di Paolo Maninchedda
ilsussidiario.net, 17 luglio 2020
Si vuole l'esecuzione politica di Palamara, orchestrata dal Csm, per lasciare tutto com'è. Ci vorrebbe invece una commissione di inchiesta. Quando Craxi definì Mario Chiesa un "mariuolo" commise uno degli errori politici - e umani - più gravi della sua storia. Chi ritiene oggi di amnistiare la magistratura italiana condannando il solo Palamara percorre lo stesso sentiero, con maggiori rischi.
Chiesa infatti terremotò la Repubblica pur essendo solo un ufficiale del sistema politico milanese; Palamara è un generale dell'apparato italico. La sua fustigazione e decapitazione pubblica può avvenire senza danni per l'ordine cui lui stesso appartiene, solo costringendolo al silenzio o attenuandone la voce fino a flebile suono. La potente e novella mordacchia è l'imminente processo, dei custodi sul custode, dinanzi alla sezione disciplinare del Csm; l'efficace trasparenza, invece, sarebbe la pubblica azione di una commissione parlamentare di inchiesta.
Quel che resta della grande costruzione ideologica che si chiama Italia, dinanzi a questo possibile bivio dovrebbe chiedersi di che cosa abbia realmente bisogno: di un'esecuzione o di una profonda comprensione? Mani Pulite cercò la punizione delle colpe prima che l'intelligenza degli eventi. E infatti le cose continuarono ad andare come prima, con la sola imprevista sostituzione degli attori giustiziati con interpreti diversi da quelli vaticinati.
Oggi, si vorrebbe fare la riforma del Csm prima di aver capito, di aver scavato, di aver illuminato. Si vuol far vendetta piuttosto che giustizia. Oggi si vorrebbe chiudere la falla di verità che si è aperta con le 99mila pagine del dossier Palamara, espellendo dalla magistratura il suo ex leader, riducendo allo stato laicale una dozzina di magistrati e trasferendone altrettanti.
Il correntismo, il gruppettarismo della magistratura, la sua specifica politicizzazione sono solo alcune parti del problema ed è proprio sulle altre che si vuol stendere un velo omertoso. Non si vuole far luce sul potere e sugli errori della polizia giudiziaria.
Non si vuole dire che troppo spesso il magistrato, preoccupato di far procedere la sua tabella, prende per buono anche l'inverosimile presente nei rapporti della Pg, semplicemente perché non li legge e analizza con cura. Non si vuole far luce sull'abuso dell'imputazione di "associazione a delinquere" per poter spiare senza garanzie gli indagati; non si vuole far luce sull'abitudine impunita di inviare gli avvisi di garanzia non quando realmente si inizia a indagare, o dopo i primi tre mesi, ma in occasione degli arresti o del "fine indagini".
Non si vuole indagare sul mercimonio degli encomi nelle forze dell'ordine, con profluvio tanto più abbondante quanto più clamorosi sono gli arresti. Non si vuole far luce sull'arcaico segreto di polizia.
Non si vuole far luce sulla pessima abitudine di iscrivere le persone al registro degli indagati e poi non archiviare, in mancanza di prove, ma lasciare i dossier sulle sedie ad aspettare che prima o poi l'interessato commetta un passo falso, per ricongiungere il tutto e giustificare il dispendio di risorse realizzato e mascherare la persecuzione attuata come una nobilissima e annosa indagine.
Le probabilità, dunque, di una vera stagione di riforme sono proporzionali al grado di trasparenza e di discussione che si raggiungerà sulle carte di Palamara. Per capire e svelare si dovrebbe essere disposti a giungere con lui ad un accordo quale quelli che si sono stipulati con i collaboratori di giustizia: garanzie sul futuro personale in cambio di dettagliate e circostanziate testimonianze.
Invece, come al solito, è iniziata la trattativa con i media e con i loro azionisti per oscurare o depotenziare le sue parole e le sue ragioni, in modo da limitare i danni. In cambio di questo depistaggio storico e civico, si offrono circoscritte riabilitazioni, parziali attenuazioni, limitati riassetti di potere. È una sorta di piccola strategia giubilare: liberare due o tre prigionieri, punire un boia e far dimenticare per un giorno il volto feroce del tiranno e il sangue delle sue vittime, rivolante e raggrumato nelle diverse regioni d'Italia.
Ecco, fermiamoci qui, per adesso, con una certezza: se i tecnici delle luci metteranno al buio il teatro, che siamo noi, al riaccendersi delle lampadine mercenarie troveremo il teatro (cioè lo Stato) tale e quale, Palamara smembrato e un bello spettacolo di varietà sul palcoscenico, o una partita di Champions, per l'oblio. Siamo tutti legittimati a divenire elettricisti per la libertà delle generazioni che verranno.
di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 17 luglio 2020
La difesa: illegittime. Il neo-procuratore di Perugia Raffaele Cantone contrario a rinvii: tutto regolare, possono essere utilizzate. Caduta per Palamara l'accusa sui soldi. La prima mossa del neo procuratore di Perugia Raffaele Cantone nel "caso Palamara" è contro il rinvio dell'udienza-stralcio per decidere quali intercettazioni utilizzare nel processo e quali no.
Il magistrato indagato per corruzione voleva prendere tempo in attesa di ciò che sarà deciso, sullo stesso argomento, nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura, ma Cantone è intervenuto davanti al giudice dell'indagine preliminare per spiegare che l'inchiesta penale non può frenare davanti a quella amministrativa.
