di Davide Dionisi
vaticannews.va, 25 maggio 2020
È allarme Covid nelle carceri colombiane. Gli ultimi dati parlano di 1065 casi positivi, 16 ricoverati e 4 morti. Giovedì scorso si sono aggiunti altri nove casi nell'istituto La Ternera di Cartagena e un altro a Villavicencio, a 67 chilometri a sud di Bogotà, risultando il principale focolaio della malattia nell'ambito dei penitenziari del Paese.
Sovraffollamento oltre il 51% - Il tutto in una situazione di sovraffollamento pari al 51 per cento in eccesso rispetto alla capacità di contenimento delle celle, ovvero una palese violazione dei diritti fondamentali. Profonda preoccupazione, di fronte ad una situazione che non accenna a rientrare nella norma, è stata espressa dal Segretariato Nazionale per la Pastorale Sociale-Caritas Colombia per le ripercussioni che l'aumento dei casi potrebbe avere sul sistema sanitario interno.
Umanizzare gli istituti - Richiamando la solidarietà di tutti nei confronti delle persone private della libertà, delle loro famiglie, del personale amministrativo e delle guardie, l'organismo della Conferenza episcopale ha ricordato "l'urgente necessità di affrontare la crisi umanitaria nelle carceri con misure che rispettino la dignità umana e proteggano la salute dei detenuti". In un comunicato viene anche sollecitato l'immediato intervento per "umanizzare gli istituti", che vuol dire creare le condizioni ottimali di permanenza non solo per gli ospiti, ma anche per il personale che presta servizio in loco. "Garantendo, in primis, le misure di sicurezza e prevenzione".
La situazione delle donne - Si chiede inoltre un programma di ridistribuzione della popolazione carceraria, unita ad una accelerazione dei processi, per superare il sovraffollamento. Inoltre il Segretariato ritiene fondamentale la tutela delle donne ristrette. "Pensiamo soprattutto alle mamme con figli sotto i tre anni, a quelle malate e alle anziane che in questo momento sono ancora più vulnerabili". Lo scritto richiama l'attenzione anche alle forze dell'ordine e agli agenti di polizia penitenziaria che, negli istituti più difficili, corrono maggiori rischi.
Gli scontri all'indomani della diffusione del virus - All'indomani della diffusione del Covid, in 13 case di reclusione si sono verificate numerose proteste da parte dei detenuti. Gli incidenti più gravi a Bogotà, nei centri di detenzione maschili, La Picota e La Modelo, e in quello femminile El Buen Pastor. La rivolta scoppiata nella prigione La Modelo, nella capitale, è stata sedata dall'esercito e dalla polizia carceraria, con un bilancio di almeno 23 detenuti morti. In seguito agli scontri, lo scorso 15 aprile il presidente Ivn Duque ha firmato un decreto che ha consentito la scarcerazione per sei mesi di almeno 4.000 detenuti.
di Carla Chiappini*
Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2020
Andrea Giorgis ha recentemente riconosciuto la necessità di dare nuovo impulso all'area penale esterna e alle misure di comunità.
Gentile Dottore, mi permetto dunque di proporle alcune riflessioni, anticipandole subito - per necessità di chiarezza - il punto di osservazione da cui le scrivo. Da cinque anni, insieme a un gruppo di giovani laureate in Scienze dell'Educazione sono impegnata a Piacenza con una piccola ma tenace associazione nell'accoglienza di persone messe alla prova.
di Liana Milella
La Repubblica, 24 maggio 2020
Giulio Romano era al vertice della struttura che si occupa specificatamente del controllo sui detenuti. Si sarebbe dimesso "per ragioni personali". Ancora dimissioni al vertice delle carceri. Mentre arriva la notizia che è stato appena riportato in cella Francesco Barivelo, condannato per l'omicidio dell'agente di polizia penitenziaria Carmelo Magli. Era in Alta sicurezza ed era stato scarcerato poche settimane fa.
di Sergio Nazzaro
ansa.it, 24 maggio 2020
Anche il sistema carcerario italiano è stato messo in crisi dalla pandemia e dalla mafia. Come in tutte le emergenze nazionali, la mafia ha aggravato la situazione e ne ha approfittato: dal 7 al 9 marzo, una crisi ha scosso l'Italia quando il Paese è stato testimone di alcuni scontri in carcere, che in alcuni casi hanno portato allo scoppio di epidemie. La violenza è stata scatenata da due principali catalizzatori: il divieto di visita alle fa
farodiroma.it, 24 maggio 2020
La crisi profonda delle carceri descritta da Emma Bonino in Parlamento. "Le condizioni terribili" delle carceri italiane sono state illustrate dalla leader di +Europa, Emma Bonino, nel dibattito parlamentare sulla sfiducia al ministro Bonafede.
