di Gabriele Martini
La Stampa, 17 luglio 2020
L'indagine Eurispes. Senza una legge, ora la parola torna ai giudici: Cappato e Welby rischiano 12 anni per aver aiutato Davide Trentini a morire. Tre italiani su quattro sono favorevoli all'eutanasia. È quanto emerge da un'indagine Eurispes, che fotografa lo scollamento tra il paese reale e l'immobilismo della politica sul fine vita.
La "buona morte" - consistente nella somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente - è una pratica ancora oggi illegale in Italia. Tuttavia ben il 75,2% degli intervistati si è espresso favorevolmente, attestando una forte ascesa del consenso negli ultimi cinque anni (la percentuale era del 55,2% di favorevoli nel 2015).
La sensibilità degli italiani riguardo al tema sembra confermare un cambiamento degli orientamenti che si sta facendo strada nel nostro Paese, in linea con la posizione di altri Stati europei. Basti pensare alla svolta della Francia, dove l'eutanasia a domicilio sarà alla portata di tutti mediante la somministrazione di sedativi - ad opera degli stessi medici di base - che inducono il paziente in uno stato di sonno catatonico finché la morte non sopraggiunge.
I numeri parlano chiaro e raccontano l'erosione di tabù culturali che per anni hanno caratterizzato la nostra società. Nel 2020, con sei punti percentuali in più rispetto al 2019, il 73,8% dei cittadini intervistati si dice favorevole al testamento biologico, vale a dire quella norma che permette di redigere anticipatamente un documento con valore legale nel quale viene stabilito a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari dare o non dare il proprio consenso nel caso di una futura incapacità a decidere o a comunicare. E anche sul suicido assistito, sebbene la maggioranza degli italiani rimanga contraria, si registra una sempre maggior apertura.
"Che i cittadini italiani siano più aperti del ceto politico sui temi delle libertà civili non è una novità", commenta Marco Cappato. Che mette in guardia: "Ciò che accade su eutanasia e fine vita dovrebbe però destare particolare allarme per la condizione di marginalità nella quale versa il Parlamento italiano". "È facile ipotizzare che in un prossimo futuro si moltiplicheranno i casi nei quali la medicina sarà in grado di rinviare il momento estremo del malato terminale. Di conseguenza è importante, per il bene della società e il rispetto dei valori che ne sono alla base, trovare quanto prima una posizione normativa che possa soddisfare le diverse istanze", spiega Gian Maria Fara, presidente Eurispes.
Ma la classe politica italiana continua a eludere il problema. L'ultimatum della Corte Costituzionale rivolto al Parlamento nella vicenda di Dj Fabo è caduto nel vuoto. Nell'ottobre 2018 la Consulta invitò i partiti ad approvare una nuova legge, cosa che puntualmente non è accaduta. E così ora la parola torna ai giudici. Il 27 luglio sarà il Tribunale di Massa, nel silenzio della politica, a decidere se ampliare ulteriormente il diritto al suicidio assistito.
La vicenda è quella di Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, che nell'aprile del 2017 decise di metter fine a quelle che lui stesso definiva "insopportabili sofferenze". La differenza con il caso di Dj Fabo è cruciale: il 53enne toscano non era tenuto in vita da macchinari. Sul banco degli imputati siedono Marco Lappato e Mina Welby, che accompagnarono Trentini a morire in una clinica svizzera.
Rischiano fino 12 anni di carcere. In rete esiste un video che immortala Trentini sdraiato su un letto poche ore prima di morire. Spiega la sua scelta, guarda dritto in camera mentre si contorce dal dolore: "Auguro a tutti tanta serenità. E adesso, buonanotte". Poi accenna a un sorriso.
immediato.net, 17 luglio 2020
L'iniziativa realizzata da Csv Foggia e Fondazione dei Monti Uniti. Visita alla cella storica in cui fu detenuto Giuseppe Di Vittorio. "I libri hanno le ali" è approdato nella Casa Circondariale di Lucera. Un nuovo tassello per l'iniziativa destinata alla promozione della lettura in contesti fragili, frutto dell'impegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, con la collaborazione del Csv Foggia.
Mercoledì scorso la donazione ha riguardato proprio il carcere di Lucera dove Pasquale Marchese, presidente del Csv Foggia; Roberto Lavanna, membro del consiglio di amministrazione della Fondazione e Annalisa Graziano, responsabile dell'area "volontariato e giustizia" del Csv, hanno consegnato al funzionario pedagogico Simona Salatto, al comandante Daniela Raffaella Occhionero e all'assistente capo Raffaele Prencipe, in rappresentanza del corpo di Polizia Penitenziaria, romanzi, saggi, fumetti e testi in lingua straniera, così come indicato proprio dall'area trattamentale dell'Istituto.
All'iniziativa, accolta con entusiasmo dal direttore Patrizia Andrianello, seguiranno progetti di educazione alla lettura ed altre attività di tipo trattamentale anche grazie all'Avviso straordinario pubblicato dal Csv Foggia per promuovere e sostenere progetti di volontariato.
