresti domiciliari, ma la madre ha negato l'autorizzazione ad accoglierlo in casa, dopo una vita di tribolazioni, tra i continui arresti, furti e "bravate" del figlio, con problemi di tossicodipendenza.
La donna sperava che tenendolo lontano dal Comasco, il ragazzo riuscisse a stare fuori dai guai e disintossicarsi. Invece il giovane Adrian è tornato in cella, ha portato con sé in doccia un lenzuolo e si è impiccato nel piccolo bagno: uno spazio non visibile, per questioni di privacy.
Nel tardo pomeriggio di domenica l'allarme, dato dai due compagni di cella che hanno tentato inutilmente di aiutarlo, come vano è stato l'intervento del personale del carcere (prima) e dei medici del Suem 118 (dopo).
Fino a tarda ora sono proseguiti gli accertamenti da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo e dei Ris, alla presenza del pubblico ministero di turno, Lucia d'Alessandro, rimasta in carcere con gli investigatori fino alle 3 di notte, per sentire gli agenti di Polizia penitenziaria e i due compagni di cella del ragazzo.
Non è emersa alcuna responsabilità nella morte di Adrian da parte del personale del carcere o di altri detenuti, ma gli accertamenti proseguiranno con l'autopsia, affidata al medico legale Antonello Cirnelli: il suicidio di un ragazzo affidato allo Stato in un carcere è un dramma da chiarire in ogni aspetto.
Una vita così breve, eppure segnata più volte da piccoli furti, segnalazioni alle forze dell'ordine di Appiano Gentile, che ben conoscevano il ragazzo e i suoi problemi con la droga: Adrian a 14 anni era scappato di casa e da solo, alla guida di un'auto, aveva raggiunto il padre, che da anni abita in un furgone a Marghera. Poi i carabinieri lo avevano riportato indietro.
Agli investigatori ieri il padre, distrutto, ha raccontato che avrebbe dovuto incontrare il figlio a Venezia, per andare a visitare insieme una comunità. Invece erano scattate le manette - nella serata di san Silvestro - per quell'ordine di custodia in arrivo da Como: sabato 3 gennaio l'interrogatorio di garanzia e il ritorno a Santa Maria Maggiore in attesa del processo, non essendo stato possibile individuare un'abitazione per gli arresti domiciliari. Poche ore dopo, la tragedia di una famiglia.
di Alessandra Longo
La Repubblica, 7 gennaio 2015
Entrare in un supermercato con la fame addosso. Portarsi via le cose, rubarle, per puro istinto di sopravvivenza. Succede sempre più spesso che vengano sorpresi "i ladri di cibo", quelli che non lo farebbero mai ma ci provano, maldestramente, per mangiare. Le cronache ci raccontano di un senzatetto piacentino fermato in un negozio con le tasche gonfie.
"Ho fame e non so come fare", ha detto agli agenti. E sapete cosa hanno fatto quelli del 113, in accordo con il direttore del supermercato? Lo hanno portato in un fast-food e gli hanno pagato il pranzo. Sempre a Piacenza anche il secondo episodio di queste ore.
I poliziotti hanno intercettato un italiano di 51 anni che, dopo aver saltato una recinzione, rovistava nei cassonetti di un negozio di alimentari in cerca di avanzi e alimenti scaduti. Gli agenti hanno visto la scena. È calato il silenzio. Nessuna denuncia. Sono scene che fanno male.
La Sicilia, 7 gennaio 2015
Un poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio al nucleo traduzioni della casa Circondariale di Catania Bicocca, si è tolto la vita, nel primo pomeriggio, a bordo della sua macchina nelle campagne di Caltagirone, vicino al penitenziario della cittadina sicula.
Ne danno notizia il Sindacato autonomo polizia penitenziaria e l'Osapp. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano" dice Donato Capece, segretario generale del Sappe che ricorda come "nel 2014 furono 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria".
Ancora oscure le cause che hanno portato l'uomo, sposato e padre di due figlie di 13 e 17 anni, al tragico gesto, ma Capece sottolinea come sia importante "evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l'attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto.
"È arrivato il momento che il nuovo Capo del Dipartimento cominci seriamente ad affrontare i problemi del Corpo e dei suoi uomini, perché adesso più che mai è diventato sempre più complicato, anche sotto l'aspetto psichico, fare il Poliziotto Penitenziario nelle carceri italiane", dice il segretario generale aggiunto dell'Osapp Domenico Nicotra.
www.leccesette.it, 7 gennaio 2015
L'azienda chiede massima attenzione per una patologia infettiva che da noi era quasi scomparsa. Attenzione alla recrudescenza da Tbc. Lo chiede la Asl allertando gli operatori che devono prestare soccorsi a immigrati e ai detenuti del carcere di Borgo San Nicola. Come spiega il sito salutesalento.it da qualche anno in qua la Tbc fa paura per la sua recrudescenza, soprattutto la forma "bacillifera".