E il gip gli ha dato ragione: "La richiesta di rinvio non può trovare accoglimento", ha stabilito al termine dell'udienza di ieri; né "si ravvisa la necessità" di concedere altro tempo a Palamara e ai suoi difensori per ascoltare i files delle registrazioni "secondarie" o "non rilevanti", così definiti dalla ditta che ha realizzato le intercettazioni tramite il trojan inoculato nel telefono dell'ex pm romano.
Il contenzioso sulle registrazioni - "Sembra emergere chiaramente", sostiene il gip dopo aver acquisito le spiegazioni della ditta, che si tratta di files "privi di contenuto o che si identificano in messaggi contenenti informazioni di carattere tecnico (collegamento alla rete, tipologia di rete utilizzata per la connessione, ecc.)" che nulla hanno a che vedere con l'indagine.
Nessuna registrazione occultata, quindi. Il procedimento può andare avanti e l'udienza sulle intercettazioni da trascrivere è stata aggiornata al prossimo 30 luglio. In queste due settimane, se lo vorranno, Palamara e i suoi avvocati potranno ascoltare anche i files "privi di contenuto" e fare ulteriori istanze.
I dialoghi con Ferri e Lotti - Si tratta di questioni tecnico-giuridiche apparentemente secondarie che in realtà ne nascondono una molto importante: l'utilizzabilità delle intercettazioni in cui Palamara parla con i deputati Cosimo Ferri (giudice in aspettativa, anche lui sotto procedimento disciplinare) e Luca Lotti, protetti dall'immunità parlamentare: sono intercettazioni "casuali", quindi utilizzabili contro chi non gode di alcuna immunità (Palamara), oppure dal contenuto delle altre telefonate era prevedibile che il magistrato indagato avrebbe incontrato i deputati, e dunque il microfono nascosto nel suo cellulare andava staccato, secondo le disposizioni impartite dai pm di Perugia agli investigatori della Guardia di finanza? In sostanza: quelle intercettazioni furono legittime o "in violazione della Costituzione", come ribadito ieri da uno dei difensori di Palamara, l'avvocato Benedetto Buratti?
Il trojan e le intercettazioni "casuali" - Anche su questo punto, sottoscrivendo la memoria trasmessa al gip, il neo-procuratore Cantone ha dato la sua risposta schierandosi al fianco e a sostegno del lavoro svolto dai sostituti procuratori Gemma Milano e Mario Formisano, prima del suo arrivo: nessuna violazione delle regole, e tantomeno della Costituzione. Le intercettazioni degli incontri con Ferri e Lotti furono "casuali", non programmate né programmabili secondo il funzionamento del trojan.
Ne consegue che quei colloqui registrati - a cominciare dalla famosa riunione notturna dell'hotel Champagne, tra l'8 e il 9 maggio 2019, nella quale si pianificavano le strategie per le nomina del procuratore di Roma e altre questioni - sono pienamente utilizzabili, sebbene non sia lì la prova della corruzione contestata all'ex componente del Csm; quell'incontro è un dettaglio che serve a comprendere come si muoveva Palamara, e ciò su cui poteva incidere: la "messa disposizione della funzione" in favore dell'imprenditore Fabrizio Centofanti è dimostrata - secondo i pm - dai viaggi pagati e altri indizi raccolti.
Caduta l'accusa di aver intascato soldi - Per Luca Palamara, invece, i viaggi sembrano essere il problema minore; lui, già soddisfatto perché è caduta l'accusa di aver intascato 40.000 euro per pilotare una nomina, è convinto di poter dimostrare di non aver mai fatto nulla che non fosse la "semplice" spartizione di poltrone e promozioni. Ma intanto, in attesa della richiesta di rinvio a giudizio e dell'udienza per decidere l'eventuale processo, la battaglia legale appena cominciata è sulle intercettazioni da utilizzare.
di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2020
In caso di fatture soggettivamente inesistenti l'amministrazione deve dimostrare, anche in via indiziaria, non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario della partecipazione alla frode. A tal fine l'ufficio sulla base di elementi oggettivi e specifici deve provare che il contribuente sapeva, o avrebbe dovuto sapere, con l'ordinaria diligenza che l'operazione si inseriva in un'evasione fiscale, o almeno che possedeva indizi idonei a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto, della sostanziale inesistenza del contraente.
A confermare questo importante principio è la Cassazione con l'ordinanza 15005/2020. Una società attiva nella commercializzazione di autovetture era coinvolta in una cosiddetta frode carosello perpetrata a mezzo di emissione di fatture soggettivamente inesistenti. Impugnava l'accertamento con cui l'ufficio contestava la deducibilità delle imposte sui redditi e l'indetraibilità dell'Iva. La competente Ctp accoglieva il ricorso ma in appello confermava la rettifica anche se solo ai fini Iva.
La Ctr riteneva indetraibile l'Iva relativa a fatture non intestate all'effettivo venditore, in quanto l'operatore è tenuto a verificare con attenzione la provenienza delle merci soprattutto quando provengono da soggetti evanescenti e sospetti dediti ad altre attività. La società ricorreva per cassazione eccependo, in buona sostanza, che la Ctrf non illustrava le ragioni per ritenere gli acquisti riconducibili a operazioni soggettivamente inesistenti e soprattutto i motivi della propria consapevolezza rispetto alla frode.
