La Stampa, 16 luglio 2020
Il post su Facebook aveva la forma di un versetto del Corano. Inascoltati gli appelli di Amnesty International. Condanna a sei mesi di carcere per la blogger tunisina Emna Charqui, riconosciuta colpevole di "incitamento all'odio tra religioni" da una corte di Tunisi. Due mesi fa, su Facebook, aveva condiviso un post satirico sul Covid-19 scritto sotto la forma di un versetto del Corano. La blogger 28enne, agli arresti da maggio, si è difesa assicurando di non aver voluto offendere nessuno ma soltanto far ridere. Charqui ha già detto che farà appello alla sentenza.
Lo scorso 2 maggio la blogger ha condiviso un post che imitava un versetto del Corano: in risposta alla pandemia di coronavirus, il testo invitava la gente a lavarsi le mani e osservare il distanziamento sociale, seguendo le regole del testo sacro dell'Islam. In quei giorni era ancora in corso il Ramadan e la Tunisia stava osservando un lockdown molto restrittivo.
In origine l'immagine e il testo erano stati pubblicati da un cittadino algerino ateo che vive in Francia. L'immagine e il contenuto scritto del post hanno scatenato polemiche sui social, denunciati come "offensivi" da decine di utenti, che hanno chiesto alle autorità di punire Charqui, dichiaratamente atea. Pochi giorni dopo la polizia ha interrogato la giovane blogger, aprendo la strada alla sua formale incriminazione. Il 27 maggio Amnesty International ha chiesto alle autorità tunisine di non processarla: un appello rimasto inascoltato. "La messa in stato di accusa di Emna è un'ulteriore riprova che in Tunisia, nonostante progressi democratici, le autorità continuano ad utilizzare la legge repressiva per attaccare e minare la libertà di espressione" ha denunciato Amna Guellali, direttore Amnesty per il Nord Africa.
di Gabriella Colarusso
La Repubblica, 16 luglio 2020
Twitter si scatena per salvare tre ragazzi condannati per aver preso parte alle proteste dello scorso autunno contro il carovita. Amirhossein Moradi, Saeed Tamjidi e Mohammad Rajabi hanno poco più di 20 anni. Sono in carcere in Iran dallo scorso novembre e ieri la Corte suprema ha confermato per loro la condanna a morte. Le accuse: "vandalismo" e "atti di guerra" contro il regime perché, durante le proteste scoppiate in decine di città iraniane lo scorso autunno contro l'aumento del prezzo del carburante, avrebbero assaltato un distributore di benzina e passato le immagini delle manifestazioni ai giornali internazionali.
Amnesty ha definito il processo a loro carico ingiusto e gli avvocati dei tre ragazzi hanno scritto una lettera pubblica per denunciare che le confessioni sono state estorte loro con la violenza. Il caso ha scatenato un'ondata di proteste sui social media iraniani contro l'esecuzione dei tre manifestanti e contro la pena di morte a cui l'Iran fa ricorso come nessun altro Paese al mondo, fatta eccezione per la Cina.
L'anno scorso le esecuzioni sono state almeno 251, dice Amnesty. Da 24 ore in cima alle tendenze di Twitter c'è l'hashtag in persiano "Non giustiziateli", alla campagna per fermare l'esecuzione si sono unite migliaia di persone, dentro e fuori dall'Iran, cittadini comuni e personaggi noti come il regista premio Oscar Asghar Farhadi o il calciatore Hossein Mahini, difensore molto amato del Persepolis e della nazionale iraniana.
La fashion blogger Mojgan Rezaei, che su Instagram ha più di 200mila follower, ha scritto: "Ogni vita umana è preziosa. #DontExecute", a lei si è affiancata anche l'attrice Taraneh Alidoosti e su Twitter si è fatta sentire anche l'ex parlamentare Parvaneh Salahshouri, che dopo le proteste di novembre fece un discorso durissimo all'Assemblea iraniana accusando il regime di non ascoltare le esigenze della popolazione stremata dalla crisi economica e denunciando la repressione. Salahshouri promise che non si sarebbe più candidata. Più di 5 milioni di tweet per fermare le esecuzioni
La campagna online ha unito tantissime persone di provenienze diverse. Amir Rashidi, che è un ricercatore digitale iraniano e studia l'attivismo online da diversi anni, ci dice che non ha mai visto niente di simile. "Le persone in Iran normalmente hanno paura di partecipare a campagne online perché ci sono innumerevoli casi di cittadini che sono stati arrestati per un tweet. Questa volta sembra che non si stiano curando del rischio: stanno chiedendo a gran voce, come una sola voce, di fermare le esecuzioni. Davvero notevole".