"Si tratta di una delle iniziative - spiega il presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - messe in campo dalla Fondazione dei Monti Uniti e dal Csv per perseguire l'obiettivo di valorizzazione del volontariato penitenziario. Il fine è quello di promuovere l'impegno dei volontari, contribuire al progresso civile e alla finalità rieducativa dell'esecuzione della pena e fornire, proprio attraverso l'associazionismo, un supporto concreto alla popolazione detenuta, con particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi.
Proprio per andare incontro agli enti del terzo settore che, negli ultimi mesi sono stati particolarmente impegnati a causa dell'emergenza sanitaria, abbiamo deciso - d'accordo con la casa circondariale - di prorogare il termine di scadenza per presentare le proposte al 23 agosto prossimo, in modo da lasciare un po' di tempo in più per la progettazione".
L'incontro è proseguito con una visita presso la cella storica in cui fu detenuto, nel 1921 e nel 1941 per diversi mesi, Giuseppe Di Vittorio, cerignolano, parlamentare antifascista, padre costituente della Repubblica, sindacalista fondatore della Cgil. Sulla porta della piccola, angusta stanza ancora con la finestra a 'bocca di lupo', è stata affissa una targa, per non dimenticare: "In questa cella fu ristretto Giuseppe Di Vittorio".
La Repubblica, 17 luglio 2020
Arriva da Agrigento, dove ha gestito negli ultimi due anni il carcere Petrusa, il nuovo direttore dell'istituto penitenziario di Parma. Nei prossimi giorni è attesa l'ufficializzazione dell'incarico al catanese Valerio Pappalardo. Il nuovo direttore si troverà a gestire subito la spinosa questione del nuovo padiglione previsto in via Burla. Vicenda che ha trovato il forte malcontento delle rappresentanze sindacali degli agenti penitenziari.
friulisera.it, 17 luglio 2020
Il dubbio è che gli siano state somministrate dosi di psicofarmaci. Dramma del migrante albanese trovato morto all'interno del Cpr di Gradisca d'Isonzo: ancora da accertare le cause del decesso. Tra le ipotesi, la pista che porta a un abuso di farmaci, ma solo l'autopsia e gli esami tossicologici potranno dare una conferma a questa ipotesi che aprirebbe scenari in ogni caso inquietanti.
Nella struttura detentiva, perché in realtà questo è, ieri il clima è stato particolarmente teso con una protesta da parte dei migranti ospitati nella struttura che hanno bruciato materassi e suppellettili dando sfogo alla frustrazione nel vedere ancora una volta uno di loro uscire in un sacco per cadaveri.
Intanto la garante del comune di Gradisca delle persone private della libertà personale Corbatto ha chiesto con urgenza di entrare nel Cpr mentre la sindaca Tomasinsig ha chiesto che la magistratura stabilisca con celerità la verità su questo decesso, solo con la verità infatti si potrà ristabilire un clima accettabile nella struttura che in questi giorni è praticamente al massimo della capienza stabilità di 80 detenuti che vale la pena ricordare sono soggetti in attesa di rimpatrio perché migranti irregolari ma nella maggior parte dei casi non pericolosi delinquenti, senza contare che l'emergenza sanitaria rende il clima ancora più teso.
Intanto dal comitato "Assemblea No Cpr, No Frontiere" dicono di avere informazioni provenienti dall'interno del centro relativa a questa ennesima morte dietro le sbarre e hanno emesso un comunicato dal titolo quello che sappiamo del ragazzo morto a Gradisca: "Martedì, nel Cpr di Gradisca, un ragazzo di 28 anni è morto. Quello stesso pomeriggio, siamo stati sotto quelle mura, eravamo circa sessanta. Volevamo parlare con chi sta chiuso dentro, per fargli sentire che sapevamo che uno di loro era morto ed eravamo solidali, e per sapere com'era andata, secondo loro.
Gridando da una parte all'altra del muro, ci hanno detto che il ragazzo che è morto era stato imbottito di medicinali; tra gli altri, aveva assunto sicuramente il Rivotril - una benzodiazepina ad alta potenza con ansiolitiche, sedative, antiepilettiche - che viene spesso somministrato ai reclusi". In sostanza una accusa pesante che se provata da riscontri tossicologici potrebbe rivelare bruttissimi scenari. Lo stesso comitato No Cpr parla infatti di abuso di psicofarmaci come di una costante nei centri di internamento: le persone li assumono per evadere da quel quotidiano senza speranza e/o come sostitutivi legali di altre sostanze. Tuttavia, aggiungono, chi prescrive gli psicofarmaci ha una responsabilità clinica precisa: se veramente il ragazzo fosse morto per overdose di psicofarmaci, i responsabili diretti della sua morte sono nel Cpr.