La Cassazione ha accolto il ricorso. I giudici hanno evidenziato che se l'amministrazione contesta fatturazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno in una frode carosello, deve provare anche solo in via indiziaria, non soltanto la oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione di imposta.
La prova della consapevolezza dell'evasione richiede la dimostrazione, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente sapeva, o avrebbe dovuto sapere con l'ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l'operazione si inseriva in una evasione fiscale ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto e mediante esperto, della sostanziale inesistenza del contraente.
A questo punto il contribuente deve provare di aver agito in assenza di consapevolezza rispetto alla frode e di aver adoperato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in relazione al caso concreto. Nella specie la Ctr si era limitata a confermare la contestazione dell'ufficio senza spiegare per quali elementi poteva ritenersi provato il ruolo di cartiera dei fornitori e soprattutto la consapevolezza della società nella frode Iva.
L'ordinanza è di sicuro interesse anche perché si spera che ora gli uffici abbandonino la prassi, purtroppo diffusa, in presenza di un fornitore sospetto, di contestare la fittizietà soggettiva dell'operazione pretendendo l'Iva dall'acquirente. Spesso, peraltro, la frode del fornitore emerge a seguito di complesse indagini svolte con gli strumenti e i poteri dell'amministrazione che il contribuente (acquirente) non ha, per cui mal si comprende come avrebbe potuto insospettirsi.
di Paola Rossi
Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2020
Corte di giustizia dell'Unione europea - Grande Sezione - Sentenza 16 luglio 2020 - Causa C-129/19. Gli Stati membri devono riconoscere un indennizzo a tutte le vittime di reati intenzionali violenti, anche a quelle residenti nel territorio degli Stati stessi.
L'indennizzo non deve necessariamente corrispondere al ristoro integrale dei danni, ma il suo importo non può essere puramente simbolico. Così si esprime la Grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza Presidenza del Consiglio dei Ministri (C 129/19), pronunciata oggi, dichiarando, che scatta il regime della responsabilità extracontrattuale dello Stato membro per il danno causato dalla mancata trasposizione in tempo utile della direttiva 2004/80 nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro. Inoltre, la Corte ha statuito che la previsione nazionale di un indennizzo forfettario alle vittime di reati intenzionali violenti, concesso in caso di stupro, non può ritenersi "equo ed adeguato" se fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze non rappresentando quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito.
La vicenda a quo - Una cittadina italiana residente in Italia, è stata vittima di violenza sessuale commessa nel territorio di tale Stato membro nel 2005. La somma di 50.000 euro che gli autori della violenza erano stati condannati a pagarle a titolo di risarcimento danni non le è stata però versata in quanto essi si sono resi latitanti. Nel febbraio del 2009, la donna ha citato in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per ottenere il risarcimento del danno che essa affermava di avere subito in conseguenza della mancata trasposizione, in tempo utile, da parte dell'Italia, della direttiva 2004/80. Nel corso di tale procedimento, la Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata condannata in primo grado a versare alla vittima della violenza sessuale la somma di 90.000 euro, ridotta in appello a 50mila.
Il rinvio pregiudiziale - Chiamato a pronunciarsi su un ricorso per cassazione proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il giudice del rinvio si interrogava, da un lato, sulla possibile applicazione del regime della responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro a causa della trasposizione tardiva della direttiva 2004/80, nei confronti di vittime di reati intenzionali violenti che non si trovino in una situazione transfrontaliera. Dall'altro, tale giudice nutriva un dubbio in ordine al carattere "equo ed adeguato", ai sensi della direttiva 2004/80, della somma forfettaria di 4.800 euro prevista dalla normativa italiana per l'indennizzo delle vittime di violenza sessuale.
Responsabilità extracontrattuale per il ritardo statale - Per quanto riguarda la prima questione, la Corte ha anzitutto ricordato le condizioni che consentono di accertare la responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell'Unione, ossia l'esistenza di una norma di diritto dell'Unione violata preordinata a conferire diritti ai singoli; una violazione sufficientemente qualificata di tale norma e un nesso di causalità tra tale violazione e il danno subito dai singoli.
Nel caso di specie, tenuto conto del tenore letterale della direttiva 2004/80, del suo contesto e dei suoi scopi, la Corte ha segnatamente rilevato che, con tale disposizione, il legislatore dell'Unione aveva optato non per l'istituzione, da parte di ciascuno Stato membro, di un sistema di indennizzo specifico, limitato soltanto alle vittime di reati internazionali violenti che si trovano in una situazione transfrontaliera, bensì per l'applicazione, a favore di tali vittime, dei sistemi di indennizzo nazionali delle vittime dei predetti reati commessi nei rispettivi territori degli Stati membri. In esito alla sua analisi, essa ha considerato che la direttiva 2004/80 impone a ogni Stato membro l'obbligo di dotarsi di un sistema di indennizzo che ricomprenda tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi nel proprio territorio, e non soltanto le vittime che si trovano in una situazione transfrontaliera.
Dalle considerazioni che precedono, la Corte ha dedotto che la direttiva 2004/80 conferisce il diritto di ottenere un indennizzo equo e adeguato non solo alle vittime di tali reati che si trovano in una situazione siffatta, ma anche alle vittime che risiedono abitualmente nel territorio dello Stato membro nel quale il reato è stato commesso. Di conseguenza, purché risultino soddisfatte le altre due suddette condizioni, un singolo ha diritto al risarcimento dei danni causatigli dalla violazione, da parte di uno Stato membro, del suo obbligo derivante dalla direttiva 2004/80, e ciò indipendentemente dalla questione se tale singolo si trovasse o meno in una situazione transfrontaliera al momento in cui è stato vittima del reato di cui trattasi.