di Lucia Aversano
retisolidali.it, 24 maggio 2020
Presentato il Rapporto Antigone sul carcere: la crisi può trasformarsi in opportunità, se non torniamo al sovraffollamento precedente. "Il Sedicesimo rapporto di Antigone è un rapporto anomalo rispetto a quelli passati: sarà studiato negli anni a venire", esordisce così Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, nel corso della presentazione del rapporto tenutasi in diretta streaming il 22 maggio 2020.
di Luigi Ciotti
Il Manifesto, 24 maggio 2020
Ventotto anni: 1992-2020. Le cose sono molto cambiate. E sono certo che Giovanni Falcone - se non fosse stato barbaramente ucciso a Capaci con Francesca, Vito, Rocco, Antonio - ci esorterebbe oggi a trovare un nuovo paradigma nella lotta alle mafie. Perché oggi le mafie hanno il loro più potente e attivo alleato in un'economia selettiva che, su scala mondiale, ha prodotto da un lato abnormi concentrazioni di denaro e di potere, dall'altro ingiustizie e povertà mai viste.
Deserti di diritti e democrazia che rappresentano da sempre il terreno su cui prospera il crimine mafioso. Un nuovo paradigma perché, al di là di indagini e arresti - dello straordinario impegno di magistratura, istituzioni, forze di polizia - il contrasto alle mafie deve ripartire oggi dalla consapevolezza che il crimine organizzato è ormai parte organica di un più ampio sistema d'ingiustizie.
Facendo del rintracciamento del denaro - "follow the money" - uno dei cardini del proprio metodo investigativo, Giovanni aveva prefigurato con sguardo profetico lo sviluppo economico e imprenditoriale del crimine mafioso.
Ci aveva messo in guardia dal rischio che, in un mondo piegato all'idolo e alla logica del profitto, le mafie avrebbero trovato sempre più spazio, nascoste nelle pieghe di un tessuto sociale smagliato, avvantaggiate da una politica incurante del bene comune. Previsione che oggi ha trovato agghiacciante conferma: le mafie non solo sono dovunque, in molte parti d'Europa e del mondo, ma possono agire nell'ombra, quasi indisturbate, usando quei soldi che possiedono in quantità smisurata laddove prima usavano le armi.
La corruzione è diventata ormai, come confermano gli analisti più attenti, la cerniera tra noi e loro, la zona grigia che le rende simili a noi e al tempo stesso ci "mafiosizza", ci rende simili a loro. Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone significa ripensare la lotta alle mafie e ripensare anche il concetto di legalità.
Non c'è legalità senza giustizia sociale. Se mancano i diritti sociali fondamentali - il lavoro, la casa, l'istruzione, l'assistenza sanitaria - la legalità rischia di diventare un principio che esclude e discrimina.
Uno strumento non di giustizia ma di potere. Mai si è parlato di legalità come in questi ultimi ventottanni, e mai come oggi abbiamo una democrazia debole, malata e diseguale, come la pandemia, impietosamente, sta evidenziando. Prova che, della parola legalità, è stato fatto un abuso retorico, per certi versi "sedativo". Molti dicono "legalità" per mettersi la coscienza in pace, per sentirsi dalla parte giusta. Si esibisce la legalità come una credenziale per poi usarla come lasciapassare, come foglia di fico anche di misfatti e porcherie.
Giovanni sapeva bene che la legalità è un mezzo e non un fine, perché - come Paolo Borsellino e come tutti i magistrati che hanno servito la democrazia lottando contro i poteri criminali ma anche contro i cosiddetti "poteri forti" - aveva come orizzonte la giustizia, cioè la libertà e la dignità di ogni essere umano. Ma Giovanni era anche un utopista vero, di quelli che l'utopia non si limitano a sognarla ma la costruiscono giorno dopo giorno. In tal senso va inteso quell'invito alla speranza che oggi più che mai deve scuotere le nostre coscienze: "le mafie non sono invincibili perché, come ogni fatto umano, hanno un inizio e una fine". Se oggi fosse ancora con noi Giovanni direbbe di nuovo quelle parole, ma con una piccola aggiunta: le mafie non sono invincibili perché sono un fatto umano. Ma per sconfiggerle dobbiamo tornare tutti a essere più giusti e più responsabili. Dunque più umani.
di Andrea Fabozzi
Il Manifesto, 24 maggio 2020
Dieci ore di video scontro su come reagire allo scandalo Palamara. Alla fine solo la corrente di Davigo non molla. A scoppio ritardato, lo scandalo delle nomine pilotate al Csm e l'inchiesta di Perugia sull'ex leader della corrente moderata delle toghe Luca Palamara travolge l'Associazione nazionale magistrati. La giunta esecutiva retta in questi mesi di tempesta da tre correnti - Unicost (moderati), Area (sinistra) e Autonomia e indipendenza (Davigo) - è andata in crisi al termine di un lunghissimo e lacerante comitato direttivo centrale durato tutta la giornata di ieri. Alla fine si sono dimessi (quasi) tutti.