Dura presa di posizione di Rifondazione Comunista sull'episodio per bocca di Stefano Galieni, responsabile nazionale immigrazione di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea e Luigi Bon, per la segreteria provinciale della Federazione di Gorizia: "Il Centro Permanente per i Rimpatri di Gradisca d'Isonzo, si legge in una nota, è stato ancora una volta teatro di una morte annunciata.
Un ragazzo albanese, in quarantena per emergenza Covid-19 è stato trovato morto nella sua cella mentre un altro, proveniente dal Marocco, finiva in terapia intensiva.
Non si conoscono ancora le cause specifiche ma a Gradisca d'Isonzo da sempre si muore di detenzione, l'ultima vittima risale al gennaio scorso e continue sono le rivolte, i tentativi di fuga, gli atti di autolesionismo. Oggi si può restare rinchiusi in queste galere fino a sei mesi senza aver commesso alcun reato e il governo promette, con la "riforma" dei decreti Salvini di ridurre i tempi. Ma come diciamo ormai inascoltati da ventidue anni queste strutture, che negli anni hanno spesso cambiato nome, sono illegali, incostituzionali, razziste, inutili e persino costose.
Sono l'emblema del fallimento delle politiche migratorie europee. Che si faccia come si sta facendo in Spagna e Portogallo, che le si chiuda costruendo percorsi di regolarizzazione per chi cerca un futuro. E si usino quei soldi per affrontare le tante emergenze di chi è colpito dalla crisi non per rafforzare un perverso sistema repressivo".
Il Mattino, 17 luglio 2020
In 24 ore ci sono stati due suicidi nelle carceri campane, portando a 6 le vittime da inizio anno. Lo affermano, in una nota, il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e quello di Napoli Pietro Ioia. L'altro ieri - informano - si è tolto la vita Luigi Rossetti di 40 anni, ristretto a Santa Maria Capua Vetere. Stamattina, a Napoli-Poggioreale, a compiere l'insano gesto è stato Alfonso Fresca, di 39 anni.
"Anche se i suicidi sono ascrivibili a diverse motivazioni, il carcere continua ad uccidere", affermano i garanti che chiedono al provveditore regionale dell'Amministrazione Penitenziaria e al responsabile dell'Osservatorio Regionale della Sanità Penitenziaria un incontro urgente tra più soggetti coinvolti nel mondo penitenziario "per evitare che in questo periodo la solitudine e il vuoto trattamentale uccidano più di una pandemia". Lo stop a risocializzazione, volontariato, al reinserimento e la diminuzione dei contatti con gli affetti "ha prodotto un evidente senso di abbandono e arrendevolezza".
"Sale a 29 - si legge ancora nel comunicato dei due garanti - il numero dei detenuti che su tutto il territorio nazionale si sono tolti la vita da inizio dell'anno, di cui 6 solo in Campania. Negli istituti di pena si continua a morire per suicidio 13,5 volte di più che all'esterno del carcere. Il numero di detenuti nelle carceri italiane è sceso del 13,9%, arginare il problema del sovraffollamento dunque non basta a contrastare il malessere della vita in carcere.
Ciambriello e Ioia propongono "l'incremento delle figure sociali nelle carceri, l'attuazione di progetti rieducativi e umanizzanti: i detenuti non sanno cosa fare; bisogna incrementare le attività culturali, ricreative, formative, attuandole anche nelle fasce pomeridiane. L'incremento da parte delle Direzioni Penitenziarie e del Provveditorato di più risorse economiche nei progetti d'istituto che riguardino tali attività.
La creazione, incominciando da Poggioreale, di più articolazioni psichiatriche che consentano maggiori cure a coloro che soffrono di patologie psichiche, dentro le carceri. La creazione di un'altra Rems o luogo similare che accolgano i detenuti che giacciono da prigionieri nelle carceri in attesa. Si può prendere in considerazione la vecchia proposta di creare presso il Gesù e Maria di Napoli un'esperienza analoga. Infine un appello al mondo del volontariato e del terzo settore: In questo periodo non lasci solo i detenuti".
di Eleonora Martini
Il Manifesto, 17 luglio 2020
Il ministro degli Esteri in Commissione: no al ritiro dell'ambasciatore, no al blocco delle armi italiane. La vendita delle fregate Fremm "non è un favore dell'Italia all'Egitto" È vero il contrario
L'audizione del ministro Di Maio in Commissione parlamentare. Per ottenere dalle autorità egiziane giustizia sulla morte del ricercatore friulano Giulio Regeni, il governo italiano sta "facendo il massimo".
Di più non si può. Richiamare il nostro ambasciatore dal Cairo? "Non è necessario", anzi. Interrompere la vendita di armi italiane al dittatore Al Sisi? "Non inficia la ricerca della verità", non è una "leva" adatta all'uopo, e soprattutto se si usa questa procedura per l'Egitto poi "dovremmo fare lo stesso con tutti gli altri Paesi del mondo" in cui non si rispettano i diritti umani.