Adeguatezza dell'indennizzo - Per quanto attiene alla seconda questione, la Corte ha dichiarato che, in assenza, nella direttiva 2004/80, di una qualsivoglia indicazione in ordine all'importo dell'indennizzo che si presume "equo ed adeguato", tale disposizione riconosce agli Stati membri un margine di discrezionalità. Ciò nonostante, se è vero che tale indennizzo non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalle vittime di reati intenzionali violenti, esso non può tuttavia essere puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime.
Secondo la Corte, l'indennizzo concesso alle vittime in forza di tale disposizione deve infatti compensare, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono state esposte. A tale proposito la Corte ha inoltre precisato che un indennizzo forfettario delle vittime può essere qualificato come "equo ed adeguato" purché la misura degli indennizzi sia sufficientemente dettagliata, così da evitare che l'indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di violenza possa rivelarsi, alla luce delle circostanze di un caso particolare, manifestamente insufficiente.
di Paola Rossi
Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2020
Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 luglio 2020 n. 21163. La lieve entità della cessione e detenzione di hashish non può essere negata - a fronte di un quantitativo di stupefacente "sotto soglia" - per il motivo dello spaccio realizzato in ambito domestico che il giudice afferma essere sintomo di quella scaltrezza indice di una tendenza criminale dell'imputato. Così la Corte di cassazione - con la sentenza n. 21163depositata ieri - ha bocciato per incompletezza il ragionamento condotto dai giudici di merito al fine di escludere la fattispecie della lieve entità prevista dal comma 5 dell'articolo 73 del Dpr 309/1990.
L'orientamento - Spiega la Cassazione che la valutazione del giudice nell'ammettere o meno la lieve entità deve fondarsi, non solo sul dato quantitativo della droga e del contenuto stupefacente della stessa (tra l'altro irrisorio nel caso specifico), ma anche su altri indici di propensione alla commissione del reato e quindi di pericolosità del soggetto. E tale valutazione va fatta in via complessiva, anche se poi il giudizio di "gravità" della condotta può fondarsi sulla valorizzazione di uno solo degli indici per la sua esaustività.
Nel caso specifico appare apodittico da parte della sentenza di merito l'aver affermato che lo spaccio in ambito casalingo determini una maggiore pericolosità della condotta in quanto il reo meglio governa l'ambito e le relative vie d'accesso del luogo del crimine. Data la bassa percentuale di principio attivo e del numero delle dosi inferiori a 20 non si poteva negare de plano la lieve entità senza valutare anche il quantum relativo alla condotta incriminata valorizzando solo l'aspetto comportamentale del soggetto attraverso, tra l'altro, un sillogismo tra spaccio in casa e gravità, che la Cassazione appare bocciare.
di Alberto Cisterna
Il Riformista, 17 luglio 2020
Ritenere correi tutti i 133 testi chiamati dall'ex leader Anm è il modo migliore per affossare la difesa dell'incolpato: se le toghe scappassero dal processo darebbero un segnale terribile.
La scorciatoia è facile e c'è chi, reso scomposto dall'imbarazzo, l'ha già percorsa con qualche interessata sortita giornalistica. Alimentare il timore che la lunga lista di testimoni (133), predisposta dal dottor Palamara in vista del processo disciplinare, sia il prologo di una gigantesca chiamata in correità, è il modo migliore per tentare di affossare del tutto la difesa dell'incolpato e ridurla in cenere in quattro e quattr'otto.
Una bella pietra tombale sullo scabroso affaire su cui scolpire un epitaffio adeguato al caso, ad esempio "L'uomo che volle farsi re" (John Huston, 1975). Quale modo migliore per coalizzare in massa contro l'ex-presidente dell'Anm le principali istituzioni del Paese, i politici più avvezzi alle interlocuzioni con le toghe, i titolari dei più importanti uffici di procura (come si diceva, di giudici se ne vedono pochini in questa sciarada di carriere) che far credere loro di essere chiamati a rispondere di chissà quali malefatte commesse sulle note del reprobo pifferaio magico delle correnti.
È certo una possibilità e, per qualcuno dei menzionati nella lista, forse anche un rischio effettivo. Ed è pure la tesi di persone sicuramente perbene ed esenti da qualunque interesse a celare la verità. Peppino Caldarola, già direttore de L'Unità, ha scritto di recente: "La vicenda Palamara è inquietante. L'elenco dei "famosi" che lui chiama in soccorso, o per complicità, sembra descrivere un'associazione che, se fosse stata di destra, avremmo chiamato con l'ennesimo numero accanto alla sigla P2".
È un giudizio che non si può condividere sino in fondo, perché tra quei nomi si scorgono quelli anche di vittime eccellenti del sistema spartitorio che hanno pagato la loro estraneità a quella razza padrona con torti e ingiustizie di vario genere. Per tentare una lettura un po' più elaborata di quella lista occorre partire da una premessa, forse didascalica e noiosa, ma inevitabile: ossia che si tratta di un atto processuale. Nel processo penale, sulle cui movenze è regolato quello disciplinare, la lista dei testimoni a discarico è il principale atto della difesa.