Dieci ore di solenni litigate in videochat, frammentate dai problemi di connessione e da un paio di interruzioni per mettere a punto le strategie di corrente - poi aggiornate in sottofondo in un continuo pigolio di whatsapp. Toghe associate contro. A scatenare la resa dei conti la nuova tornata di intercettazioni restituita dal trojan del cellulare di Palamara, da qualche giorno scoop quotidiano dei giornali di destra.
La corrente più coinvolta nel primo tempo dello scandalo e fuori dal governo dell'Anm, Magistratura indipendente (destra), ha approfittato del coinvolgimento nei colloqui con Palamara di alcuni esponenti di Area (in questo, come in molti altri casi, si tratta di conversazioni prive di rilievo penale) per tentare un ribaltamento della storia.
Tutti colpevoli, nessun colpevole. Così la giunta guidata dal pm milanese Luca Poniz (Area), ferma l'anno scorso nel denunciare lo scandalo, è stata accusata da Mi di voler adesso minimizzare, e di restare in sella per coprire l'impatto delle rivelazioni. In realtà le elezioni per il rinnovo del parlamentino dell'Anm sono state già fissate a ottobre, prima non essendo possibile attrezzare l'infrastruttura per il voto online.
"Questa esperienza non può proseguire, abbiamo smarrito le premesse comuni" ha detto Poniz, che si è dimesso, ma con Area si è astenuto sulla proposta di anticipare le elezioni a luglio. Avanzata da Mi che con Giancarlo Dominijanni, pm a Pisa, ha previsto che "dal telefono di Palamara uscirà di tutto, queste rivelazioni continueranno per mesi. Possiamo solo tentare di salvare l'Anm rinnovandone la guida". "Noi non siamo coinvolti nelle vicende dell'albergo Champagne", ha risposto Area (l'albergo è quello che si trova nei pressi del Csm dove Palamara incontrava l'ex sottosegretario Pd Lotti e il leader ombra di Mi Ferri per decidere le nomine), insistendo a chiedere l'intero fascicolo degli atti di Perugia come antidoto alle rivelazioni a scaglioni. E alla fine si è dimessa anche Unicost, la corrente di Palamara, lasciando l'annuncio al numero due della giunta Anm Giuliano Caputo, pm a Napoli.
Il voto a luglio non ci sarà, ma il caos è tale che adesso non si sa come ricominciare. Si sa solo quando; domani sera la riunione del comitato direttivo prosegue davanti agli schermi. La seduta ha assunto anche toni drammatici, quando la giudice del tribunale di Milano Luisa Savoia di Area ha affrontato il consigliere di corte d'appello di Torino Angelo Renna che in uno dei dialoghi con Palamara pubblicati nei giorni scorsi (ma risalente all'ottobre del 2017) si agitava per ostacolarne la carriera: "Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un gran colpo", la frase di Renna. "O io o lui", ha detto in sostanza ieri Savoia, dando origine a una specie di corpo a corpo mediato dalle webcam (e da Radio Radicale che ha trasmesso il tutto).
Perché Renna si è scusato, ha detto che si vergognava, che anche sua madre si sarebbe vergognata di lui, ma non si è dimesso. Al che è intervenuto in un aggrovigliarsi di microfoni aperti e collegamenti interrotti il giudice di Napoli Giovanni Tedesco, anche lui di Area, avvertendo che se Renna non si fosse dimesso allora anche lui avrebbe lasciato il comitato direttivo per protesta, assieme alla collega Savoia. Citando René Girard e la teoria del capro espiatorio, Renna si è alla fine dimesso. E ha staccato il collegamento.
Gli altri hanno continuato fino alle otto, ma senza uscire dall'angolo. Due correnti, Area e Mi, dichiarano adesso che non entreranno in alcuna giunta, nemmeno per il tempo strettamente necessario ad andare alle elezioni. Al governo delle toghe così c'è una sola corrente, con un solo esponente. A schierarsi contro il voto anticipato e anche contro lo scioglimento è stata infatti solo la corrente di Autonomia e indipendenza dell'ammazzasette Davigo. Strano, o forse no a sentire la motivazione: "L'amaro calice va bevuto fino in fondo, fino all'ultima chat. Il disonore sarà il carburante per la rinascita". Tanto peggio...
di Marina Moretti
rete8.it, 24 maggio 2020
A partire da oggi è l'esercito a vigilare l'esterno delle carceri di Sulmona e L'Aquila. Lo ha comunicato Mauro Nardella, segretario territoriale della Uil-Pa, soddisfatto per la novità che garantirà il potenziamento della sicurezza e una utile simbiosi tra esercito e polizia penitenziaria: "Il servizio di vigilanza esterna agli istituti penitenziari, detta Veip, darà un consistente sostegno a realtà penitenziarie che ospitano detenuti tra i più pericolosi d'Italia".