Bisogna riconoscere al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di essere stato molto più schietto del premier Conte, nel raccontare come stanno realmente le cose. Dal punto di vista di chi siede a Palazzo Chigi, naturalmente. In soldoni, il governo ha le armi spuntate con il regime egiziano, ha di fatto spiegato ieri l'attuale inquilino della Farnesina davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Regeni presieduta da Erasmo Palazzotto (Sel) e rispondendo alle domande dei componenti. Non a tutte però: al deputato di Forza Italia Bettarin che gli chiedeva se il governo fosse disposto in ultima istanza almeno a ricorrere alla Corte internazionale dell'Aja, visto che l'Egitto ha comunque firmato la convenzione internazionale multilaterale sulla cooperazione giudiziaria, l'esponente pentastellato non ha risposto.
Per un tempo che pareva infinito, Di Maio ha rimesso in fila la lunga serie di scambi epistolari, telefonate, incontri al vertice e tra gli "sherpa", tra politici e tra procure, richieste e rassicurazioni, dichiarazioni di intenti, ultimatum, pen-ultimatum, rotture e tentativi vari di ottenere almeno legittimazione e rispetto per le autorità italiane in suolo egiziano. Eppure, ha assicurato, c'è sempre stato un "fortissimo impegno degli esecutivi di cui ho fatto parte, con un'azione continua e insistente" per far emergere la verità. Ma chi si aspettava almeno una presa d'atto di fallimento è rimasto deluso: Di Maio si è di nuovo unito al dolore della famiglia Regeni, che combatte instancabilmente da quando nel febbraio 2016 il giovane ricercatore è stato rinvenuto cadavere orrendamente torturato e mutilato sulla strada tra Alessandria e Il Cairo.
"Ogni loro critica è legittima e comprensibile e deve essere una spinta per noi". Ma, ha aggiunto, "quando nel settembre scorso sono arrivato alla Farnesina era un anno che le procure non avevano più contatti. Con enorme difficoltà e con la pandemia di mezzo abbiamo fatto riprendere i contatti tra le procure e crediamo che l'azione del corpo diplomatico stia producendo questo processo, che non è nato dal nulla". Ecco perché, ha chiarito definitivamente l'esponente 5S, "è fuorviante credere che avere un nostro ambasciatore al Cairo significhi non perseguire la verità e viceversa è fuorviante pensare che ritirarlo sia necessario per arrivare alla verità". L'ambasciatore Cantiani, ha assicurato il ministro, "si sta occupando di Patrick Zaky" e dei "suoi diritti fondamentali, sollecitando anche il coinvolgimento dei partner europei".
A nulla è servito ricordargli, come ha fatto il deputato di +Europa Riccardo Magi, che già nell'agosto 2018, dopo un incontro con Al Sisi come ministro dello Sviluppo economico (quell'anno andarono anche Salvini, Moavero e Conte), Di Maio aveva annunciato "sviluppi positivi entro l'anno" sulle indagini, riferendo anche la frase-shock del presidente egiziano: "Giulio è uno di noi". Di Maio si giustifica dicendo che in effetti le relazioni con l'Egitto sono "fortemente limitate" da allora, la cooperazione economica è "depotenziata" e gli incontri al vertice non più proficui come prima.
Eppure le armi italiane continuano ad essere vendute all'esercito di Al Sisi. "Sì, ma non credo che infici la ricerca della verità", né che interromperne il mercato "possa essere una leva per ottenerla". In particolare sulla vendita delle fregate Fremm e dei velivoli Leonardo, Di Maio riferisce, come ha fatto anche il ministro dei Rapporti con il Parlamento D'Incà rispondendo a un'interrogazione di Leu, che "il governo si è limitato al momento a dare l'autorizzazione alle trattative", il che "non conferisce automaticamente il diritto di ottenere l'autorizzazione all'esportazione", che sarà valutata dopo la firma del contratto. In ogni caso, ha scandito il ministro per chi avesse mai avuto dubbi, "la vendita delle nostre armi non è un favore dell'Italia all'Egitto".
A questo punto, non rimane che attendere. "Il prossimo obiettivo è far incontrare dal vivo i magistrati italiani e quelli egiziani". Perché il governo, su questo è stato chiaro, può solo "assistere l'operato dei nostri inquirenti". "Abbiamo profonda fiducia che i nostri inquirenti siano in grado di far progredire questa inchiesta". Se non ci riescono loro, non ci riesce nessuno, sembra dire. Perché sia chiaro: sul pugno duro di Al Sisi l'Italia ci conta.
di Sergio Valzania
Il Dubbio, 17 luglio 2020
Fra le pessime notizie degli ultimi giorni spicca l'uccisione di Daniel Lewis Lee avvenuta alle 8.07 di martedì mattina negli Stati Uniti provocata da un'iniezione letale. Si è trattato della prima condanna a morte a livello federale eseguita da 17 anni a questa parte, per ordine Ministro della Giustizia Usa William Barr, fedelissimo di Donald Trump. Pare che altre tre la seguiranno presto.
