di Antonella Napoli
Il Dubbio, 18 luglio 2020
Sono una delle categorie più colpite dalla repressione dopo il fallito golpe. Mentre il presidente Erdogan celebrava il quarto anniversario dello sventato golpe in Turchia, che la notte tra il 15 e il 16 luglio del 2016 costò la vita a 251 persone, Deniz Yucel, ex corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt. uno dei volti simbolo della repressione attuata dal regime, veniva condannato a 3 anni di carcere. La procura di Istanbul ne aveva chiesti 15.
Il giornalista, rifugiatosi in Germania dopo il suo rilascio il 16 febbraio del 2018, è solo uno dei 282.790 sospettati di affiliazione alla rete di Fethulla Gulen, ex alleato di Erdogan considerato la mente del fallito golpe. Fino ad oggi, come riporta un recente rapporto diffuso dalle autorità di Ankara, sono state effettuate 99.066 operazioni contro i presunti golpisti, di cui 94.975 sono finiti in carcere. Attualmente sono ancora in prigione 25.912 persone mentre per gli altri è scattato, dopo anni di detenzione preventiva, il divieto di espatrio in attesa dell'ultimo grado di giudizio.
Dai dati emerge che tra i malcapitati coinvolti nella più vasta repressione attuata del Paese, arrestati con accuse di terrorismo, 605 sono avvocati, di cui 345 condannati arbitrariamente per un totale di 2145 anni di prigione. Oltre 1.500 gli indagati. "Anni di carcerazione preventiva subita senza avere delle accuse precise da cui difendersi, condanne pesantissime inflitte al termine di processi sommari, svolti al di fuori di ogni regola dello stato di diritto" denuncia il coordinamento delle Commissioni Diritti umani e Rapporti Internazionali del Consiglio Nazionale Forense italiano.
Gli avvocati non hanno mai goduto del favore dell'uomo solo al comando. Erdogan in persona avrebbe sollecitato il disegno di legge che prevede l'istituzione di Ordini alternativi a quelli esistenti contro il quale si sono animate proteste dei togati in tutto il paese. Il testo, presentato in Parlamento lo scorso 30 giugno, prevede che il governo assuma il controllo dell'elezione degli organi dirigenti dei vari organismi professionali. "In questo modo Erdogan - sostiene Mehmet Durakoglu, presidente dell'Ordine forense di Istanbul vuole punire la nostra categoria che ha sempre rappresentato i valori laici della democrazia". Non è da escludere che anche l'ultima azione di protesta degli avvocati turchi, che chiedevano un atto di clemenza nei confronti dei detenuti politici non sia piaciuta al presidente turco che mal digerisce le critiche.
Non a caso la riforma del codice penale approvata lo scorso 14 aprile, favorita dall'emergenza Covid- 19, non ha tenuto conto di alcuna osservazione mossa da esponenti delle opposizioni e delle organizzazioni di categoria. Si è rivelata, al contrario, l'ennesima prova dell'accanimento verso dissidenti, avvocati e giornalisti. L'assemblea turca dando il via alla depenalizzazione di alcuni illeciti ha escluso i prigionieri per reati di opinione. "L'unica misura adottata a tutela della salute nelle carceri turche era stata, fino a quel momento, la disinfezione delle celle - denuncia Ayse Acinikli di Ohd, associazione di avvocati turchi e curdi - Non sono stati forniti dispositivi di protezione né alla polizia penitenziaria né ai carcerati, neppure nel penitenziario di Mardin dove si è registrato un caso positivo al Covid 19, un detenuto di 71 anni poi deceduto".
