www.irpinianews.it, 15 aprile 2015
L'Osapp, l'Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, in una nota segnala al prefetto di Avellino Carlo Sessa la situazione nel carcere di Ariano Irpino relativa "all'invio da parte del Sanitario della struttura Penitenziaria Arianese di detenuti che sono in grave ed imminente pericolo di vita al locale Ospedale Civile".
"Nell'ultimo periodo c'è stata una escalation di tali episodi, specialmente nelle ore serali e notturne - si legge - cioè quando il Personale di Polizia Penitenziaria presente in servizio è ridotto ai minimi termini. L'ultimo episodio risale al pomeriggio di ieri, quando un detenuto extra comunitario, riferisce di avere ingoiato delle lamette da barba e pertanto il Sanitario ne disponeva l'invio presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale Civile per gli esami del caso. La cosa che ci preoccupa, sono le modalità di esecuzione, in quando il detenuto è stato trasferito dal Penitenziario all'Ospedale, mediante automontata del Corpo (Fiat Stilo), mezzo adibito per il trasporto di Personale di Polizia Penitenziaria e non certamente di detenuti e soprattutto in precarie condizioni di salute".
"Tanto è vero che la traduzione del detenuto si è svolta con il solo Personale di Polizia Penitenziaria, senza alcun ausilio Sanitario, ed inoltre il detenuto allocato nella parte posteriore dell'autovettura e seduto al centro in mezzo a due agenti armati con la pistola d'ordinanza, ciò significa che tale situazione è davvero al limite della sicurezza ed inoltre gli Agenti, non erano sicuramente in condizioni operative idonee in caso di qualsiasi evento che potesse accadere lungo l'itinere".
"Pertanto questa O.S. sollecita e sensibilizza chi di competenza a porre gli opportuni correttivi a tale incresciosa modalità operativa che non risponde agli standard di sicurezza e a quanto previsto dal Modello Operativo delle traduzioni e dei Piantonamenti, che prevede che l'autovettura del Corpo venga impiegata in attività di supporto alle traduzioni effettuate mediante ambulanza civile e non di proprietà dell'Amministrazione Penitenziaria".
"Inoltre, appare davvero incomprensibile, che il detenuto, successivamente dopo qualche ora viene trasferito per ulteriori accertamenti presso la città Ospedaliera G. Moscati di Avellino che dista oltre 60 Km dall'Ospedale Civile O. Frangipane di Ariano Irpino, effettuando la traduzione con la sola ambulanza impiegata per il trasferimento da parte dell'Azienda Ospedaliera, senza alcuna autovettura di supporto del Corpo".
"Tale modalità è davvero nuova ed insolita, pertanto si chiede di voler valutare l'opportunità di realizzare un Nucleo Locale T.P. al fine di gestire tali eventi critici e di assegnare Risorse Umane e automezzi per effettuare tali tipologie di servizi".
Adnkronos, 15 aprile 2015
Fare in modo che dopo il carcere ci sia l'occasione di riscattarsi è possibile: bisogna però preparare il terreno quando ancora si è in cella. A questo bisogni risponde il protocollo d'intesa, arrivato alla sua terza edizione, siglato oggi da Città di Torino, Regione Piemonte, Casa Circondariale, Università, Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo e Fondo Musy e che dal 2008 ad oggi ha già coinvolto 11 detenuti. Tra gli obiettivi dichiarati c'è quello di far completare ai detenuti gli studi universitari seguendo tirocini formativi negli enti locali, per costruire il proprio futuro e trasformare il momento della pena in un'occasione di vero reinserimento sociale.
Cinque i tirocini attivi al momento che coinvolgono 2 italiani e 3 extracomunitari fra i 30 e i 50 anni. Tre le parole chiave del progetto per il presidente dell'Ufficio Pio, Nanni Tosco: "studio, lavoro, reinserimento che hanno dato finora risultati positivi per tutti i casi tranne uno. Un protocollo di grande qualità - aggiunge - per dare un'opportunità concreta ai detenuti".
Opportunità di studio e di lavoro per la loro vita fuori dal carcere, come dimostrano i risultati raggiunti dalle persone che hanno completato il loro percorso e che hanno poi trovato un impiego in vari settori, anche in quello legale. "Ho conosciuto alcuni di loro - dice il vicesindaco Elide Tisi -: è attraverso percorsi di questo tipo che si ha il vero reinserimento". "La logica di un progetto come questo - aggiunge l'assessore regionale Monica Cerutti - non è assistenziale, ma vuole favorire gli studenti per creare un futuro e fare del carcere non solo un luogo di pena". Per il rinnovo del protocollo il Fondo Musy ha stanziato 44 mila euro che la Compagnia di San Paolo ha deciso di raddoppiare.
www.ilmarghine.net, 15 aprile 2015
"Emergenza carceri": è il titolo di un progetto che vedrà protagonisti gli studenti di diverse scuole superiori della città e della provincia. Una iniziativa voluta e promossa dall'Associazione culturale Àndel@s, con il prezioso e fondamentale contributo della Fondazione Banco di Sardegna.