Negli Stati Uniti la pena di morte ha una storia complessa. E non potrebbe essere diversamente, dato che si tratta dell'unico stato democratico nel quale essa sia ancora ammessa, anche se esiste un forte movimento contrario che è riuscito nel passato a farla abolire a livello federale, per il quale è tornata però legale dal 1988, e a impedire l'esecuzione di molte delle condanne comminate. Fra il 1988 e il 2018,78 persone hanno ricevuto una condanna a morte a livello federale, ma soltanto 3 di esse sono state eseguite.
La decisione di procedere con le uccisioni, nel complesso sistema giudiziario statunitense, è di ambito politico. Lee è morto, continuando a proclamarsi innocente riguardo a un'accusa formulata ventiquattro anni fa, perché il ministro Barr ha ordinato al Bureau of Prisons di procedere con l'esecuzione di "detenuti nel braccio della morte condannati per l'omicidio, la tortura o lo stupro delle persone più vulnerabili della società: bambini e anziani".
La pena di morte corrisponde a una concezione dell'uomo primitiva. Si colloca indietro nel tempo, in epoche nelle quali non si era ancora sviluppato un umanesimo maturo, in grado di considerare l'essere umano nella sua complessità. Uccidere è proibito da tutte le grandi religioni, per aggirare il divieto in occasione delle guerre si sono inventate costruzioni logiche forzate, per l'omicidio giudiziario si è scavato nel passato, in contesti nei quali le scritture sacre accoglievano sensibilità diffuse che mascheravano la trasparente chiarezza del quinto comandamento: non uccidere. Il divieto si fa più stringente per chi non crede in un al di là, per chi è convinto, o rassegnato, a una vita tutta terrena, circoscritta nella materia.
Uccidere diventa allora talmente definitivo da essere escluso. Per ogni uomo e ogni donna che muore scompare un universo. Dietro alla pena di morte non si pone un desiderio di giustizia, ma di vendetta, realtà terribile che inquina molti dei ragionamenti che si fanno attorno al diritto penale, la cui sola funzione dovrebbe essere la riduzione al minimo delle infrazioni alle regole della convivenza, ma al quale si chiede spesso di soddisfare aspettative diverse. Di riportare indietro il tempo.
Il trasferimento della potestà giuridica a un'autorità terza, a qualcuno che non è stato ferito nei sentimenti o negli interessi da ciò che è avvenuto, non garantisce solo l'accusato da una vendetta frettolosa. Serve a proteggere l'intera comunità dal dilagare di sentimenti aggressivi, dal desiderio di trovare un colpevole che funga comunque da capro espiatorio, che riceva una punizione tale da considerare chiusa una vicenda dolorosa.
Per questa ragione l'uso che viene fatto dall'amministrazione americana della pena di morte come mezzo per la ricerca di un consenso che il Covid-19 ha in parte cancellato presenta dei lati molto inquietanti. Lo strumento creato per impedire vendette o imposizioni sommarie di pene perde la funzione per la quale è nato e si degrada, l'uccisione di un uomo assume in pieno il carattere dell'omicidio; le ragioni giudiziarie per le quali esso viene commesso sono cancellate da quelle reali, inammissibili. Il sistema della giustizia statunitense esercita su di noi, che siamo anche pubblico televisivo, una potente fascinazione, per alcuni aspetti di efficienza e di chiarezza dei ruoli senz'altro giustificata. Non altrettanto si deve dire per le concessioni che esso fa al sentire comune, che sappiamo essere troppo sensibile all'immediato e troppo fiducioso nelle possibilità della repressione, quando le nostre società avanzate hanno soprattutto bisogno di conciliazione.
di Roberto Saviano
La Repubblica, 17 luglio 2020
Dopo il sì al rifinanziamento della Guardia costiera libica. Nel giorno dell'indignazione per la foto che ritrae l'ennesimo cadavere nel Mediterraneo, il segretario del Pd Nicola Zingaretti avrebbe dovuto spiegare - in realtà ci aspettavamo una spiegazione già da tempo - perché i ministri del suo partito hanno tradito il voto dell'Assemblea nazionale sul rifinanziamento degli aguzzini libici.
Si era votato all'unanimità contro lo stanziamento di fondi per la Guardia costiera libica e ci era parsa una deviazione assai significativa del Pd dall'asse che, da Berlusconi passando per Minniti, aveva portato alla ferocia del governo gialloverde. Mai le politiche migratorie che criminalizzavano le Ong e riconoscevano una zona Sar libica, di fatto considerando la Libia un Place of safety, erano state messe in discussione dal Pd; quindi il voto dello scorso febbraio dell'Assemblea nazionale rappresentava un vero e proprio cambio di rotta: un cambio di rotta tradito.