Il provvedimento di clemenza approvato permetterà ai 90 mila che ne hanno usufruito di scontare ai domiciliari il residuo della pena. Tra questi i detenuti con più di 65 anni, malati cronici e madri con figli minori di 6 anni. L'amnistia non è stata estesa ai prigionieri politici ultrasettantenni in isolamento nella struttura di massima sicurezza a Imrali, tra cui il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan Abdullah Öcalan. Per chi resta in carcere la situazione è drammatica anche per l'impossibilità di accesso alle cure a causa della pandemia. Ai malati di cancro sono stati interrotti i controlli e le cure. "Il governo ha la responsabilità dell'omessa protezione delle persone detenute più fragili - dice Ceren Uysal, avvocata dell'associazione People Law Office - in particolare di quei 1300 carcerati gravemente malati per i quali non è stato disposto l'immediato rilascio". Tra coloro che non hanno potuto beneficiare dell'amnistia, oltre agli avvocati Selçuk Kozagaçli, Aycan Çiçek, Barkin Timtik, Engin Gökoglu, Behiç Agçi, Aytac Ünsal, Ebru Timtik, anche il leader del Partito democratico curdo (Hdp) Selahattin Demirtas, che soffre di problemi cardiaci, lo scrittore di fama internazionale Ahmet Altan, 69 anni, e il giornalista Mümtazer Türköne, cardiopatico arrestato nel 2016. Tutti sono in pericolo di vita a causa del virus come tanti altri detenuti accusati di "terrorismo" in prigione solo per aver criticato il governo.
amnesty.it, 18 luglio 2020
A un anno dal rapimento di una parlamentare la cui sorte resta sconosciuta, proseguono le sparizioni. L'autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) deve rendere note le sorti e il luogo in cui si trova Siham Sergiwa, parlamentare libica difensora dei diritti delle donne, brutalmente portata via dalla propria abitazione esattamente un anno fa. Il caso di Siham Sergiwa riporta crudamente alla memoria i rapimenti, le sparizioni forzate e le privazioni della libertà perpetrati nel paese da tutte le parti in conflitto, tra cui le forze governative, le autorità de facto e le loro milizie e i gruppi armati affiliati.
Il 17 luglio del 2019, decine di uomini coperti in volto che indossavano l'uniforme dell'esercito hanno attaccato l'abitazione di Siham Sergiwa a Bengasi, nella Libia orientale, che è sotto il controllo dell'Eln. Prima di trascinarla via gli uomini hanno colpito suo figlio sedicenne e hanno sparato al marito auna gamba. La notte precedente il suo rapimento, Siham Sergiwa aveva chiesto pubblicamente la fine dell'offensiva dell'Enl su Tripoli.
"Non si hanno notizie di Siham Sergiwa da quella terribile notte in cui è stata portata via dalla sua famiglia. Il suo destino ci riporta alla mente con orrore le conseguenze alle critiche pacifiche nella Libia di oggi" ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e l'Africa del Nord.
"Stiamo chiedendo all'Enl di porre fine all'angoscia dei familiari di Siham Sergiwa e renderne immediatamente noti la sorte e il luogo in cui si trova. Rapimenti e sparizioni forzate sono divenute un agghiacciante segno distintivo del conflitto libico, in cui i civili sono lasciati in balia delle milizie e dei gruppi armati", ha proseguito Diana Eltahawy.
Le testimonianze oculari del rapimento di Siham Sergiwa unitamente alle fotografie analizzate da Amnesty International indicano come prova della responsabilità di Awliya al-Dam, una brigata armata affiliata all'Enl, i graffiti sul muro della sua abitazione: "Awliya al-Dam" e "L'esercito è una linea rossa". Inoltre, la presenza di numerosi posti di blocco della polizia militare attorno all'abitazione di Siham e testimonianze secondo le quali gli assalitori sono arrivati in auto con la scritta "polizia militare" suggeriscono che l'Enl sia stato complice o direttamente responsabile. L'Enl nega ogni responsabilità, ma non è riuscito a intraprendere un'indagine esaustiva, imparziale e indipendente sul rapimento di Siham Sergiwa o a ottenerne il rilascio.