Un progetto nato dall'esigenza di approfondire, a partire dai giovani, le tematiche legate al sistema penitenziario italiano. Se è vero, infatti, che "il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri", altrettanto vero è che il mondo carcerario italiano è in continua emergenza tanto da meritare i richiami continui della Corte europea dei diritti dell'Uomo. Intervenire a livello legislativo è perciò fondamentale. Ancor più fondamentale, tuttavia, ai fini della democrazia e del processo di crescita culturale dell'intero Paese, è la presa di coscienza del problema, così da far "emergere" il tema carcere. È su questi temi, tanto delicati quanto fondamentali, che gli studenti barbaricini apriranno il dibattito (anche attraverso un blog collettivo costruito appositamente, www.emergenzacarceri.it).
I primi ad essere coinvolti e ad inaugurare la serie degli incontri sono gli allievi delle terze classi dell'Istituto di istruzione superiore "Alessandro Volta" di Nuoro.
L'appuntamento è fissato per venerdì 17 aprile 2015, dalle ore 11 nell'aula magna della scuola diretta da Innocenza Giannasi. A parlare con i ragazzi e le ragazze del "Volta", ci saranno la direttrice della Casa circondariale di Badu e Carros Carla Ciavarella e il giornalista Luciano Piras, autore del libro "I terroristi sono miei fratelli.
Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato" (àndel@sedizioni. Nuoro 2013), un saggio che le scuole coinvolte nel progetto hanno avuto in omaggio. Un libro che ripercorre un periodo ben preciso che da Nuoro e dalla "lontana" provincia nuorese ha segnato profondamente la storia d'Italia: i "fatti" di Badu e Carros del 1983, quando don Bussu si schierò apertamente con i padri delle Br allora detenuti a Nuoro.
È a partire da questo libro-biografia che gli studenti sono invitati alla riflessione sui temi del carcere, nel tentativo di fornire gli strumenti socio-culturali utili e necessari per una sana e costruttiva critica della realtà. Un impegno civile che dopo gli studenti dell'Istituto Volta vedrà protagonisti gli allievi del Liceo scientifico "Pira" di Dorgali, quelli dell'Istituto superiore "Ciusa" di Nuoro, del Liceo ginnasio "Aproni" di Nuoro e del Liceo scientifico "Fermi", sempre di Nuoro.
www.tarantosera.it, 15 aprile 2015
La Fns-Cisl ha riscontrato emergenze igieniche, negli ultimi giorni, presso il locale mensa della Casa Circondariale di Taranto, in concomitanza con l'avvio del servizio affidato ad una Azienda vincitrice di nuova gara di appalto. È quanto si legge in una nota.
"Il personale lamenta una serie di disservizi nella somministrazione dei pasti" dichiara Erasmo Stasolla, Segretario generale aggiunto della Fns Cisl Taranto Brindisi "e pare che il cuoco oltre alle sue mansioni, svolge anche quelle di somministratore dei pasti, forse anche di pulizia dei locali della mensa oltre che nelle cucine, dal momento che solo per due ore al giorno egli viene supportato da un altro dipendente che lo aiuta nel lavoro".
Ieri mattina una delegazione formata dalla direzione e dalla commissione mensa agenti ha ispezionato detti locali. "Abbiamo riscontrato sporcizia e fatiscenza" rincara Stasolla "in più il pentolame era sporco dal giorno prima ed abbiamo visto piantine di prezzemolo e basilico in vasi di terra, nella cucina piene di formiche. Tutti, insomma ci siamo resi conto di una situazione sgradevole ed insostenibile". La direttrice della Casa Circondariale ha ritenuto opportuno, di conseguenza, sospendere l'erogazione dei pasti per il personale erogando un buono pasto.
"Chiediamo interventi urgenti da parte degli organi competenti ed annunciamo una serie di manifestazioni come quelle dell' astensione volontaria dalla mensa e dello stato di agitazione del personale, qualora nei prossimi giorni l'emergenza non rientrasse nella normalità" ha anticipato Stasolla che, conclusivamente, spiega "abbiamo moltissimi Poliziotti penitenziari che hanno la necessità di consumare un pasto caldo e decente, dopo otto ore di duro lavoro in una situazione generale dello stesso Carcere che non è certamente delle migliori".
Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2015
Nella motivazione è stata evidenziata l'importanza di uno strumento d'informazione scritto dalle persone detenute come opportunità di crescita e riflessione.
Il prestigioso Premio Vergani è stato assegnato al giornale In corso d'Opera, realizzato dalla persone detenute grazie all'iniziativa di Cisproject-Leggere Libera-Mente - associazione culturale che si propone di favorire il reinserimento nella cosiddetta società civile - e della casa di reclusione di Milano Opera.
Il premio, organizzato dal Gruppo Cronisti Lombardi, è stato consegnato sabato 11 aprile nell'ambito di una cerimonia che si è svolta all'Istituto dei Ciechi di Milano e ha voluto essere un pubblico apprezzamento del particolare valore sociale del progetto.
Nella motivazione si è sottolineato come l'informazione debba essere senza barriere per permettere di sentirsi liberi. Con queste premesse un giornale scritto dalle persone detenute diventa uno strumento importante in un percorso di studio e un'occasione per riflettere sulla realtà carceraria, ma anche sugli avvenimenti che avvengono fuori.
"È stato un momento di grande emozione - ha detto Carlo, uno dei redattori diversamente liberi, attualmente detenuto, a margine della premiazione - pari a quella che avevo provato nel 1990 in sala parto quando è nato il mio ultimo figlio".
"Questo premio è per noi molto importante perché è un riconoscimento del lavoro svolto insieme alle persone detenute, iniziato con la lettura e proseguito con la scrittura, fino ad arrivare all'informazione - ha dichiarato Barbara Rossi di Cisproject- Leggere-Libera-Mente - In particolare, crediamo che scrivere, come leggere, sia una grande opportunità di crescita personale caratterizzata da un profondo spirito di riscatto e uno strumento utile nella prevenzione, affinché nessuno rimanga solo".
Nei giorni successivi, il premio è stato riconsegnato al giornale In corso d'Opera - che è diretto da Renzo Magosso ed è curato graficamente da Carlo Ubezio - anche da parte del sottosegretario alla Giustizia. Ulteriori informazioni sono disponibili all'indirizzo www.leggereliberamente.it. Contatti: Ufficio Stampa Cisproject-Leggere-Libera-Mente, e-mail
www.ilfriuli.it, 15 aprile 2015
Il consigliere della Lega Nord, Riccardo Piccinato, attacca: "Come è possibile avvenga una cosa simile? E la sicurezza?". Colloqui tra detenuti e passanti. Accade anche questo lungo le vie del centro di Pordenone, nei pressi del castello che ospita il penitenziario cittadino. A segnalare la questione, con un certo sgomento, è il consigliere comunale della Lega Nord, Riccardo Piccinato. "Evidentemente - dice il rappresentante del Carroccio - non è bastata l'evasione di un detenuto, che ha poi stuprato, sequestrato, e così rovinato la vita ad una ragazza. Il minimo, nel carcere di Pordenone, ancora evidentemente non viene fatto. Sono ormai molte le segnalazioni che provengono dai cittadini, preoccupati ed esterrefatti, in merito a veri e propri colloqui che avvengono tra i carcerati e i passanti, spesso e volentieri in lingue, casualmente, straniere.
Ma com'è possibile che i carcerati riescano a dialogare con chiunque si trovi al di fuori delle strutture? Questo è un problema gravissimo per la sicurezza e per l'incolumità della cittadinanza. Mi chiedo come possa essere o tollerato, o sconosciuto, questo problema visto che, ovviamente, i dialoghi non avvengono a bassa voce. Dov'è la sicurezza? La questione merita un'interrogazione all'Amministrazione per chiedere spiegazioni soprattutto in un momento come questo dove il tema della sicurezza, a causa delle numerose mancanze proprio dell'Amministrazione, diventa sempre più urgente".
di Roberta Rampini
Il Giorno, 15 aprile 2015
L'uomo è stato subito trasferito al carcere di Monza. Grave episodio di violenza, ieri mattina, nel carcere di Bollate. Un detenuto italiano di 30 anni, in cella per reati di droga e con fine pena per il 2016, ha aggredito un sovrintendente e due agenti scelti della Polizia penitenziaria che lo stavano trasferendo nella casa circondariale di Monza. Quando il detenuto ha appreso la notizia del trasferimento è andato in escandescenza mettendo a soqquadro la cella. Riportato alla calma, accompagnato nell'ufficio matricola per le procedure di rito, ha aggredito il personale deputato alla scorta. La notizia è stata resa nota dal segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece.