In passato ci sono state altre campagne digitali molto partecipate, in occasione per esempio dei negoziati sul nucleare o per la liberazione di prigionieri politici, "Ma a questo genere di mobilitazioni le persone comuni di solito non partecipano", ci spiega Rashidi, "sono soprattutto attivisti, giornalisti difensori di diritti umani a farsene carico. Questa volta invece la campagna è partita dagli iraniani e da dentro l'Iran".
L'hashtag "non giustiziateli" ha ricevuto più di 5 milioni di tweet, dice Rashidi. La pressione social è tale che le squadre cyber del regime hanno cominciato subito la contropropaganda con l'hashtag "giustiziateli". Martedì pomeriggio, secondo i dati di Netblocks, ci sono state diverse interferenze e interruzioni nella connessione internet in Iran, e molti si sono preoccupati: durante le proteste a novembre il governo lo spense per quasi sei giorni, tenendo il Paese isolato dalla rete globale pur di non far uscire informazioni.
Alle proteste di novembre, che furono concentrate soprattutto nelle province e nelle zone rurali e a cui parteciparono in massa giovani disoccupati e ceti popolari stremati dalla crisi economica, il governo iraniano rispose con la mano durissima. Le organizzazioni per i diritti umani parlano di almeno 500 morti, secondo la Reuters furono addirittura 1.500. Le manifestazioni furono le più imponenti da anni, con episodi anche violenti contro uffici governativi, e coinvolsero una fetta di popolazione più conservatrice e restia a scendere in piazza, in buona parte la base elettorale e di consenso del regime.
Il rischio è che la rabbia riesploda. La situazione economica in Iran è molto difficile, il rial ha perso più del 30% del suo valore dall'inizio dell'anno, le sanzioni americane hanno ridotto al minimo le esportazioni di petrolio e i cittadini accusano il governo di corruzione e inefficienza. Il presidente Rouhani ha dovuto riaprire prima del tempo le città - dopo aver introdotto misure di confinamento per il Covid già molto blande - perché l'economia del Paese non può permettersi nuovi stop. Nei palazzi del potere si teme una nuova ondata di proteste, e anche una campagna online può funzionare da miccia. Le esecuzioni di tre ventenni sono un messaggio molto chiaro per chiunque pensasse di tornare di nuovo in strada a protestare.
di Francesco Bolognese
ilreggino.it, 15 luglio 2020
L'interessante iniziativa è finalizzata a costituire e rafforzare le reti territoriali dei servizi di inclusione sociale, con riferimento a particolari categorie di soggetti a rischio di devianza. Nascere e crescere in un contesto familiare di 'ndrangheta o con essa colluso induce, come dimostrano centinaia di sentenze passate in giudicato, tanti figli (minori e non) a seguire le orme paterne, a percorrere gli stessi circuiti criminali, a scalare con tenacia (quasi fino alla "scissione") la "gerarchia mafiosa" per fregiarsi di quei "galloni" che darebbero "rispetto" (sic). Ed invece danno il carcere, sin dall'adolescenza. Talvolta anche la vita!
di Giovanni M. Jacobazzi
Il Dubbio, 15 luglio 2020
Aperture bipartisan sul testo bocciato in Aula un anno fa. Prove di "larghe intese" fra governo e Forza Italia sulla giustizia. Il punto d'incontro potrebbe essere raggiunto a breve sulla proposta di legge in materia di valutazione disciplinare dei magistrati a seguito di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione.
di Errico Novi
Il Dubbio, 15 luglio 2020
Il "Sindacato" convoca per settembre un'assemblea che può aprire il conflitto col governo. Il momento per la magistratura non è facile. Forse è peggiore di quello vissuto un anno fa, all'esplosione del caso Palamara. Ora si profila l'ondata di ritorno sollevata da quella vicenda, sotto forma di riforme non proprio indolori per le toghe. Ci sono almeno tre fronti aperti a preoccupare l'Anm. Innanzitutto la riforma del Consiglio superiore, con le ipotesi di sorteggio (temperato) tutt'altro che sepolte, dopo il parere favorevole espresso persino da togati di Autonomia e Indipendenza, una corrente degli stessi magistrati, e visto il pressing di Forza Italia.