Da quando l'Enl ha assunto il controllo della maggior parte della Libia orientale nel 2014, Amnesty International ha documentato vari rapimenti di oppositori, veri o presunti, dell'Enl. Alcune vittime finiscono per essere detenute arbitrariamente per lunghi periodi, mentre le sorti di altre restano sconosciute, in un clima di terrore per la loro incolumità e nel timore che arrivi la notizia del loro decesso in detenzione. Ad Ajdabiya, città sotto il controllo dell'Enl situata circa 150 chilometri ad ovest di Bengasi, Amnesty International ha documentato il rapimento di almeno 11 persone della tribù Magharba, a causa dei loro presunti collegamenti con Ibrahim Jadran, ex capo delle Guardie petrolifere, gruppo armato in conflitto con l'Eln.
Ex detenuti hanno riferito ad Amnesty International di essere stati torturati, di essere stati tenuti in condizioni disumane e che era stato negato loro ogni contatto con l'esterno durante il periodo trascorso nelle carceri di Gernada e Al-Kuwafiya, sotto il controllo di gruppi armati alleati dell'Enl. Restano sconosciuti le sorti e il luogo in cui si trovano almeno quattro membri della tribù Magharba, rapiti tra aprile e maggio di quest'anno ad opera di uomini armati che appartengono all'Agenzia di sicurezza interna-Ajdabiya, gruppo alleato dell'Enl. I parenti angosciati alla ricerca dei propri cari nelle prigioni e in altri posti di detenzione e gli ex detenuti hanno dato voce alla loro frustrazione per la mancanza di rimedio legale o giustizia, ripetendo "Dio ci basta ed è colui che meglio può disporre delle nostre vite".
"Nessuna autorità è superiore all'autorità del Radaa" - Nella Libia occidentale, sotto il controllo del Governo di accordo nazionale riconosciuto dall'Onu, Amnesty International ha documentato la sparizione forzata di persone ad opera di una serie di milizie fedeli al ministero dell'Interno, a causa delle loro reali o presunte affiliazioni o per le loro critiche. Tra queste milizie figurano le famigerate Forze del Radaa, la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, la Brigata di Bab Tajoura e la Brigata Abu Selim. Alcuni sono fatti sparire per mesi e anni prima di essere liberati o prima che venga loro permesso di mettersi in contatto con le proprie famiglie per la prima volta.
Amnesty International ha documentato come le Forze del Radaa abbiano sequestrato delle persone semplicemente perché nate nella parte orientale. In un caso, un uomo, il cui passaporto riportava la provenienza da Bengasi, fu fermato all'aeroporto di Mitiga, controllato dalle Forze del Radaa, e portato in prigione, dove fu torturato e fatto sparire per quasi quattro anni. È stato liberato a metà del 2019 senza aver mai aver affrontato un procedimento giudiziario. Secondo ex detenuti, le famiglie delle persone detenute e gli attivisti dei diritti umani le Forze del Radaa negano sistematicamente, e mentendo, alle famiglie disperate di essere a conoscenza dei luoghi di detenzione delle vittime.
Le Forze del Radaa sono ancora pagate dallo stato e formalmente sotto la supervisione del ministero dell'Interno. Come nella parte orientale del paese, i familiari delle vittime di sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie hanno dichiarato ad Amnesty International di avere poche possibilità di cercare risposte od ottenere la liberazione dei propri cari.
Secondo ex detenuti, familiari, difensori dei diritti umani e una precedente ricerca le richieste del pubblico ministero di incriminare i detenuti o rilasciarli vengono regolarmente ignorate dalle Forze del Radaa. Il 29 giugno del 2020, i familiari di molte persone detenute arbitrariamente nella prigione di Mitiga hanno tenuto una protesta. Il giorno seguente, il ministro degli Interni ha incontrato il capo delle Forze del Radaa e ne ha elogiato il lavoro nella "lotta alle minacce nei confronti dello stato e dei cittadini". I familiari hanno riferito ad Amnesty International di essere in balia delle milizie e che "non c'è nessuna autorità al di sopra di quella del Radaa".