"Il sovrintendente e due agenti scelti della polizia penitenziaria, sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari al pronto soccorso. Il detenuto, comunque, è stato tradotto presso la casa circondariale di Monza", aggiunge il segretario regionale Sappe della Lombardia, Alfonso Greco. Una nuova ombra si allunga sul carcere di Bollate all'avanguardia per il trattamento dei detenuti e indicato da tutti come "carcere modello" per i molteplici progetti di reinserimento sociale e lavorativo. Lo scorso anno c'erano stati alcuni episodi spiacevoli, come la fuga di tre detenuti mai rientrati in cella dopo un permesso premio e un permesso per lavoro.
Da anni critico nei confronti del sistema di sorveglianza dinamica con celle aperte otto ore al giorno, dopo questo episodio il sindacato rincara la dose e aggiunge, "nella casa di reclusione di Milano Bollate la tensione è costante. Nei dodici mesi del 2014 ci sono stati due tentativi di suicidio, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 24 episodi di autolesionismo, 33 colluttazioni e quattro ferimenti - dichiara Capece - non a caso, il nostro sindacato reitera da tempo la richiesta di interventi sotto il profilo dell'incremento dell'organico della Polizia Penitenziaria e di una nuova organizzazione del lavoro all'interno del carcere".
Il direttore del carcere Massimo Parisi, difende la validità del modello Bollate e precisa, "stiamo parlando di un detenuto con evidenti problemi psichiatrici, infatti è stato trasferito a Monza proprio per un periodo di osservazione. Si è trattato di un episodio isolato, che per fortuna non ha avuto gravi conseguenze per gli agenti. La quotidianità dei rapporti tra detenuti e personale di polizia penitenziaria è ben diversa".
di Stefano Anastasia
Il Manifesto, 15 aprile 2015
Se ce lo consentissero le migliaia di persone perseguitate ingiustamente (incarcerate o anche solamente limitate nei loro diritti civili a forza di sanzioni amministrative), potremmo dire che il peggio che ci resta della peggiore stagione proibizionista è in quella protervia tecnocratica con cui per sei anni è stato gestito e affondato il Dipartimento delle Politiche Anti-droga presso la Presidenza del Consiglio dei ministri: le relazioni al Parlamento svuotate di contenuti, le conferenze nazionali ridotte a misere farse, le Regioni esautorate, i finanziamenti ai servizi accentrati e occultati.
Di tutto questo è stato responsabile, politicamente, il sedicente "tecnico" Giovanni Serpelloni, al vertice del Dpa dal 2008 al 2014 per volontà di Carlo Giovanardi. Cancellata la legge dalla Consulta, congedato Serpelloni, pensavamo che si potesse aprire una nuova pagina nella politica sulle droghe, ma ecco che da un recesso della storia una mano si allunga nel presente e cerca in sede giudiziaria una improbabile rivincita.
Decideranno i giudici, chiamati maldestramente in causa. A noi il dovere di denunciare l'ennesima prova di arroganza, al Governo in carica la responsabilità di distinguersene.
Al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi
Al Capo Dipartimento delle Politiche Anti-droga, Dott.ssa Patrizia De Rose
Mercoledì 22 aprile presso la prima sezione civile del Tribunale di Roma inizierà il processo contro Franco Corleone per una accusa di diffamazione intentata dall'ex Capo del Dipartimento delle politiche antidroga Giovanni Serpelloni, in relazione a una intervista data ai giornali locali del Gruppo Espresso nell'ambito di un'inchiesta sulle spese del Dipartimento politiche antidroga.
Franco Corleone, attualmente Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, è stato a lungo parlamentare e per cinque anni sottosegretario alla Giustizia, impegnato con passione e determinazione sui temi del diritto e del carcere. Da trent'anni si occupa della politica delle droghe e per noi è sempre stato un punto di riferimento.
L'enormità del risarcimento richiesto, trecentomila euro, dà la misura del carattere intimidatorio della citazione in giudizio, fatta quando - ricordiamo - il dr. Serpelloni aveva ancora responsabilità di vertice nell'amministrazione pubblica e si faceva assistere dall'avvocatura dello Stato.
Si tratta di una grave azione che colpisce il diritto di critica, nel caso di specie una legittima contestazione dei criteri di conduzione delle politiche antidroga da parte del dr. Serpelloni, che allora come oggi Franco Corleone e i promotori di questo appello considerano autoreferenziale e senza controllo. Ma dal 17 luglio 2013, giorno in cui è iniziata la causa, tutto è cambiato.
La legge Fini-Giovanardi, la cui applicazione era all'origine della polemica politica, è stata cancellata in seguito a una sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta. Il dr. Serpelloni è stato allontanato dalla responsabilità del Dipartimento Anti-droga ed è tornato nella sua sede di lavoro, la Asl 20 di Verona (che poi ne sia stato licenziato per giusta causa qui non ci interessa).