Una patologia infettiva che da noi era quasi scomparsa e che ha ripreso a galoppare dopo l'accoglienza e l'ospitalità agli immigrati e agli extracomunitari. Soggetti, spiegano gli pneumologi di casa nostra, che spesso sono portatori sani, nei quali la Tbc lantentizza.
"Rispetto agli anni passati, quando i casi di Tbc erano rari - ha riferito Anacleto Romano primario di Malattie Infettive al "Vito Fazzi" nel corso di un convegno - Adesso è quasi sempre presente in reparto almeno un paziente con una Tbc polmonare bacillifera. E in alcuni periodi anche 2-3-4 ricoverati contemporaneamente. Si tratta in genere di soggetti immigrati, che vengono soprattutto dell'est, come la Romania e dall'Africa. Ma anche casi di italiani infettati".
Ma il rischio della ripresa della Tbc, per il quale la Asl di Lecce sta mobilitando e allertando le sue unità operative, ridefinendo funzioni e responsabilità, risale ad alcuni anni addietro. Elio Costantino, presidente regionale di Aipo, l'associazione italiana degli pneumologi ospedalieri, ha confermato che "in Puglia la presenza di immigrati e di extracomunitari ha sicuramente una relazione con il ritorno della Tbc e con l'aumento delle Bpco (broncopneumopatie).
Sono state fatte delle indagini al Cara, il centro accoglienza richiedenti asilo di Bari in tre anni successivi: 2009 -2010 e 2011. Per il 2009 e 2010 si è visto che l'incidenza di "cutipositivi", cioè di soggetti che erano risultati positivi al "tine-test", era presente in una percentuale intorno al 30 per cento. Di questi però soltanto 4 su 912 presentavano tubercolosi attiva. I dati del 2011 erano parziali perché l'indagine venne fatta i giorni in cui ci fu la rivolta per il riconoscimento di rifugiati politici".
I tisiologi spiegano che lo screening è necessario "perché questi soggetti presentano un'infezione tubercolare latente; cioè sono venuti a contatto con il bacillo di Kock, ma non sono soggetti malati e non sono pericolosi per gli altri, "ma qualora le difese immunitarie dovessero abbassarsi - mette in guardia il dottore Costantino - possono slatentizzare la malattia e diventano con Tbc attiva". Al Servizio Pneumotisiologico Sovradistrettuale della Asl è stato affidato il coordinamento funzionale degli Ambulatori Distrettuali di Pneumologia e degli Pneumologi in servizio presso la Casa Circondariale di Lecce.
di Vincenzo Falci
Giornale di Sicilia, 7 gennaio 2015
Il giudice dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e che è stata impugnata dai familiari della vittima. Nelle mani del Gip il dossier a carico di cinque medici indagati per omicidio colposo sull'onda del suicidio in carcere di un detenuto. Sarà il giudice a stabilire da che parte penderà l'ago della bilancia.
Se verso la procura che per la seconda volta ha proposto l'archiviazione del caso o, piuttosto, dall'altro lato, quello dei familiari della vittima (assistiti dall'avvocato Massimiliano Bellini) che di contro hanno chiesto nuove indagini o, spingendosi oltre, anche l'imputazione coatta.
Una partita giudiziaria tutta da giocare. E che ruota attorno all'estremo gesto compiuto in carcere dal quarantaseienne Giuseppe Di Blasi, trovato ucciso nella sua cella del "Malaspina" il pomeriggio del 27 dicembre 2011. I suoi familiari hanno sempre posto sul tappeto la precarie condizioni di salute del detenuto. Che nel periodo di detenzione aveva pure perso parecchio peso. Di Blasi, al momento del suo ingresso in carcere per scontare una condanna, pesava infatti oltre cento chili. Ma nel giro di nove mesi si sarebbe smagrito perdendo oltre venticinque chilogrammi.
di Francesca Mariani
Il Tempo, 7 gennaio 2015
Aveva saputo che il padre stava male. Da un momento all'altro il cuore del genitore si sarebbe potuto fermare. Così non ha esitato a rivolgersi al giudice per chiedere un permesso necessario per andare a visitare il padre. Nulla da fare. Il Tribunale gli ha negato questa possibilità. E così, il detenuto non ha potuto far altro che venire a sapere dalla cella di Rebibbia che il papà dopo qualche giorno dalla sua richiesta era morto. E così non ha potuto dargli l'ultimo saluto.