Amnesty International chiede a entrambe le parti in conflitto di porre fine immediatamente all'ondata di sparizioni forzate, rapimenti, detenzioni arbitrarie e altre pratiche illegali analoghe. Alle milizie e ai gruppi armati affiliati deve essere ordinato di rendere noti la sorte e il luogo in cui si trovano le persone oggetto di sparizioni forzate e pratiche analoghe e garantire che tutti coloro che sono detenuti arbitrariamente vengano rilasciati. Le persone sospettate di reati penali possono essere detenute solo nel rispetto della legge e in condizioni umane, secondo quanto stabilito dalle normative. Chiunque sia accusato di un reato penale identificabile, potrà essere perseguito secondo procedimenti che rispettino gli standard internazionali di imparzialità. "Il caso di Siham Sergiwa dimostra che nessuno è al sicuro in Libia, neanche le personalità politiche. Invece di elogiare le potenti milizie che commettono impunemente gravi violazioni dei diritti umani e altri reati, tutte le parti coinvolte in sparizioni forzate e pratiche analoghe devono rispondere agli appelli dei familiari angosciati rivelando le sorti e il luogo in cui si trovano tutte le persone scomparse e proteggerle da ulteriori danni" ha concluso Diana Eltahawy.
di Fabrizio Geremicca
Corriere del Mezzogiorno, 18 luglio 2020
Parlano amici e familiari del volontario di Napoli morto in Colombia. Adesso si segue la pista dell'omicidio e si indaga sulle formazioni di destra. C'è una prima svolta nelle indagini sulla morte del 33enne volontario napoletano trovato senza vita in Colombia: ora s'indaga per omicidio. Un amico: "Si sentiva in pericolo e chiedeva aiuto. Viveva tappato in casa". I parenti si appellano all'Onu.
Si indaga per omicidio. C'è una prima svolta nel dramma del trentatreenne Mario Paciolla, il volontario napoletano delle Nazioni Unite trovato morto mercoledì mattina nella stanza dove abitava a San Vicente de Caguan, in Colombia. Era lì nell'ambito di un progetto dell'Onu relativo al reinserimento nella società degli ex guerriglieri delle Farc, la formazione di sinistra che anni fa ha stipulato accordi con lo Stato per la cessazione delle ostilità.
Solo poche ore dopo le dichiarazioni della polizia colombiana, che aveva liquidato la vicenda come suicidio per impiccagione, si apre dunque una partita giudiziaria diversa ad opera delle stesse autorità sudamericane. Una delle ipotesi, qualora fosse confermata la tesi dell'omicidio - sarà certamente importante il risultato dell'autopsia prevista nei prossimi giorni - punta sulla pista delle formazioni paramilitari di estrema destra.
Non crede all'ipotesi del suicidio Eduardo Napolitano, che ha lavorato nella cooperazione internazionale ed ha conosciuto Paciolla oltre 15 anni fa. "L'ultima volta - racconta - ci siamo visti a Natale. Abbiamo mantenuto i contatti nonostante entrambi fossimo spesso in giro per il mondo. Già un anno fa mi aveva espresso timori e preoccupazioni per alcune minacce subite.
Era molto esposto anche perché già in passato, quando operava come volontario di Peace Brigades International, aveva lavorato al fianco della popolazione civile esposta alle violenze degli squadroni dell'ultradestra".
Non appena Napolitano ha appreso del ritrovamento del corpo di Paciolla si è messo in contatto con alcuni amici comuni che vivono in America Latina e che avevano avuto modo di parlare di recente con il volontario dell'Onu. "Più d'uno - riferisce - mi ha detto che Mario era terrorizzato per alcune minacce ricevute. Era rintanato in casa con le tapparelle abbassate ed aveva chiesto ai suoi superiori di organizzare al più presto il suo rientro in Italia. Mi hanno anche raccontato che aveva avuto un duro scontro verbale con i suoi capi proprio perché avrebbe voluto che il rimpatrio fosse eseguito con estrema celerità".