Ma questo sarà l'ennesimo giorno dell'indignazione. Il giorno in cui, con un commento, ci si lava la coscienza. L'ennesima foto dell'orrore: un uomo, un migrante, che per settimane ha vagato nel Mediterraneo, morto per raggiungere un sogno che per noi è realtà: l'Europa. Prima di lui in migliaia, prima di lui Alan Kurdi, poi Josefa e la donna con bambino, morti accanto a lei che invece era stata tratta in salvo viva e sotto shock. Vi ricordate le scarpette di Alan e le unghie rosse di Josefa? Dettagli usati per far credere che si trattasse di una messa in scena; non dimentico l'orrore di quelle morti, non dimentico l'orrore delle menzogne che sono seguite, ma nemmeno l'orrore del silenzio di chi vanta crediti da bestia buona mentre continua a spostare il nostro senso comune sempre più a destra, come dicono loro: "Per non regalare il Paese a Salvini". Per non regalare il Paese a Salvini, sono diventati Salvini.
Quanto tempo durerà la nostra indignazione di oggi e la sofferenza per questo ennesimo cadavere? Ancora domani, forse, e poi? Direi che è giunto il momento di dare un volto ai responsabili dell'orrore di cui noi siamo impotenti testimoni e migliaia di persone sono vittime, altrettanto impotenti. Ma la nostra impotenza è nulla rispetto al prezzo che le vittime pagano per rincorrere un desiderio umano, quello di sopravvivere a fame, guerre, violenza, discriminazione. Al prezzo che pagano per tentare la fuga dai campi di prigionia libici che - vale la pena ricordarlo, soprattutto a chi bacia croci e santini, a chi brandisce la bibbia e si professa cristiano, o cristiana - papa Francesco ha definito lager.
E per questa tragedia abbiamo un pantheon di responsabili ed è giunto il momento di inserire tra loro il segretario del partito democratico Nicola Zingaretti. Il Pd, sotto la sua guida, ha prorogato, in Consiglio dei ministri, il finanziamento della Guardia costiera libica, ovvero degli aguzzini dell'uomo morto in mare (e di migliaia di altre persone, tra cui molti, moltissimi minori), ovvero dei trafficanti di esseri umani che con i nostri soldi torturano, imprigionato ed estorcono altro denaro ai disperati.
L'Assemblea nazionale del Pd aveva votato all'unanimità contro il rifinanziamento, e questo solo cinque mesi fa. Ancora trovate sul sito del Pd, a caratteri cubitali, titoli come questo: "L'Assemblea nazionale Pd approva all'unanimità l'odg sulla Libia". Allora non sarà lecito domandarsi perché il Pd nel Consiglio dei ministri non abbia seguito le indicazioni dell'Assemblea? L'Assemblea nazionale del Pd quindi non conta nulla? Lo immaginavamo e ora ne abbiamo la prova finale. Ma ripeto la domanda al segretario del Pd, la grido: perché i ministri del suo partito hanno tradito la volontà del voto?
Finanziare gli aguzzini libici, per caso, significa prendere parte alla guerra civile libica? Significa tenere un artiglio nel Paese dai cui interessi e dalle cui sorti siamo stati estromessi? Lo si dica apertamente ma non così: mascherando, mentendo, tradendo, sacrificando vite umane. Quando tra qualche anno guarderemo film o leggeremo racconti sull'inferno libico - così ci è capitato vedere i lager nazisti, i gulag sovietici, i campi cambogiani, lo Stadio di Pinochet - dobbiamo ricordarci che l'orrore di oggi ha delle responsabilità. Sui "taxi del mare" di Luigi Di Maio e sulle "crociere" di Matteo Salvini credo di non dover aggiungere nulla, salvo questo: la ferocia di Di Maio e di Salvini non venga utilizzata come paravento da chi ha le medesime responsabilità mentre sbandiera i diritti umani come proprio vessillo.
Per quel che ne sappiamo, abbiamo evidenza del fatto che questo governo non otterrà mai verità su Giulio Regeni, mai si impegnerà per la liberazione di Patrick Zaky e delle centinaia di detenuti nelle carceri egiziane mentre vende fregate Fremm al regime di al-Sisi. Mai si interesserà a chi muore da innocente nelle carceri turche e mai avrà cura di tutti i sofferenti - si badi bene, anche italiani - che vivono schiacciati dal tallone di qualcuno che, seppur palesemente criminale, è comunque qualcuno con cui si fanno affari. E gli affari vengono prima di tutto, prima del rispetto della vita umana.
Il suo silenzio, segretario Zingaretti, sulle motivazioni del voto favorevole per il rifinanziamento degli aguzzini libici non è tollerabile, come non è accettabile che un segretario non sia capace di far rispettare il voto dell'Assemblea nazionale del suo partito. Tra il governo gialloverde e quello giallorosso non c'è alcuna differenza se al centro non viene posta la vita umana, ma una politica becera che pone chi governa l'Italia sullo stesso piano dei criminali che finanzia nel Mediterraneo. Il lavoro sporco in cambio di un briciolo d'influenza. Quello che è accaduto, segretario Zingaretti, adesso sembra una notizia che può essere nascosta, ma domani sarà una responsabilità che non le darà tregua.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 17 luglio 2020
Dossier dell'Associazione Studi Giuridici Immigrazione. Le organizzazioni umanitarie italiane (Ong) che operano nei centri libici per migranti non starebbero migliorando le condizioni dei reclusi, ma ne legittimerebbero la detenzione. Lo si evince dal rapporto pubblicato dall'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione (Asgi) proprio sugli interventi attuati da alcune Ong che portano avanti progetti finanziati con 6 milioni di euro dall'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (Aics).