L'uomo, detenuto nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia, Nuovo Complesso, aveva infatti chiesto un permesso di necessità di due ore con scorta per visitare il padre gravemente malato, ma per la Corte di appello di Napoli non sussisteva il requisito dell'imminente pericolo di vita. Qualche giorno dopo, però, l'uomo è deceduto senza che il figlio detenuto potesse fargli visita. Protagonista della vicenda, denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è il napoletano Massimiliano P., 48 anni, rinchiuso nel penitenziario romano in attesa di giudizio.
La vicenda risale al primo dicembre, quando l'uomo - che si è rivolto al Garante per segnalare quanto accaduto - aveva chiesto alla Corte d'appello di Napoli di visitare il padre malato ma i giudici napoletani, negando il permesso, avevano valutato l'uomo non in imminente pericolo di vita.
Purtroppo però, smentendo drammaticamente quanto scritto nel provvedimento di diniego, il 26 dicembre il padre del detenuto è deceduto, senza che il figlio potesse fargli visita un'ultima volta. A ciò si aggiunga che Massimiliano P. non ha potuto presenziare alle esequie o vedere la salma prima della cremazione perché un'altra richiesta alla Corte di appello è rimasta senza risposta.
Per protestare, il 29 dicembre il detenuto ha iniziato uno sciopero della fame, sospeso solo dopo l'intervento degli operatori del Garante. "La cosa che più mi rattrista - ha raccontato l'uomo al Garante - è sapere che mio padre aspettava me per morire. Lo sciopero della fame non me lo riporterà, né riuscirà a placare la rabbia di ingiustizia. Voglio solo esprimere pacificamente il mio dolore per evitare che, in futuro, si verifichino altri casi del genere".
Sulla vicenda, il Garante Angiolo Marroni, ha inviato una lettera al Presidente della 1 sezione della Corte di appello di Napoli. "Mi chiedo - ha scritto Marroni - sulla base di quale istruttoria ha ritenuto di rigettare l'istanza in questione e se vi siano state ragioni particolari che hanno giustificato un trattamento inumano nei confronti del detenuto in questione".
E ancora: "Prova ne sia il fatto che pochi giorni dopo quella richiesta lo stesso è deceduto. Le chiedo inoltre quali siano le ragioni che hanno impedito di rispondere alla richiesta del detenuto di poter presenziare alle esequie". E intanto un poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio nella Casa circondariale di Catania si è tolto la vita a bordo della sua auto a Caltagirone.
di Adriana Morlacchi
La Provincia di Varese, 7 gennaio 2015
Lo scandalo del carcere è tra i primi dieci della classifica di Libera. Il vicepresidente Ginelli: "Si riparta dall'onestà di chi amministra". Varese è entrata a pieno titolo nella "hit parade" della corruzione. Si è posizionata al nono posto tra i dieci scandali più eclatanti del 2014, secondo una classifica compilata dall'associazione Libero e dal Gruppo Abele.
Tutta colpa del carcere di Varese, definito "a luci rosse", perché, secondo l'accusa, "i membri della polizia penitenziaria hanno fatto evadere uno sfruttatore di prostitute in cambio di rapporti". Un carcere dove "la corruzione non è a base di denaro, ma di sesso", usando gli stessi termini con cui ne parla ItaliaOggi. Essere nella hit - nella stessa lista dove compaiono la "cupola romana", con la cooperativa di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, nonché le spese pazze dell'ex governatore del Piemonte Roberto Cota - rappresenta una vera e propria onta che non sarà facile cancellare. Come recuperare?
"Operare secondo canoni etici"
"In provincia di Varese abbiamo sempre avuto la mentalità che il successo derivasse da lavoro sano e incessante".
"Sicuramente stiamo diventando come il resto dell'Italia - afferma Giorgio Ginelli, vicepresidente della Provincia - Fondamentale per cambiare rotta deve essere l'onestà degli amministratori pubblici e dei dipendenti. Bisogna adoperarsi secondo i cardini etici per cui la Provincia di Varese ha sempre brillato".
Gli strumenti ci sono già, anche se farli rispettare non è semplice e andrebbero forse in parte semplificati. "La normativa per appalti e gare è strettissima, non bisogna fare altro che farla applicare, producendo tonnellate di carta per onorare tutti gli impedimenti richiesti. Il problema è la disonestà imperante" continua Ginelli, che suggerisce anche di "dare pubblicità assoluta della situazione reddituale a tutti i livelli".