È il cuore della strategia difensiva. Il nocciolo duro e lo snodo di ogni possibilità di assoluzione. Su quei, in genere pochi, fogli di carta, spesso, si perde e si vince. Non serve, la lista, a consumare vendette o a mandare segnali, mira piuttosto a vincere seguendo un percorso, impostando la confutazione dell'incolpazione e delle prove portate dell'accusa.
Da questo punto di vista la mescolanza di carnefici e vittime del sistema spartitorio che il dottor Palamara vorrebbe squadernare innanzi alla Disciplinare pone una scelta drammatica per chi dovrà decidere: o si chiude la bocca all'incolpato non ascoltando neppure un testimone oppure diviene difficile setacciare tra nome e nome senza dare l'impressione che si voglia mantenere taluno esente da imbarazzi e scaraventare altri sul proscenio di un processo che sarà sotto gli occhi di tutti i media. Una sorta di vittimizzazione secondaria, così la chiamano gli esperti, difficile da digerire. Non solo l'ingiustizia patita, ma anche la probabile gogna della testimonianza pubblica con tutte le sue asperità e i suoi trabocchetti.
Un danno d'immagine non trascurabile. Due opzioni di cui la difesa del dottor Palamara avrà ben calcolato gli effetti: nel primo caso sa l'incolpato che sarà difficile pronunciare una sentenza di condanna che sia esente da censure da portare subito dopo innanzi alla Cassazione o alla giustizia europea per la compressione del diritto di difesa; nel secondo caso si sfrutterà il vantaggio di assumere la testimonianza di chi ha subito un torto per evocare la responsabilità dei correi assenti. Un vero e proprio processo contumaciale in danno di persone che, comunque, non avranno potuto esporre il proprio punto di vista o fornire la propria versione dei fatti.
Un vero incubo processuale che interpella la moralità e la professionalità dei giudici disciplinari al livello più alto, poiché certamente nessuno vorrà macchiarsi dell'accusa di aver celebrato un processo sommario, ma neanche qualcuno vorrà portare il fardello di una Norimberga delle toghe dai tempi imprevedibili e dagli esiti incalcolabili. L'accelerazione che la vicenda ha subito dopo la seconda - meno selettiva e interessata della prima - pubblicazione di chat lascia presagire un epilogo ravvicinato e rapido della vicenda.
Ma nulla è scontato. Al di là dei proclami al rinnovamento morale, alla palingenesi etica, al soprassalto deontologico (roba sostanzialmente inutile in un corpo lacero e infetto che attende cure da cavallo), il processo è la sede insostituibile e irrinunciabile per l'accertamento dei fatti da cui muovere per la conseguente riforma della magistratura italiana. Sarebbe una iattura terribile se proprio le toghe mandassero alla pubblica opinione anche solo un segnale di preoccupazione o, peggio ancora, di paura verso il processo Palamara.
Tra i testimoni si scorgono nomi di toghe che attraversano in lungo e in largo la penisola incitando i cittadini alla collaborazione con la giustizia, a testimoniare, a denunciare. Sarebbe curioso che, ora, chiamati al dovere di dire la verità assumessero atteggiamenti scomposti e riottosi, al limite dell'omertà. Già l'Anm - con ragioni formalmente corrette, ma rimaste poco comprensibili ai cittadini - ha negato al proprio ex-presidente di discolparsi prima di essere espulso.
Ora il Csm è vocato a una scelta complessa e per giunta nell'esercizio della sua funzione più alta, quella giurisdizionale visto che, si badi bene, le sentenze disciplinari sono pronunciate, tutte, in nome del Popolo italiano. E a quel popolo ogni decisione dovrà apparire, come sempre, legittima, equa, imparziale, priva di condizionamenti, presa nel solo interesse della verità. Si può lasciare l'incolpato a briglie sciolte, dandogli modo di spargere sale sulle ferite vive della corporazione e, così, di attentare alla carriera di teste coronate o alla memoria di ex satrapi.
Un rischio effettivamente incombente e non solo ipotetico. Oppure si può arginarne la frenesia locutoria fi no ai limiti della paralisi con il rischio di spingerlo al gesto eclatante di rinunciare a ogni testimonianza in nome di una verità che - si direbbe troppo facilmente - si vuole oscurare per tenebrose connivenze.
Nella solitudine della decisione ogni organo di giustizia è chiamato a operare scelte che siano rispettose della Costituzione secondo cui "la giustizia è amministrata in nome del popolo" (articolo 101) e di nessun altro interesse o soggetto. Nel farlo si dovrà evitare che vadano alla gogna persone che non possono difendersi o che testimoni siano costretti a deporre contra se (in spregio del divieto di porre domande autoincriminanti, art. 198, comma 2, c.p.p.), ma sarebbe tragico se la verità, ogni verità, bussasse invano al portone di palazzo dei Marescialli.
nove.firenze.it, 17 luglio 2020
Lavori al via nella primavera 2021, dureranno due anni. Di Puccio (Pd): "Su questo carcere si sono dette tante parole, è giunto il momento di passare ai fatti". In Commissione Territorio, urbanistica, infrastrutture e patrimonio si è svolta l'audizione del Garante dei Detenuti di Firenze Eros Cruccolini in merito agli interventi infrastrutturali sul carcere di Sollicciano.
Nel corso della seduta è stato illustrato il progetto di efficientamento energetico del carcere di Sollicciano (comprendente anche il Gozzini) promosso dalla Regione Toscana per un importo complessivo di 4 milioni di euro derivati dai fondi europei per lo sviluppo regionale (Por).