Come spiega l'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione, l'iniziativa ha suscitato, sin dall'emanazione del primo bando a novembre 2017 molto scalpore nell'opinione pubblica, sia perché il sistema di detenzione per migranti in Libia è caratterizzato da gravissimi e sistematici abusi ("è troppo compromesso per essere aggiustato", aveva detto il Commissario Onu per i diritti umani) sia per la vicinanza temporale con gli accordi Italia- Libia del febbraio 2017.
I centri di detenzione libici, infatti, soprattutto quelli ubicati nei dintorni di Tripoli che sono destinatari della maggior parte degli interventi italiani, sono destinati a ospitare anche migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera Libica, a cui l'Italia ha fornito, e tuttora fornisce, un decisivo appoggio economico, politico e operativo. Il rapporto si interroga quindi sulle conseguenze giuridiche degli interventi attuati, a spese del contribuente italiano, nei centri di detenzione libici.
Nel rapporto si apprende che i fondi stanziati dall'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo nel 2017 per interventi da parte di Ong italiane all'interno di centri di detenzione in Libia ammontano complessivamente a 6 milioni di euro.
Tale somma è stata appaltata attraverso tre diversi bandi. Tutte le informazioni sono pubblicamente disponibili sul sito dell'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo. I bandi in esame prevedono che ciascuna Ong partecipante possa presentare una proposta di progetto come singola Organizzazione o in associazione temporanea di scopo (Ats) con altre Ong. Dalla scelta se partecipare come singoli o in Ats i bandi fanno anche dipendere l'importo massimo del finanziamento, inizialmente fissato a 666.550 euro, poi elevato nei bandi successivi a 1.000.000 di euro.
I bandi inoltre stabiliscono che per l'attuazione dei progetti le Ong italiane debbano necessariamente avvalersi di partner locali sul campo, in quanto la situazione di sicurezza non consente la presenza di personale italiano in loco. La possibilità per personale italiano di recarsi nella zona d'intervento può essere valutata caso per caso con l'evolversi della situazione. Le Ong capofila dei progetti approvati sono le seguenti: Emergenza Sorrisi, Helpcode (già Ccs), Cefa, Cesvi e Terre des Hommes Italia. Le altre Ong coinvolte nell'attuazione dei progetti, come partner di quelle capofila, sono Fondation Suisse de Deminage, Gvc (già We World), Istituto di Cooperazione Universitaria, Consorzio Italiano Rifugiati (Cir) e Fondazione Albero della Vita.
Al fine di comprendere in dettaglio la natura e la tipologia degli interventi svolti, alcuni soci dell'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione hanno presentato una serie di richieste di accesso civico per ottenere copia dei documenti più rilevanti relativamente ai progetti in questione, ed in particolare il testo dei progetti presentati ed approvati. Ma nulla da fare. L'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo ha negato il diritto di accesso a tutti i testi dei progetti approvati.
L'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione ha messo in discussione la logica stessa dell'intervento ideato dall'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, mostrando come in larga misura le condizioni disumane nei centri, che i bandi mirano in parte a migliorare, dipendano da precise scelte del governo di Tripoli (politiche oltremodo repressive dell'immigrazione clandestina, gestione affidata a milizie, assenza di controlli sugli abusi, ubicazione in strutture fatiscenti, mancata volontà di spesa, ecc.). I bandi non condizionano l'erogazione delle prestazioni ad alcun impegno da parte del governo libico a rimediare a tali criticità, rendendo così l'intervento italiano inefficace e non sostenibile nel tempo.
Ma non solo. Le Ong svolgono un'attività esclusivamente strutturale. Ovvero, secondo il rapporto, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri. L'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione si interroga anche sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati.
L'assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie, indubbiamente ostacolerebbero un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione non esclude che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle sevizie ai danni dei detenuti.
di Adriana Pollice
Il Manifesto, 17 luglio 2020
La ministra Lamorgese a Sarraj: "L'accordo con la Turchia deve essere replicato con Tripoli". Sessantacinque naufraghi alla deriva nella zona Sar maltese, a 54 miglia da Lampedusa, con onde di 2 metri, il motore in panne e nessuno soccorso in vista. Nelle stesse ore, ieri mattina, si decideva alla Camera sulle missioni all'estero, passate con 453 sì e 9 astenuti.