"Un risveglio delle coscienze"
"Tenere le porte degli uffici sempre aperte, in modo che tutti possano sentire le conversazioni degli altri. In un open-space, il dirigente quando parla con un fornitore ha davanti gli impiegati, cosa che funziona da controllo incrociato".
Il caso del carcere dei Miogni, però, secondo Ginelli non rappresenta la città: "Quella è una situazione miserabile, mentre ci sono esempi molto positivi nel nostro territorio. Guardiamo anche il bicchiere mezzo pieno". La presenza di Varese nella hit può servire a risvegliare le coscienze. Soprattutto quelle che pensano che la corruzione non ci riguardi, che sia roba d'altri.
"Che Varese figuri in quella lista sorprende perché stiamo parlando di una città di provincia, caratterizzata da un tessuto produttivo di alto livello - commenta Antonella Buonopane, portavoce varesina di Libera, associazione contro la corruzione - Caratteristiche che, in altre realtà, hanno dimostrato di non essere di per sé un anticorpo alla corruzione. Il dato significativo è che fino a qualche anno fa si riteneva che il Nord Italia fosse immune alla corruzione.
Cosa che non è assolutamente vera. Non è la graduatoria che preoccupa, ma la pervasività della corruzione nelle istituzioni e nella politica, con interrelazioni con il mondo dell'impresa". Libera ha un'idea per combattere il fenomeno: "Ci siamo attivati da un anno per allargare la legge 109 sulla confisca dei beni non solo ai mafiosi, ma anche ai corrotti". "Ovvero: quando nacque la legge era stata concepita anche per i corrotti. Ma quando fu votata, non si estese la confisca alla corruzione. Quella è una lacuna che va colmata".
www.gonews.it, 7 gennaio 2015
"Oppressione e violazione della dignità umana assumono molte forme nella nostra società". Così l'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, nell'omelia per la messa dell'Epifania nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. Tra queste violazioni Betori ne ha voluta citare una in particolare: "Le condizioni disumane in cui versano le nostre carceri, che non assicurano dignità di persona e possibilità di riscatto ai detenuti".
Il carcere, secondo l'arcivescovo, deve "garantire condizioni di vita dignitosa e percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale a chi, pur avendo commesso delitti, non può però essere rifiutato per sempre, senza prospettiva di espiazione e di rinascita". Rifacendosi alla luce che insieme al cammino è uno dei simboli dell'Epifania cristiana, Betori si è chiesto "quali siano oggi i nostri idoli, quelli che facciamo entrare in concorrenza con lo splendore della luce che è Dio".
"Si è persa l'identità propria dell'uomo" e questo porta ad altre forme di idolatria, "quelle legate alla presunzione dell'uomo di farsi misura a se stesso, di pensare di poter trovare felicità andando dietro alle proprie voglie, senza riferimenti morali e dimenticando gli altri". "Dall'individualismo, che trasforma i desideri in diritti, scaturisce anche l'indebolimento dei legami sociali - ha concluso l'arcivescovo, fino alla ricerca di affermare se stesso contro l'altro, fino a schiacciarlo, a schiavizzarlo".
www.radicali.it, 7 gennaio 2015
Dichiarazione di Valerio Federico, tesoriere di Radicali Italiani: "I detenuti, anche a Como, scontano due pene, quella per i reati commessi e quella, supplementare, per le condizioni che vivono all'interno degli istituti penitenziari.
Questa seconda pena, illegale, è scontata anche dai detenuti in custodia cautelare, in Italia - in percentuale - quattro volte quelli della Francia e otto volte quelli della Gran Bretagna".
"Il regolamento penitenziario del 1975, modificato nel 2000, afferma una serie di diritti per il detenuto finalizzati alla rieducazione e a trattamenti "umani", come previsto dalla Costituzione delle Repubblica. Questo ordinamento è pluri-violato: gli imputati dovrebbero pernottare in camere a un posto, non avviene; i servizi igienici, compresa la doccia, è previsto che siano collocati in un vano annesso alla camera, non avviene; "ai fini del trattamento rieducativo al condannato e all'internato va assicurato il lavoro", non avviene.
Si potrebbe continuare. Ad esempio con l'acqua calda che dovrebbe essere disponibile nelle celle e che non essendolo, porta i detenuti di Como, privi di lavanderia, a lavare i propri indumenti sotto le 3 o 4 docce (una in condizioni pietose proprio per i 17 detenuti della sezione infermeria) disponibili ogni 60 detenuti. Lo Stato italiano viola dunque le regole che si dà e l'ordinamento penitenziario, nelle carceri italiane, è di fatto carta straccia".