Il ricordo che Napolitano ha di Paciolla è quello di un ragazzo "puro, entusiasta, innamorato dei viaggi e del mondo. Una persona radicale, determinata. Un entusiasta che mai avrebbe anche solo ipotizzato di suicidarsi". Parole non diverse da quelle pronunciate giovedì dalla madre del trentatreenne scomparso. La famiglia di Paciolla è ora in contatto con l'ambasciata italiana in Colombia e con l'Onu in attesa di notizie. "Al momento non sappiamo ancora molto - riferisce un portavoce dei familiari - anche noi aspettiamo".
Mario era un ragazzo molto noto a Napoli ed aveva partecipato, tra l'altro, al movimento studentesco dell'Onda. Gli attivisti dei centri sociali - tra i quali l'ex Opg occupato - che lo conoscevano hanno lanciato una petizione on line su www.change.org per spronare l'Italia a pretendere chiarezza dalla Colombia riguardo alle circostanze della morte del volontario.
"Da giorni - si legge nello appello - si sentiva con la famiglia confessando la sua apprensione per strani comportamenti di gente a lui nota. Si sentiva minacciato. Aveva appena acquistato il biglietto aereo per rientrare in Italia, ma i sicari lo hanno raggiunto prima. Per favore indagate su questa ennesima morte di un giovane italiano all'estero per mano di criminali".
Il timore è che si vada incontro a un altro caso Regeni. Anche il sindaco de Magistris ha reso omaggio ieri a Paciolla: "Brillante viaggiatore, cosmopolita, mente lucida, aveva messo a disposizione del mondo il suo bagaglio culturale ed una genuina attitudine a sporcarsi le mani in una terra inquinata dalle prevaricazioni. Alla sua famiglia va tutto il nostro supporto per ottenere verità e giustizia". La Procura di Napoli si appresta ad aprire un fascicolo per consentire ad eventuali testimoni di riferire notizie utili. Saranno presi contatti con gli inquirenti colombiani.
nelpaese.it, 17 luglio 2020
Legance - Avvocati Associati e l'Associazione Antigone in collaborazione con la Direzione Legal & Compliance di Msd Italia hanno realizzato una "Breve guida all'esercizio del Diritto alla salute in Italia".
La Stampa, 17 luglio 2020
L'allarme sollevato dalla relazione semestrale della Dia. "Qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia". Così la relazione semestrale della Dia, a proposito della crisi legata alla pandemia di Covid-19 e alla scarcerazione dei boss, sottolineando che "l'effetto dell'applicazione di regimi detentivi alternativi a quello carcerario ha indubbi negativi riflessi per una serie di motivazioni.
di Stefano Turbati
fpcgil.it, 17 luglio 2020
Il confronto sul "Nuovo modello custodiale", aperto dalla riunione con i Sindacati del Comparto Dirigenti e che sarà concluso dall'incontro con le rappresentanze di Polizia Penitenziaria, ha visto ieri rappresentate al tavolo le istanze degli operatori del Comparto Funzioni Centrali.
xIl Riformista, 17 luglio 2020
"L'aspetto della paralisi economica" collegata alla pandemia del coronavirus "può aprire alle mafie prospettive di espansione e arricchimento paragonabili ai ritmi di crescita che può offrire solo un contesto post-bellico".
Lo afferma la relazione semestrale della Dia (Direzione investigativa antimafia), relativa al secondo semestre del 2019, prevedendo "un doppio scenario. Un primo di breve periodo, in cui le organizzazioni mafiose tenderanno a consolidare sul territorio, specie nelle aree del Sud, il proprio consenso sociale, attraverso forme di assistenzialismo da capitalizzare nelle future competizioni elettorali.