Quel che è in gioco non è l'esito del processo, siamo infatti convinti che non potrà che essere affermata l'innocenza di Corleone e la legittimità del suo comportamento, ma la libertà di critica e la condivisione di una cultura del confronto da parte delle istituzioni pubbliche.
Il Presidente del Consiglio e la nuova responsabile del dipartimento antidroga sono certamente a conoscenza della questione e non possiamo credere che condividano questa azione legale carica di intransigenza ideologica e di intimidazione. Il codice di procedura civile indica loro la strada per chiudere una vicenda assai imbarazzante.
Chiediamo a Matteo Renzi e a Patrizia De Rose di compiere un atto di discontinuità attraverso una indicazione chiara all'Avvocatura dello Stato di non interesse al proseguimento della causa e la conseguente rinuncia agli atti in giudizio. Serpelloni sia lasciato solo in questa pretestuosa, temeraria e intollerante iniziativa giudiziaria.
Sottoscrivono: Stefano Anastasia; Stefano Cecconi; Riccardo De Facci; Patrizio Gonnella; Leopoldo Grosso; Luigi Manconi; Ivan Novelli; Massimo Oldrini; Marco Perduca; Andrea Pugiotto; Maria Stagnitta.
di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2015
Mano libera del giudice di appello nella determinazione della pena, dopo la sentenza della Consulta su traffico e consumo di stupefacenti. Anche nello stabilire una sanzione assai più vicina all'attuale massimo rispetto a quella inflitta in primo grado che era invece vicina al minimo. Basta che sia rispettato il divieto di peggioramento del trattamento se il ricorso è presentato dall'imputato.
La precisazione arriva dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 15247 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato dalle difese di due imputati sanzionati per la detenzione di un quintale di hashish e lo spaccio di parte della sostanza. Le difese avevano sostenuto l'omessa motivazione della Corte d'appello su un passaggio cruciale: le ragioni per cui si era mossa partendo da una pena base prossima al massimo edittale quando in precedenza la pena era prossima al minimo.
La Cassazione ha invece messo in evidenza come i giudici di appello abbiano correttamente ritenuto di dovere adeguare d'ufficio la sanzione inflitta alla disciplina venutasi a creare dopo la sentenza della Corte costituzionale, senza che vi fosse peraltro stata sul punto una richiesta da parte degli imputati. Così, "al Collegio pare evidente allora che il giudice del merito, chiamato ad applicare, come nel caso che ci occupa, direttamente ovvero in sede di rinvio, una nuova pena a fronte di una precedente dichiarata incostituzionale, abbia una piena cognitio per quanto riguarda la quantificazione della pena".
Con un doppio limite peraltro: da una parte il rispetto dell'obbligo di applicare la normativa che rivive per droghe leggere dopo la pronuncia n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, e, dall'altra, il divieto di disporre misure peggiorative, se il pubblico ministero non ha presentato impugnazione che va inteso nel senso di non potere infliggere una pena superiore a quella definita in primo grado.
Inoltre, la Cassazione osserva che è assolutamente normale che, di fronte a una sanzione unica e particolarmente grave, come quella prevista dalla disciplina anteriore al giudizio della Consulta (da 6 a 20 anni di reclusione e da 26.000 a 260.000 euro di multa), come era quella prevista indifferentemente per le droghe pesanti e quelle leggere, il giudice di primo grado, chiamato a quantificare la pena, abbia, in primo luogo valutato la qualità e la quantità della sostanza detenuta. E che sia quindi partito, trattandosi di hashish, da una pena base vicina a quello che, all'epoca, era il minimo previsto.
A sua volta, altrettanto correttamente ha proceduto la Corte d'appello, quando, chiamata ad applicare una pena che, nella ridotta forbice tra minimo e massimo previsto, prevedeva già la distinzione tra droghe pesanti e leggere e la necessità di riferirsi solo a queste ultime nel caso esaminato. Pertanto, è una scelta condivisibile e legittima, nella valutazione della Cassazione, quella di procedere all'individuazione di una pena vicina al nuovo massimo edittale, che poi corrisponde al vecchio minimo, dichiarato incostituzionale per le sostanze in questione.
In caso contrario, sottolinea la Cassazione, si dovrebbe invece arrivare alla conclusione per cui il giudice di appello dovrebbe essere vincolato alla valutazione operata dal giudice di primo grado pur avendo di fronte un dati normativo del tutto diverso.