Franco Migliarini, della segreteria regionale Uil-Pa, ha aggiunto: "Il connubio tra esercito e polizia penitenziaria, dopo la positiva esperienza della sanificazione degli ambienti carcerari, acquisisce in questo modo sempre maggiore importanza, tanto più per la sicurezza da garantire ai penitenziari".
di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 24 maggio 2020
Ventotto anni dopo, per la strage di Capaci c'è un processo ancora aperto. Unico imputato è Matteo Messina Denaro, il capomafia latitante già condannato per le bombe del 1993, ma non ancora per quelle del 1992.
Dopo tre anni di dibattimento, il 5 giugno il pm Gabriele Paci, procuratore aggiunto di Caltanissetta, comincerà la requisitoria per chiedere alla corte d'assise la condanna dell'ultimo mafioso alla sbarra per la morte di Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, i tre poliziotti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo; e due mesi dopo di Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
Il processo all'ultimo padrino di quella stagione di morte rimasto in libertà ha scandagliato a fondo i misteri e le varie piste che, in oltre un quarto di secolo, si sono accavallate e sommate alle verità accertate sulle responsabilità della mafia nella morte di Falcone.
Confermando i due punti fermi sui quali gli inquirenti nisseni (che dal 2008, dopo le confessioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riscritto la storia della strage di via D'Amelio, e continuano a lavorare, con pochi mezzi e senza clamori, per tentare di colmare i vuoti ancora aperti) hanno fondato la loro ricostruzione giudiziaria.
Che ormai è anche storica, considerato il tempo trascorso e le conoscenze raggiunte. Il primo è che quella di Capaci fu una strage di mafia, deliberata da Totò Riina nell'ambito delle vendette pianificate dopo che gli ergastoli inflitti nel maxi-processo istruito dal pool di Falcone e Borsellino divennero definitivi.
Nessuna ipotesi sull'uso di artificieri diversi dal gruppo di fuoco mafioso ha trovato conferme; anche le più recenti analisi del Dna sui reperti non hanno fatto altro che riscontrare una volta di più la presenza dei boss già individuati.
Per uccidere il magistrato simbolo della lotta alla mafia il boss di Corleone s'è servito anche di Matteo Messina Denaro, "uomo d'onore" in ascesa dopo la morte del padre, inviato a Roma per verificare la possibilità di colpire il bersaglio nella capitale.
Il "capo dei capi" decise di ucciderlo dopo aver ricevuto rassicurazioni, dagli "ambienti esterni" a Cosa nostra a cui aveva "tastato il polso", che non ci sarebbero state reazioni esagerate da parte delle istituzioni: le conseguenze della strage di Capaci potevano essere ammortizzate dalle cosche, garantendo comunque un guadagno nel raffronto tra costi e benefici.
E probabilmente così sarebbe andata se, a soli due mesi di distanza, non ci fosse stata la bomba di via D'Amelio. L'uccisione di Borsellino - è il secondo punto fermo delle conclusioni raggiunte dalla Procura di Caltanissetta - rivitalizzò la risposta dello Stato che, passato lo sdegno delle prime settimane, si stava già affievolendo; rivelandosi un pessimo affare per Cosa nostra.
E ai misteri sulla decisione di Riina di accelerare quell'attentato, si sommano quelli sulle indagini depistate: sempre a Caltanissetta è in corso un processo a tre poliziotti accusati di avere manipolato il falso pentito su cui, fino all'entrata in scena di Spatuzza, è stata costruita una falsa verità su quella strage. Ma depistaggi e misteri non si fermano al pentito bugiardo.
Sulla strage di via D'Amelio, nulla o quasi si spiega: sia sul versante mafioso che su quello dello Stato. È in questa direzione che prosegue il lavoro dei pm nisseni. Ad esempio continuando a indagare sulla morte del boss Vincenzo Milazzo, ucciso cinque giorni prima di Borsellino.
Aveva una relazione con una donna imparentata con un funzionario dei servizi segreti; sapeva dei contatti tra il Gotha di Cosa nostra e ambienti istituzionali, ed era contrario al programma stragista di Riina. Che lo fece ammazzare montando "una tragedia" nei suoi confronti, e ordinò di eliminare anche la fidanzata. Fare un po' di luce su quel delitto potrebbe servire anche a illuminare i lati oscuri sulle bombe che ventotto anni fa fecero tremare la Sicilia, l'Italia e il mondo.
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