L'intervento consiste nel rifacimento della copertura, nella realizzazione di impianti fotovoltaici e di impianti solari per il riscaldamento dell'acqua sanitaria. Prevede inoltre il rifacimento degli infissi e la realizzazione di una nuova centrale termica oltre alla realizzazione di un nuovo impianto elettrico. Gli interventi voluti da Regione Toscana e Comune di Firenze, e realizzati dal Ministero delle Infrastrutture in accordo con il Ministero della Giustizia e con la Regione, inizieranno presumibilmente nella primavera del 2021 per poi concludersi entro due anni.
Si tratta di un primo risultato concreto volto non solo a rendere più sostenibile la vita dei detenuti ma anche di rendere più sostenibile, anche a livello gestionale e ambientale, tutto l'impianto del carcere. In commissione sono stati anche individuati nuovi filoni di approfondimento utili in previsione del prossimo Piano Operativo.
"Ho lavorato per lunghi anni a fianco di Franco Corleone, ex garante dei detenuti sia cittadino e che regionale e continuo a lavorare con Eros Cruccolini, attuale garante. Una soluzione per cercare di dare risposte al sovraffollamento di Sollicciano potrebbe essere la costruzione di un nuovo edificio tra il "Gozzini" e "Solliccianino" che possa essere utilizzato come carcere giudiziario.
Questo - spiega il consigliere del Partito Democratico Stefano Di Puccio, da anni impegnato su questi temi - alleggerirebbe Sollicciano di almeno due o trecento detenuti e renderebbe al carcere la sua reale vocazione. All'interno dell'istituto di pena troviamo, attualmente, detenuti che dovrebbero risiedere in carceri giudiziari e che sono posteggiati in attesa di giudizio. Così come da anni si parla di poter realizzare in un'altra parte della città una Casa della semilibertà ed un centro per le madri in carcere.
Anche in questo caso era stata individuata la zona di San Salvi, dove sono tuttora presenti edifici dismessi, e che potrebbero essere utilizzati come Casa della semilibertà. La Madonnina del Grappa aveva, invece, finanziato un progetto proprio per le madri in carcere. Vediamo di arrivare in fondo a questi progetti - conclude il consigliere PD Stefano Di Puccio - entro la fine di questo mandato amministrativo. Si sono dette tante parole, è giunto il momento di passare ai fatti".
anconatoday.it, 17 luglio 2020
I sopralluoghi hanno interessato tutti gli istituti penitenziari. Valutazione complessivamente positiva. Nobili chiede la convocazione dell'Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria.
Termina con la visita alla Casa circondariale di Marino del Tronto la fase di monitoraggio avviata dal Garante regionale, Andrea Nobili, subito dopo il lungo periodo di lockdown. Un attento sopralluogo, quello ad Ascoli Piceno, caratterizzato dal confronto con i responsabili dei diversi settori e con una verifica dello stato degli ambienti carcerari.
L'azione di monitoraggio ha interessato tutti gli istituti penitenziari delle Marche, per i quali l'Autorità di garanzia ha chiesto incontri con direttori, comandanti della Polizia penitenziaria, nonché responsabili dell'area sanitaria e delle attività trattamentali. Non sono mancati numerosi colloqui con i detenuti, che sono stati messi in piedi anche per via telematica, vista la complessità del momento e il disagio determinato dall'impossibilità di poter avere contatti diretti con i familiari. Al termine delle visite il Garante ha espresso un primo giudizio positivo sulla situazione generale, soprattutto in relazione alla tenuta delle strutture dal punto di vista sanitario, e alla capacità della Polizia penitenziaria di fronteggiare inevitabili momenti di tensione. "Ma superata questa fase - sottolinea ora Nobili - andranno messi in atto alcuni approfondimenti, che ci consentano di gestire le criticità del quotidiano nel migliore dei modi e di affrontare le nuove emergenze che dovessero presentarsi. Per questo motivo ho già chiesto la convocazione dell'Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria".
Restano in piedi, infatti, i problemi legati alla verifica delle condizioni per i nuovi ingressi e alle patologie che interessano i detenuti attualmente in carcere per i quali il Garante auspica piani d'intervento e di prevenzione. Oltre alla questione strettamente sanitaria, c'è quella del riavvio delle attività trattamentali, con alcune progettualità che sono rimaste ferme negli ultimi mesi e per le quali Nobili ha chiesto più volte una graduale ripartenza, attraverso tutte le disposizioni previste per il distanziamento sociale.
In questa direzione, un primo appuntamento è fissato per il prossimo 23 luglio presso l'istituto di Montacuto di Ancona. La poesia torna nuovamente oltre le sbarre con il progetto "Ora d'aria", previsto nell'ambito del festival internazionale "La Punta della Lingua". Sarà lo scrittore Guido Catalano a confrontarsi con i detenuti, come già fatto in passato attraverso alcune iniziative promosse dal Garante, che hanno permesso di concretizzare interventi educativi e formativi di sensibilizzazione alla lettura, alla scrittura ed allo sviluppo delle potenzialità creative.