A corroborare questa linea interpretativa, la Corte chiama in causa ora una pronuncia delle Sezioni unite, recentissima e di cui ancora non sono note le motivazioni ma solo l'informazione provvisoria (il deposito è dello scorso 26 febbraio). Le Sezioni unite, affrontando e risolvendo una serie di questioni relative alle conseguenze del verdetto della Consulta, hanno tra l'altro dato risposta positiva alla domanda se in sede di esecuzione dovesse essere rideterminata la pena patteggiata definitivamente prima della Corte costituzionale.
di Alessandra Borella e Cecilia Andrea Bacci
Corriere della Sera, 15 aprile 2015
Quella che porta all'isola di Bastøy è una barca piccola, bianca. Tra l'interno e l'esterno si danno il cambio tre o quattro uomini con addosso delle giacche gialle. Sorridono mentre intorno non c'è che vento freddo e silenzio. Dopo pochi minuti, forse un quarto d'ora, la barca attracca. Alcuni uomini del personale staccano, il loro turno è finito. È arrivato il momento di tornare a casa. Solo che non stiamo parlando di marinai, ma di detenuti, e la loro non è una semplice casa ma una delle 88 abitazioni, rigorosamente in legno, che costituiscono questo singolare carcere norvegese, a 75 chilometri da Oslo.
A Bastøy non si arriva per caso. E questo non ha niente a che vedere col fatto che si tratta di un'isola di appena due chilometri quadrati, persa in un fiordo norvegese. Per arrivare qui, sulla solita barca che porta i visitatori, c'è la lista d'attesa. Tom Eberhardt, direttore del carcere, riceve circa 30 richieste al mese. "Non possiamo accettarli tutti" spiega. Questa non è soltanto una decisione dello staff. Per arrivare qui bisogna avere dei requisiti particolari. Innanzitutto, aver già scontato la maggior parte della pena perché sull'isola di Bastøy, come spiega Tom, si possono passare al massimo cinque anni, ma soprattutto devono avere un forte desiderio di migliorarsi e la volontà di lavorare su se stessi.
I 115 detenuti che sono qui hanno scritto una lettera motivazionale. Non importa quale reato abbiano commesso e quanto grave sia stato. Da quando mettono piede sopra questa isola, per loro e per chi li segue e li sorveglia, il passato non conta più. Esistono solo presente e futuro. "Io non posso fare nulla per quello che sono stati e per ciò che hanno commesso - dice Tom. Posso però fare qualcosa per quello che sono e che saranno domani".
Tom, capelli biondi e occhi di ghiaccio, come quello che ricopre le strade dell'isola, lavora qui da due anni, dopo una ventina trascorsi come direttore in un carcere "chiuso". Ci mostra l'ufficio e ci offre una tazza di caffè. La prima di molte che berremo, durante la giornata. "Alcuni media hanno mostrato le immagini dei detenuti al sole, d'estate, a nuotare nel lago - continua Tom. Hanno parlato di hotel di lusso, di prigione a cinque stelle. Ma nessun giornalista è mai venuto d'inverno, a vedere che cos'è quest'isola per gli altri sei mesi dell'anno". È bianca di neve, desolata, fredda.
In cambio del cellulare, requisito all'ingresso, solo un badge di riconoscimento e alcune informazioni sul carcere, nero su bianco, scritte da un detenuto, di sua iniziativa, nell'aprile 2013. "Dico no alla maggior parte delle richieste che ricevo per venire qui - dice Tom -. Non voglio far diventare questo posto un circo mediatico. I ragazzi hanno diritto alla loro privacy. Mi rendo conto che sia una realtà particolare da raccontare, ma scelgo io di volta in volta da chi". Forse coglie le nostre espressioni tronfie, perché aggiunge: "Ero davanti al pc quando mi avete inviato la mail. Un caso". Sorride. E anche noi.
Contrappasso
A Bastøy ci sono 115 fortunati dei 3.872 detenuti norvegesi. Non uno di più, non uno di meno. Il numero è mantenuto costante e la struttura costa allo Stato circa 8 milioni di euro l'anno, su un investimento totale nelle carceri di circa due miliardi. L'Italia ne spende tre, ma di detenuti ne ha 53mila.
Tom cammina rapido e scattante in mezzo ai campi silenziosi, come un padrone di casa che ne custodisce ogni segreto. Ogni tanto qualche detenuto ci passa accanto, in sella a una bicicletta. "Se le sono comprate da soli, coi soldi guadagnati grazie al loro lavoro" spiega Tom. La neve continua ostinatamente a macchiare alcune parti del grande prato. Guardando in giro si possono distinguere la chiesa, il fienile, l'edificio dello staff. E tutt'intorno le casette gialle, rosse, pallide, con all'esterno due o tre bici.
Conosciuta come "isola del diavolo", Bastøy è stato un riformatorio per ragazzi dal 1900 al 1970: buona parte della "cattiva gioventù" norvegese veniva rinchiusa qui in attesa della maggiore età o dello sconto della pena. Era un posto famoso per le modalità di detenzione piuttosto brutali.