"Va segnalato inoltre un tasso di sovraffollamento a Como pari al 180 per cento, 367 detenuti presenti in 200 posti effettivamente utilizzabili. Sono cinque gli educatori, uno ogni 73 detenuti. Accanto al carcere vi è un'aula bunker per la quale si spesero oltre 10 miliardi di vecchie lire. È stata utilizzata per un solo processo oltre 20 anni fa ed è ora in stato di completo abbandono".
"È rilevante la novità della sorveglianza dinamica, lodevole iniziativa del Dap, che a Como ha portato i detenuti di cinque sezioni su sette a poter "socializzare" fuori dalle celle per oltre dieci ore giornaliere". "Otto detenute della Casa Circondariale di Como hanno aderito con un giorno di sciopero della fame - preannunciato per giovedì 8 gennaio - al Satyagraha di Natale con Marco Pannella".
La Repubblica, 7 gennaio 2015
Dietro-front della commissione medica in extremis: Frank van Den Bleeken aveva chiesto di beneficiare della legge del 2002 per porre fine alle 'sofferenze psicologichè della vita in cella: "Non posso uscire perché colpirei di nuovo". Ora lo stop inatteso e la decisione del ministro di trasferirlo in una struttura medico-carceraria. I parenti delle vittime: "Deve marcire dentro".
Non riceverà l'eutanasia Frank Van Den Bleeken, il belga in carcere da 30 anni per omicidio e diversi stupri. Il governo, sulla base di un parere medico, ha negato la richiesta del suicidio assistito avanzata dall'ergastolano di 52 anni. Richiesta che pochi giorni fa era stata accolta, tanto che l'iniezione letale era già fissata per l'11 gennaio. Van Den Bleeken aveva ammesso di non poter riuscire a contenere la violenza. "Se sarò rimesso in libertà mi comporterò allo stesso modo, sono un pericolo pubblico. Che cosa dovrò fare, stare seduto qui a marcire fino all'ultimo giorno della mia vita? Preferisco l'eutanasia", aveva dichiarato motivando la sua richiesta.
Il ministro della Giustizia belga, Koes Geens, ha però bloccato la "procedura d'eutanasia", decidendo che il detenuto sarà trasferito in una struttura psichiatrica legale, specializzata in lungodegenti, a Gand, aperta di recente dove, spiega, avrà una "vita qualitativamente decente". Una decisione, fa sapere il ministro dopo le polemiche dei giorni scorsi, che attiene a "motivi personali legati al segreto medico" e soprattutto dimostra "la capacità logistica del Belgio di agire in conformità con gli standard moderni di monitoraggio di questo tipo di carcerati".
Van Den Bleeken violentò e strangolo una ragazza di 19 anni nel 1989 in un bosco nei pressi di Anversa. La madre della vittima morì di crepacuore. Le sorelle della donna uccisa da Van den Bleeken si sono opposte alla concessione dell'eutanasia: "Quell'uomo deve marcire in cella", hanno detto. L'eutanasia in Belgio è legale dal 2002 e nel 2013 c'è stato il record dei casi, 1.807.
Giorni fa, quando un giudice della Corte d'Appello belga aveva accolto la richiesta di Van Den Bleeken, la Lega dei Diritti dell'Uomo aveva duramente criticato il silenzio delle autorità politiche di Bruxelles, sottolineando come quella tragica domanda di eutanasia fosse la conseguenza immediata dell'incapacità dello Stato di fornire a detenuti con gravissimi problemi mentali un trattamento medico adeguato. Del resto, lo stesso Van Den Bleeken aveva dichiarato di desiderare la morte proprio perché si trovava in carcere in condizioni "disumane". In quel luogo, aveva sottolineato, non aveva alcuna possibilità di "convivere con i suoi enormi problemi psicologici e di controllare i suoi impulsi sessuali".
Il caso ha sollevato forti polemiche sui limiti del ricorso all'eutanasia, in un Paese come il Belgio che ha una delle legislazioni tra le più articolate ed estese al mondo. Il testo, aggiornato nel 2002, prevede infatti il via libera all'eutanasia in caso di una "sofferenza fisica o psichica costante e insopportabile".
Tuttavia, tanti, anche qui in Belgio, hanno visto dietro la scelta iniziale dei medici a favore del suicidio assistito una sorta di resa di fronte a un sistema carcerario inefficiente. Oggi il dietrofront del governo che smorza, ma solo in parte, il dibattito, restringendo la casistica di applicazione della norma, almeno per quanto riguarda gli ergastolani.
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