Un supporto che passerà anche attraverso l'elargizione di prestiti di denaro a titolari di attività commerciali di piccole-medie dimensioni, ossia a quel reticolo sociale e commerciale su cui si regge l'economia di molti centri urbani, con la prospettiva di fagocitare le imprese più deboli, facendole diventare strumento per riciclare e reimpiegare capitali illeciti".
"Un secondo scenario - prosegue la relazione - questa volta di medio-lungo periodo, in cui le mafie - specie la 'ndrangheta - vorranno ancor più stressare il loro ruolo di player, affidabili ed efficaci anche su scala globale. L'economia internazionale avrà bisogno di liquidità ed in questo le cosche andranno a confrontarsi con i mercati, bisognosi di consistenti iniezioni finanziarie".
Un capitolo della relazione è dedicato anche a una polemica recente, quella della scarcerazione dei boss condannati per mafia durante la crisi legata alla pandemia di Covid-19. "Qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia", ricorda la relazione della Dia, sottolineante che "l'effetto dell'applicazione di regimi detentivi alternativi a quello carcerario ha indubbi negativi riflessi per una serie di motivazioni. In primo luogo rappresenta senz'altro l'occasione per rinsaldare gli assetti criminali sul territorio, anche attraverso nuovi summit e investiture. Il 'contatto' ristabilito può anche portare alla pianificazione di nuove strategie affaristiche (frutto anche di accordi tra soggetti di matrici criminali diverse maturati proprio in carcere) e offrire la possibilità ai capi meno anziani di darsi alla latitanza", sottolinea la relazione.
"Oltre al rischio della latitanza, l'applicazione di regimi alternativi al carcere, riavvicinando i criminali al territorio, può anche favorire faide tra clan rivali, latenti proprio per effetto della detenzione in carcere", prosegue la relazione, sottolineando come la scarcerazione anticipata può essere "avvertita dalla popolazione delle aree di riferimento come una cartina di tornasole, la riprova di un'incrostazione di secoli, diventata quasi un imprinting: quello secondo cui mentre la sentenza della mafia è certa e definitiva, quella dello Stato può essere provvisoria e a volte effimera". Inoltre, viene sottolineato, la detenzione domiciliare "contraddice la ratio di quella in carcere, che punta ad interrompere le comunicazioni e i collegamenti tra la persona detenuta e l'associazione mafiosa di appartenenza".
La relazione quindi fa un focus sugli investimenti criminali, evidenziando come nel 'panierè il gioco rappresenta "uno strumento formidabile, prestandosi agevolmente al riciclaggio e garantendo alta redditività: dopo i traffici di stupefacenti è probabilmente il settore che assicura il più elevato 'ritorno' dell'investimento iniziale, a fronte di una minore esposizione al rischio". Nel rapporto si legge che si è assistito "alla progressiva limitazione dell'uso della violenza nell'ambito di questo settore, sostituita da proficue relazioni di scambio e di collusione finalizzate a infiltrare economicamente e in maniera silente il territorio". La relazione sottolinea la presenza di "meccanismi sofisticati" che coinvolgono Paesi esteri e la necessità conseguente del "contributo di figure professionali specializzate", nonché i "rapporti di alleanza funzionale tra consorterie appartenenti a matrici mafiose diverse".
"Sono, infatti, sempre più frequenti i casi in cui le organizzazioni, anche al di fuori dalle regioni di origine, per massimizzare i profitti gestiscono gli affari connessi al gioco stringendo veri e propri patti criminali. Se da un lato la Camorra è quella con un interesse storicamente più risalente, la 'ndrangheta ha certamente 'recuperato terreno' negli ultimi anni", afferma la relazione, aggiungendo che "il gioco crea un reticolo di controllo del territorio, senza destare allarme sociale", consentendo un "parallelismo con gli stupefacenti". Inoltre, "se l'infiltrazione nel gaming on line appartiene trasversalmente a tutte le organizzazioni - che non a caso si sono 'consorziatè in più occasioni per fare affari - quella nel settore delle corse ippiche sembra appannaggio prevalentemente di Cosa nostra".