Oggi lo è esattamente per il motivo opposto: dal 1988 è una prigione di "minima sicurezza", come viene definita. E dal 2006 è quella che conosciamo oggi. I detenuti vivono sull'isola una vita normale. O meglio, l'apparente surrogato di un'esistenza comune. Sono liberi, ma devono restare dentro casa dalle 23 alle 7.
Coi soldi guadagnati, molti detenuti decidono di comprarsi una bici per spostarsi meglio tra le casette e i luoghi di lavoro.
Autonoma, ecologica, economica. Umana
Bussiamo a una porta bianca. Ci apre un uomo massiccio, lunghi capelli biondi e un sorriso rassicurante. Il suo nome è Rune, ha 39 anni ed è arrivato qui da poco, dopo aver passato cinque anni in un carcere di massima sicurezza. Non ha nessun problema a spiegare perché si trovi lì: "Sono entrato in una banca e ho fatto una rapina a mano armata". Nel soggiorno, la stufa è alimentata dal legno dell'isola raccolto dai detenuti. "Qui tutto è fatto di legno, del nostro legno" sottolinea Tom Eberhardt. Un fatto importante dato che, grazie al consumo dei prodotti dell'isola - dalle verdure alle pelli di mucca - , quella di Bastøy è una prigione ecologica: la terra viene lavorata con i cavalli e i rifiuti sono riutilizzati come concime o per soddisfare parte del fabbisogno energetico. Fatta eccezione per il pulmino dei visitatori e alcuni trattori, di auto qui non se ne vedono. Le bici, invece, ovunque.
Rune lavora sulla barca ma oggi non è di turno. In un'ora di chiacchierata ci racconta le sue passioni, tipo quella per le moto, ma anche le sue idee sul carcere e sulla giustizia. La nostra conversazione viene scandita dal rumore delle tazze che si poggiano sul tavolo. Imbracciava fucili con disinvoltura per rapinare le banche. Ora armeggia con le stoviglie. "I norvegesi sono dei gran bevitori di caffè, senza questo liquido scuro non andremmo da nessuna parte" dice Rune, sorridendo. Da quando è a Bastøy, per lui è iniziata una nuova vita: "Mi è venuta la voglia di studiare e adesso mi mancano due anni per diventare meccanico, il mio sogno". Però, ci racconta mentre i suoi occhi si abbassano, lui è uno che ha già pagato per le sue scelte. Soprattutto con gli affetti: "Come fai a dire alla tua ragazza che passerai anni e anni in prigione? Non puoi". Se l'avesse ancora, potrebbe venire a trovarlo qui una volta alla settimana e potrebbero restare soli, senza sorveglianza. "I familiari possono fermarsi anche di notte? - chiediamo a Tom che non si scandalizza. Ci stiamo pensando, dobbiamo solo attrezzarci".
Non tutti hanno voglia di parlare né tanto meno di raccontarci cosa hanno fatto per finire in prigione. Per alcuni, poi, "gli animali sono meglio degli umani". E quest'isola è il posto ideale per prendersi cura del bestiame tra mucche, cavalli, pecore e agnelli. Entrando nella stalla, ci imbattiamo in un ragazzo di poco più di vent'anni. È di poche parole, preferisce accarezzare quelle che sente come le "sue" mucche. Le conosci una per una, chiediamo. Sì, ci risponde in modo quasi imbarazzato. "Alcune le ho viste nascere, per me sono come una famiglia e sarà difficile lasciarle" aggiunge. In quel momento scopriamo che, per questo ragazzo, è arrivato l'ultimo giorno in questo carcere di "minima" sicurezza.
Minima perché di sbarre non ce n'è nemmeno l'ombra. Quindici minuti dopo la fine del coprifuoco, inizia la giornata di questi detenuti-lavoratori che, divisi tra barca, cucine, negozio, cura degli animali ed equipe tecnica, guadagnano circa 8 euro per turno. La prigione assicura inoltre 24 euro extra ogni settimana da spendere per colazione, pranzo e magari una scheda telefonica da usare nelle cabine che hanno a disposizione a orari predefiniti. Sull'isola lavorano 69 persone tra guardie e personale. Solo cinque di loro si fermano la notte e non sono armati. In fondo, perché scappare da qui? D'estate capita di scorgere i detenuti in acqua. "Uno di loro faceva il giro completo dell'isola a nuoto - ci racconta Tom -, nuotava e basta". In fondo, da qui chi vorrebbe fuggire?