"Terminata questa fase di monitoraggio - conclude Nobili - contiamo, comunque, di effettuare ulteriori visite nelle singole strutture a partire già dal mese di agosto per avere un quadro costantemente aggiornato della situazione".
romatoday.it, 17 luglio 2020
Il progetto è stato presentato presso la sede del Consiglio regionale del Lazio dal garante regionale Anastasìa, dal vicepresidente del Consiglio regionale Cangemi e dal provveditore all'amministrazione penitenziaria Cantone. Più sportelli per i diritti dei detenuti nelle carceri del Lazio. Non solo Regina Coeli, Rebibbia Femminile e Cassino ma anche Rieti, Rebibbia Penale, Civitavecchia e Frosinone. Il progetto è stato presentato questa mattina presso la sede del Consiglio regionale del Lazio dal garante regionale Stefano Anastasia, insieme al vicepresidente del Consiglio regionale, Giuseppe Cangemi, e al provveditore all'amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone.
Un progetto "di integrazione tra Garante, Università e associazioni qualificate per il rafforzamento degli strumenti di tutela dei diritti dei detenuti". Da tempo negli Istituti penitenziari del Lazio "sono presenti qualificate esperienze associative per la tutela dei diritti dei detenuti e più di recente si sono andate diffondendo le cosiddette "Cliniche legali penitenziarie", che affiancano un'attività didattica sul campo, offerta agli studenti dei corsi universitari in materie giuridiche, al sostegno informativo ai detenuti" ha spiegato Anastasia.
Il progetto degli sportelli per i diritti promossi dal suo ufficio "vuole mettere in rete le esperienze esistenti e promuoverne dove ancora non ci sono, per estendere e qualificare il sostegno alle persone detenute nel riconoscimento dei diritti garantiti dell'ordinamento penitenziario, dalle leggi e dalle politiche regionali".
Attualmente sono già attivi sportelli nelle carceri di Regina Coeli, Rebibbia Femminile e Cassino "ma non a Rieti, Rebibbia Penale, Civitavecchia e Frosinone" ha aggiunto Anastasia. L'idea è quella di mettere "in rete esperienze vecchie e nuove e consentirà al Garante di avere una presenza continua a qualificata dentro tutti gli istituti penitenziari, valorizzando ciò che università e associazioni già fanno e poterle attivare in altre realtà dove non sono presenti".
Con il bando aperto lo scorso 14 gennaio sono stati affidati all'Università di Cassino, al dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre e all'Arci di Viterbo rispettivamente gli sportelli che saranno attivi peso gli istituti penitenziari di Cassino, Frosinone e Paliano, Regina Coeli, Rebibbia Femminile, Rebibbia Penale e Rebibbia III Casa circondariale, Civitavecchia, Rieti e Viterbo. Prossimamente saranno messi a bando gli sportelli per Latina e Velletri. I responsabili, al termine della presentazione, hanno firmato l'accettazione dell'affidamento che durerà un anno e sarà rinnovabile in seguito a una nuova gara pubblica.
Queste strutture svolgeranno un'attività di sostegno ai detenuti che ne faranno richiesta, per la risoluzione delle problematiche individuali, attraverso un'azione di informazione e ausilio nella redazione di istanze a firma propria. Gli sportelli comunicheranno al Garante i casi in cui sia necessario interloquire con i responsabili delle amministrazioni pubbliche o le Autorità competenti nella risoluzione della problematica emersa e dovranno sottoporre tempestivamente al Garante tutte le questioni di natura generale relative all'istituto emerse nel corso dello svolgimento dell'attività, relazionando almeno trimestralmente sullo stato di soddisfazione delle persone detenute in carcere.
"È un grande lavoro rispetto a una sinergia tra istituti, cooperative, volontariato e il mondo che da sempre lavora nelle carceri" ha commentato Cangemi. "Questo progetto diventerà un centro di ascolto oltre che di punto di informazione".
Per il provveditore Cantone "l'impegno siglato oggi è importante perché ruota attorno alla comunicazione. Nelle carceri del Lazio c'è un problema importante di valorizzazione della comunicazione. Quando le persone di sentono dire le cose che li riguardano di terza mano poi scoppiano i problemi, come è accaduto con i fatti dell'8 e il 9 marzo", quando i detenuti hanno appreso della sospensione dei colloqui a causa dell'emergenza Covid senza esserne stati avvisati. "In un paese civile non si fa così", ha aggiunto Cantone. "C'è bisogno di comunicazioni autorevoli e non di notizie di quarta o quinta mano".
Intanto, la presentazione del progetto è stata occasione per parlare di un altro problema nelle carceri del Lazio e, più in generale, in quelle italiane. In particolare nel Lazio al 30 giugno sui 4.579 posti disponibili nei 14 istituti penitenziari del territorio la popolazione detenuta è pari a 5.762 persone, delle quali 2.233 stranieri, e anche con il picco minimo di 5.689 registrato a maggio si era comunque sopra la soglia massima. Tranne le case circondariali di Paliano, Civitavecchia Passerini, Rebibbia, Rebibbia Terza Casa e Frosinone, in tutte le altre ci sono più carcerati che letti effettivamente disponibili.
Con alcuni picchi significativi resi noti dal Garante dei Detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: "Sono stato nel carcere di Latina un mese fa e ha un sovraffollamento del doppio della sua capacità. È pensato per 70 detenuti e ce ne sono 150. Due giorni fa sono stato a Regina Coeli ed è di nuovo ai livelli preCovid, ha più di 1000 detenuti quando ne può tenere 600. Immaginate quali condizioni di sicurezza sanitaria possano esserci e anche quelle di prevenzione, come il famoso distanziamento. E in questa situazione è difficile spiegare ai detenuti perché ci sono tutte quelle cautele, ad esempio nei colloqui con i familiari, e poi in cella stanno in 5 o 6.