Per il capitolo Libia è stato necessario un voto separato: il via libera è arrivato (come già al Senato) ma con 401 sì, 23 no e 2 astenuti. Il quorum di 213 è strato raggiunto grazie al centrodestra perché la maggioranza si è fermata a 206. Italia Viva non ha partecipato al voto mentre hanno detto no 7 di Leu, 8 del Pd, 5 del Misto e 3 5s. Una frattura nello schieramento giallo rosa già emersa ma che ieri si è consolidata.
Nella Risoluzione, sottoscritta da 22 parlamentari, il primo firmatario Erasmo Palazzotto di Leu ha sottolineato: "La missione in Libia apre una contraddizione nella maggioranza". E poi in sede di voto: "Non sarò complice. A chi diamo le nostre motovedette? Chi stiamo addestrando? Coloro che trafficano esseri umani? Inaccettabile". Gli interventi in aula hanno messo sotto accusa una linea politica che si perpetua di governo in governo: "La Libia non è mai stata un porto sicuro - ha detto Laura Boldrini. Sostenere la Guardia costiera libica significa sostenere le violazioni dei diritti umani".
Il dem Matteo Orfini: "Finanziarla significa appoggiare chi uccide, stupra, tortura. Farlo dicendo che chiederemo loro di comportarsi bene è solo una gigantesca ipocrisia". Dallo stesso gruppo parlamentare Giuditta Pini: "Il rifinanziamento della Guardia costiera libica è stato votato anche dalla maggioranza del Pd nonostante l'assemblea del partito avesse espressamente dato parere contrario. Due partiti su quattro della maggioranza non vogliono più sostenere questa missione. Mentre il Pd ha votato insieme a Lega e 5s".
I dem sotto accusa. Da +Europa Riccardo Magi spiega: "Un anno fa il Pd non partecipò al voto sulla proroga della missione sostenendo che la strategia andava cambiata e i centri di detenzione svuotati. Oggi (ieri ndr) il governo italiano ha disposto la proroga con l'aumento del finanziamento e il Pd, tranne pochi, ne ha votato la prosecuzione. Esito schizofrenico". Emma Bonino: "Il governo ha appena rifinanziato la Guardia costiera libica come se esistesse davvero. L'Italia paga per fermare con ogni mezzo, anche il più disumano, i flussi nel Mediterraneo, è il bancomat di queste operazioni". Ma la viceministra dem degli Esteri, Marina Sereni, non si è scomposta: "Stiamo lavorando per la modifica del Memorandum con Tripoli per favorire l'accesso delle organizzazioni internazionali nei centri per migranti con l'obiettivo del loro superamento".
Il fronte del no ieri ha scritto all'esecutivo: "Una parte della maggioranza, trasversale a tutte le forze, chiede discontinuità nella gestione del fenomeno migratorio. La collaborazione nei respingimenti illegali verso un paese in guerra, dove le persone subiscono violenze inenarrabili, si configura come una nostra corresponsabilità nelle violazioni di diritti umani". Una trentina di deputati più tre europarlamentari hanno quindi chiesto un tavolo per affrontare il tema.
La ministra dell'interno, Luciana Lamorgese, è volata ieri a Tripoli per discutere di migrazioni, sicurezza e anche affari. La delegazione è stata ricevuta dal premier del Governo di accordo nazionale, Fayez al Sarraj, e dai principali esponenti del suo esecutivo. Dopo la sessione plenaria c'è stato un incontro bilaterale con il suo omologo, Fathi Bashagha, uomo forte di Misurata. Oggetto dei colloqui la cooperazione nel campo della sicurezza, la lotta all'immigrazione clandestina, il ritorno delle compagnie italiane in Libia, la rimozione delle mine lasciate dalle forze di Haftar, la riapertura dei pozzi di petrolio. Lamorgese ha messo sul tavolo una posizione che sarà piaciuta ai protettori turchi di Sarraj: "Confermiamo l'orientamento, già espresso dal governo italiano, secondo il quale l'impegno profuso dall'Ue nell'ambito dell'accordo con la Turchia possa e debba essere replicato anche nel quadrante centrale del Mediterraneo".
Il patto con Ankara del 2016 per bloccare i flussi sulla rotta orientale, sponsorizzato dalla Germania (6 miliardi di euro alla Turchia), verrebbe replicato con la Libia mentre, intanto, la guerra non si ferma e le milizie continuano a fare affari con i migranti. Orientamento emerso lunedì scorso alla conferenza di Trieste, promossa dall'Italia d'intesa con la commissione Ue e con la presidenza di turno tedesca, e la partecipazione dei governi del Nord Africa da cui provengono i principali flussi. Proposta che nel 2016 aveva già fatto l'allora ministro Alfano.
Lamorgese ha ribadito "la necessità di controllare frontiere e flussi nel rispetto dei diritti umani. Attivare operazioni di evacuazione dei centri gestiti dal governo attraverso corridoi umanitari organizzati dall'Ue e gestiti da Oim e Unhcr". È stata poi verificata l'attuazione del progetto del Viminale, cofinanziato dall'Ue, per migliorare le forze di sicurezza: ieri sono stati consegnati 30 automezzi per il controllo delle frontiere terrestri.
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