Altro record segnalato nella relazione Dia è che vi sono "oltre 50 enti in gestione commissariale per infiltrazioni mafiose: il numero in assoluto più rilevante dal 1991, anno di introduzione della norma sullo scioglimento per mafia degli enti locali". La Direzione investigativa antimafia definisce "inquietante" il fatto che, "sul totale, ben 16 enti sono stati sciolti più volte, alcuni addirittura tre volte. Di questi, ben 11 sono in Calabria", "la Campania ne conta 3″, la Puglia e la Sicilia ne contano uno ciascuna". "È il chiaro segnale di una continuità nell'azione di condizionamento delle organizzazioni mafiose, in grado di perpetuarsi per decenni e a prescindere dal posizionamento politico dei candidati", sottolinea la relazione.
"Una sottile linea rossa mafiosa che, fornendo un sostegno bipartisan nel corso delle elezioni amministrative, ha permesso all'organizzazione di rigenerarsi e di perpetuarsi. Un do ut des, che se da un lato fornisce voti o utilità all'amministratore corrotto, dall'altro ha ritorni di varia natura", prosegue il testo.
di Daniele Negri*
La Stampa, 17 luglio 2020
Ruolo straripante dei magistrati, emarginazione degli studiosi e cortocircuito del sistema. Dei problemi della giustizia penale si sta occupando chiunque tranne coloro che vi dedicano l'impegno della ricerca scientifica. Il caso dei magistrati è clamoroso. Sotto ogni maggioranza parlamentare hanno conquistato i vertici dei dicasteri, degli uffici legislativi e delle commissioni ministeriali di riforma dell'ordinamento penale. Costanti le apparizioni sui media.
Magistrati ovunque, insomma, con la giustificazione delle elevate capacità professionali e dell'importanza sociale del ruolo. Gli studiosi universitari sono stati emarginati con uno slogan suggestivo: sono soltanto dei teorici che non conoscono la fatica dell'indagare e del sentenziare; i loro insegnamenti vengono dimenticati perché inadatti ad affrontare la realtà. Il contributo degli avvocati è a sua volta disprezzato poiché "inquinato" dagli interessi di clienti magari malfamati. Il magistrato coniuga invece molteplici qualità: la competenza del giurista, la dimestichezza con la pratica giudiziaria, la purezza derivante dallo status.
Viene tuttavia il momento di rendere il conto del proprio operato. Che l'ora fatale sia giunta è dimostrato dalle vicende riguardanti la magistratura associata al centro in questi mesi delle cronache. Quanti e quali benefici ha tratto l'organizzazione della giustizia penale da decenni di supremazia della magistratura? Con ogni evidenza, nessuno. Non si scorge l'ombra del processo giusto e di durata ragionevole, voluto dalla Carta costituzionale.
Predomina piuttosto il rumore assordante delle indagini infinite, lo sferragliare della lotta alla criminalità nella quale il giudice è immischiato al pari del pubblico ministero, perdendo l'imparzialità. Il dramma è che la vantata esperienza nel condurre inchieste e processi spinosi si risolve spesso nella elusione delle regole prescritte dalla legge e nell'aperta sconfessione dei princìpi costituzionali. Il codice di rito è stato deturpato da modifiche che l'hanno reso illeggibile, moltiplicando le eccezioni legate all'accertamento dei delitti di criminalità organizzata, e neutralizzato da interpretazioni giurisprudenziali orientate al massimo risultato per le istanze punitive.
Ma non è bastato. Non sapendo come giustificare il fallimento, alcuni pensano di convincere il popolo cresciuto leggendo "I Promessi sposi", anziché la "Storia della colonna infame": gli avvocati cavillano come l'azzeccagarbugli del romanzo; profittano dell'eccesso di garanzie che ingolfa il sistema; trovano nelle norme, scritte da astuti delinquenti camuffati da legislatori, vie oblique per guadagnare l'impunità ai loro assistiti. Possibile che in tanti anni al servizio delle istituzioni i magistrati non siano riusciti a cambiare le cose?