Dieci giorni fa sono stato a Cassino e in stanze di 16 metri quadrati c'erano 7 persone, quando sono state progettate per 3". Le restrizioni previste per il Covid restano: "I detenuti possono fare i colloqui solo in presenza una volta al mese con il divisorio di plexiglass senza potere neanche tenere per mano la moglie e spesso senza potere vedere i figli, perché il colloquio è consentito a una sola persona". La notizia degli sportelli è stata commentata anche da Marta Bonafoni, capogruppo della Lista Civica Zingaretti: "Un risultato che riconosce la dignità, le possibilità e i diritti e che va a statuire quello che è il senso di uno Stato di diritto, attraverso misure a sostegno della giustizia e dell'equità, che mai dovrebbero essere messe in discussione".
parmadaily.it, 17 luglio 2020
Il problema principale delle carceri emiliano-romagnole è un sovraffollamento in perenne crescita, probabile causa di molte delle altre criticità della vita negli istituti penitenziari lungo la via Emilia. Il dato è emerso dalla relazione annuale svolta oggi da Marcello Marighelli, Garante regionale per le persone ristrette e private della libertà, nel corso dell'audizione nella Commissione Parità presieduta da Federico Alessandro Amico. Marighelli ha tratteggiato una chiara situazione delle carceri emiliano-romagnole e riassunto con dovizia di particolare l'attività del Garante regionale svolta nel 2019.
Un lavoro certosino e puntuale che si è concentrato soprattutto su due temi: la salute in carcere e l'avviamento al lavoro, attività a cui si sono affiancati alcuni convegni pubblici che il Garante ha realizzato coinvolgendo le forze vive della società emiliano-romagnola e i vertici di più istituzioni, a partire dall'Assemblea legislativa regionale.
"È stato difficile concentrarsi sulla relazione per il 2019 nel pieno della pandemia da Coronavirus di quest'anno, ma, visto l'importante lavoro fatto, è giusto renderne conto", spiega Marighelli che auspica un ritorno alla normalità dopo il Covid-19: "Speriamo che si ritorni alla piena attività per quanto riguarda educazione, volontariato, formazione: i segnali positivi in questa direzione- sottolinea- ci sono già".
Scorrendo i numeri resi noti da Marighelli si vede come il numero delle persone recluse sia in crescita: in dodici mesi si è passati dai 3.554 del 2018 ai 3.834 del 2019. Le donne detenute sono 155, mentre gli stranieri sono 1.930.
Le strutture carcerarie ospitano mediamente il 137% di persone in più di quelle che dovrebbero, con la sola eccezione di Castelfranco Emilia dove gli ospiti sono il 37,5% della capienza della struttura. "Nel 2019 sono stati 15 i bambini che sono stati nelle carceri della nostra regione, con una permanenza che è andata da poco meno di una settimana fino, per un caso, a 10 mesi", sottolinea il Garante per il quale "in Emilia-Romagna non è presente alcuna delle strutture individuate dalla legge ed è necessario porre termine ad una situazione che non rispetta i diritti dei bambini e delle madri: sto seguendo da tempo la situazione e con la Garante dell'Infanzia intendo concertare un'iniziativa per realizzare una casa-famiglia protetta che possa ospitare 2 o 3 bambini con le loro madri per brevi periodi".
"Il Coronavirus ha complicato di molte le cose: ci siamo attivati con le altre Istituzioni per fare il possibile per contrastare i contagi e aiutare le persone in questa difficile situazione e ora dovremo affrontare la Fase 2", spiega Marighelli che ricorda come dopo aver provato in più realtà i collegamenti via Skype per assicurare i colloqui dei detenuti con i propri famigliari nel periodo top della pandemia, ora sarà difficile cancellare queste innovazioni tecnologiche per tornare "al telefono a gettone".
La situazione di sovraffollamento, la scarsità di lavoro, la presenza di molti stranieri con poche possibilità di avere un permesso di soggiorno a fine pena, sono probabilmente alla base di un crescente disagio della popolazione detenuta. Sono numerosi gli atti di autolesionismo (1.381 totali, di cui 1.085 compiuti da stranieri), i tentati suicidi (137 totali, di cui 108 compiuti da stranieri) e 4 i suicidi (di cui uno riguarda un detenuto straniero).
In questa cornice complessa, l'attività del Garante è stata netta e puntuale: 100 colloqui (di cui 74 a richiesta e 195 segnalazioni dagli Istituti penali), 36 sono le visite in istituti penitenziari, grande attenzione alle strutture per minori e per chi ha problemi sanitari specifici e per l'Hub di via Mattei (visitato già tre volte dal Garante con la conferma che, dopo le tensioni del decennio scorso, la situazione è in via di stabilizzazione) e il tema dell'avviamento al lavoro per assicurare a chi ritrova la libertà non solo una fonte di reddito, ma quella dignità necessaria per trovare la forza di non ricadere negli stessi errori che hanno contribuito alla reclusione. Di notevole spessore culturale, inoltre, l'attività di studio, convegnistica e le pubblicazioni curate dal Garante e dal suo Ufficio.
- Tre italiani su quattro favorevoli all'eutanasia
- Lucera (Fg). "I libri hanno le ali", consegnati volumi destinati ai detenuti
- Parma. Il nuovo direttore del carcere è Valerio Pappalardo
- Gradisca d'Isonzo (Go). Cpr, indagini in corso sulla morte di un giovane albanese
- Campania. Poggioreale e S. Maria Capua Vetere, altri due suicidi in cella in 24 ore