A Bastøy si può e si deve lavorare e studiare. Essere liberi non significa poltrire. I prigionieri possono dare il loro contributo, retribuito, in cucina, nella serra, con gli animali, nella falegnameria. Possono svolgere attività come giardinieri, meccanici o addetti alle pulizie. O ancora, diventano uomini di mare al timone del traghetto. La scuola, invece, è un dipartimento distaccato di quella cittadina di Horten. I detenuti che non hanno completato il primo grado di istruzione devono obbligatoriamente farlo, se invece non hanno finito l'ultimo grado scolastico (dai 16 ai 18 anni in Norvegia) possono portarlo a termine scegliendo diverse discipline tra cui informatica, lingue straniere, agraria, sociologia, matematica e musica. Eppure, anche se il tempo scorre calmo, sull'isola di Bastøy non tutto è rosa e fiori.
Come in ogni carcere, anche qui ci sono dei detenuti che non vengono ben visti. In particolare chi ha fatto del male a donne e bambini. Bastoy è un carcere diverso anche per questo: perché accoltellare il "nemico" se ci si può limitare a ignorarsi l'un l'altro? "Non posso costringermi a stare con chi non mi piace" dice Karl, 26 anni, condannato per una aggressione, che proprio non accetta di dover scontare gli stessi anni di uno stupratore o di un pedofilo. "Non esattamente gli stessi - si riprende - ma poco ci manca".
Riabilitare, non castigare
Su quest'isola sembra quasi di respirare la calma e la gentilezza dei popoli scandinavi. Eppure la maggior parte dei suoi abitanti ha infranto, almeno una volta nella vita, la legge. A Bastøy non mancano né gli assassini né - come ci ha ricordato Karl - gli stupratori o i pedofili. Eppure non è il passato ma il futuro a rendere questi detenuti speciali: numeri alla mano, l'84% di chi passa per Bastøy non infrangerà mai più la legge. Infatti il tasso di recidiva, secondo un istituto norvegese di ricerca in criminologia (il Krus), è di appena il 16%. Un niente se confrontato alla percentuale europea (70/75%) e quella americana, che arriva addirittura a sfiorare l'80%.
Se negli Stati Uniti esistono prigioni come il Tent Camp, dove i detenuti vivono in delle tende e vengono esposti alle più varie intemperie, a Bastoy accade tutto il contrario. Come spiega Tom Eberhardt, "noi siamo qui per formare dei cittadini, dei vicini di casa. Un giorno queste persone usciranno di prigione e saranno libere. Tu chi vorresti come ipotetico vicino di casa, nel tuo futuro, per te e la tua famiglia? Un uomo ristabilito e reintegrato nella società oppure un uomo ancora malato, arrabbiato, che è stato rinchiuso per anni in condizioni incivili?". L'argomentazione del direttore è convincente. E i numeri gli danno ragione.
Una sfida per il futuro
Per Marianne Vollan, direttrice del servizio correzionale norvegese, la domanda è questa: come far scontare ad un detenuto la pena in modo che si riduca al minimo la probabilità che torni a delinquere? Con l'attenzione alla sua riabilitazione sociale e al principio della "normalità": la vita in prigione deve essere il più simile possibile a quella fuori, con tutti i suoi diritti inviolabili. La privazione della libertà è già di per sé la punizione. Non importa se non ci sono le sbarre: i detenuti non si dimenticano mai di essere in carcere.
Per capire il sistema norvegese, però, bisogna prima di tutto aver presente che qui l'ergastolo non è previsto. Al massimo si può venire condannati a 21 anni di reclusione. Questo perché in quello che definiamo "criminale" viene prima di tutto vista una persona che prima o poi tornerà a fare parte della società norvegese. Per cui, un cittadino. Per questo pare strano, seduti intorno al fuoco con in mano un panino, trovarci a parlare di Anders Breivik, responsabile della strage di Utøya che, nel 2011, costò la vita a 77 persone. Per lui no, non basteranno quei 21 anni. Il giudice può comminare 5 anni aggiuntivi se il detenuto è ritenuto ancora socialmente pericoloso. Tom ci dice che a Breivik verranno comminati di sicuro. Di cinque anni in cinque anni finirà per scontare il primo ergastolo della storia norvegese.
In questa isoletta spersa a 75 km a sud di Oslo, a bordo di quella famosa barca bianca, si arriva per (re)imparare il rispetto dell'altro, degli animali e della natura. Al timone ci sono dei moderni Caronte che, al contrario della creatura dantesca, traghettano verso una nuova vita. Alle spalle ci si lascia l'inferno, i guai, le sbarre e le scelte sbagliate. Lo sguardo è rivolto avanti, verso quell'isola che profuma di fiducia e di libertà. Non è un paradiso a cinque stelle, ma una porta per il futuro. Colma di speranza, per quelli che ci entrano.
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