Qualche ostacolo deve avere di certo impedito di completare l'opera intrapresa: sbarazzarsi di un codice di procedura penale - questo pensano in molti - concepito a vantaggio dei colpevoli, così da impersonare essi stessi la regola. Parte della magistratura ha contribuito a diffondere parole d'ordine velenose.
Qualcuno si è addirittura specializzato in un genere prossimo all'avanspettacolo, ripetendo battute penose: l'argenteria trovata nelle tasche dell'ospite dal vicino di casa, che l'aveva invitato a cena, è circostanza sufficiente a bandire il colpevole dal consorzio civile. Mentre la presunzione di innocenza, scolpita nella Costituzione, esige un accertamento della responsabilità penale che verifichi nel contraddittorio il punto di vista del testimone, fosse pure la polizia che procede all'arresto in flagranza di reato, scongiurando l'errore e smascherando la menzogna. Concetti elementari che sono andati smarriti.
Così un alto magistrato può mettere da parte con disdegno le questioni giuridiche e proclamare che, della scarcerazione degli imputati, importa "come la leggono i cittadini"; anziché spiegare con pazienza che la Costituzione pretende termini massimi di durata della custodia in carcere prima della condanna. Il ragionamento è infatti complesso e non va tralasciato. L'inosservanza delle regole da parte dei pubblici ministeri, spesso tollerata dai giudici di merito, ha un costo elevato per il sistema.
Gli studenti del corso di procedura penale sapevano da anni - ad esempio - che la contestazione dell'aggravante mafiosa alle consorterie romane era mossa arrischiata, con formidabili effetti immediati per l'accusa, ma di improbabile conferma all'esito del processo. Così come sanno che l'ostinazione a trattenere presso un determinato ufficio procedimenti penali destinati ad altro giudice, violando le norme sulla competenza, porterà all'annullamento in Cassazione, con inutile perdita di tempo.
Sbaglierebbe chi pensasse che a questi fenomeni siano estranei l'assetto della magistratura, il rapporto tra giudici e pubblici ministeri, la formazione dei magistrati e la guida delle riforme della giustizia penale. Come uscirne? Il discorso è a sua volta complicato, ma ha un presupposto irrinunciabile. Occorre lasciarsi alle spalle le scorciatoie tentate in questi anni, all'insegna di un'efficienza della giustizia perseguita senza il sostegno del pensiero scientifico.
Il rispetto dei vincoli costituzionali e la cogenza delle norme previste dal codice di procedura penale - quello lineare e uniforme delle origini - sono i due capisaldi dai quali ripartire, poiché entrambi esprimono valori non improvvisati o in balia delle correnti.
*Ordinario di Diritto processuale penale e direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara
di Vincenzo M. Siniscalchi
Il Mattino, 17 luglio 2020
Nell'autentico marasma che caratterizza questa fase dell'avvio, annunziato tra grandi perplessità, ad una nuova dichiarazione dello stato di emergenza (peraltro messa in discussione nella sua fondatezza costituzionale dalle lucide osservazioni di Sabino Cassese) può apparire inutile occuparsi di giustizia e, in particolare di giustizia penale.
di Riccardo Polidoro*
Il Riformista, 17 luglio 2020
Ignorato o comunque dimenticato, il carcere in Italia continua a essere un luogo di morte. La "pena capitale" colpisce i più deboli nel corpo e nella mente. Ad oggi, nel 2020, di cui abbiamo da poco superato la metà, i decessi sono già 82, mentre nel 2019 erano stati in tutto 143 e nel 2018, 148. Se non si arresta questa atroce tendenza, a fine anno supereremo i 160 morti, con una media di una dipartita ogni due giorni circa.
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