di Virginia Piccolillo
Corriere della Sera, 15 luglio 2020
Ai giudici la Costituzione garantisce l'indipendenza dal potere politico, proprio perché le sentenze devono considerare la legge come unico metro di riferimento. Ed è più difficile farlo quando hai rapporti stretti con gli altri poteri dello Stato. A giudicare la legittimità degli atti della pubblica amministrazione contro possibili abusi ai danni delle imprese o singolo cittadino, ci pensano i Tribunali amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato. L'organo di primo grado è il Tar, con sede nei 20 capoluoghi di regione, più nove sezioni staccate. Il contenzioso è vario: dalle gare d'appalto alle delibere urbanistiche, dai concorsi, ai provvedimenti delle Autorità garanti, fino al ritiro dell'arma o al "no" alla regolarizzazione dell'extracomunitario.
di Gian Carlo Caselli
Corriere della Sera, 15 luglio 2020
L'ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione è nel nostro sistema un elemento di garanzia irrinunciabile. Caro direttore, contraddizione, anche aspra, fra giustizia e politica c'è in tutte le democrazie moderne. Lo "specifico" del caso Italia (oltre alla tenace persistenza della corruzione e di collusioni con la mafia) sta nella pretesa di molti politici di sottrarsi alla giustizia comune in forza del consenso ricevuto (mentre la responsabilità politica e morale è stata relegata in soffitta).
Ci sono poi le campagne organizzate contro i magistrati "scomodi" che osano applicare la legge in maniera uguale per tutti. Con sullo sfondo una "inefficienza efficiente", vale a dire l'irredimibile agonia di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che non vogliono mai pagare dazio. Un'inefficienza che di fatto serve anche a "limare le unghie" della magistratura.
È all'interno di queste specificità che va inserito il dibattito sulla "separazione delle carriere" fra magistrati del pubblico ministero e giudicanti, per poter cogliere, al di là dei proclami, l'essenza del problema. Forse un capitolo della strategia di mortificazione della magistratura? Oppure un modo per - se non impedire - almeno sterilizzare l'esercizio indipendente della giurisdizione?
Sia chiaro: differenziare Pm e giudici è una necessità, per ragioni di sostanza e di immagine. Occorre evitare commistioni improprie. Chi è stato Pm non può comparire il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale in cui ha esercitato per anni funzioni requirenti (o viceversa). Ma questa è la separazione delle funzioni, che nel nostro ordinamento è ormai acquisita. Ben diversa è la separazione delle carriere, che postula due diversi concorsi di "reclutamento", due diversi Csm e carriere (appunto) separate fra Pm e giudici.
Chi si batte per questa opzione è convinto che i giudici non controllano con sufficiente rigore l'operato dei Pm perché sono colleghi (fa tendenza la semplificazione del caffè preso insieme al bar...), mentre uno "status" separato li libererebbe dai condizionamenti dell'accusa arginando lo strapotere di quest'ultima. Affermazione tanto suggestiva quanto errata: se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione e di "appartenenza" tra controllori e controllati, ad essere separate dovrebbero essere piuttosto le carriere dei giudici di appello e quelle dei giudici di primo grado... Ma nessuno può ragionevolmente proporlo.
Per vero, senza nulla togliere alla peculiarità delle funzioni del Pm, è evidente come il suo ancoraggio alla cultura della giurisdizione sia, nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile. Che con la separazione delle carriere sarebbe inevitabilmente travolto, perché il Pm verrebbe attratto in una diversa orbita. Quale?
Le strade sono due. La prima sfocia nella creazione di una sorta di inedito potere: una casta ristretta di magistrati inquirenti, autonomi, non assoggettati a controlli esterni. Sarebbe però un "monstrum" inaccettabile, mai visto in nessuno stato democratico (paradossalmente proprio quel "partito dei Pm" di cui taluno favoleggia per sostenere la separazione). L'altra strada che si apre ad un corpo separato di Pm porta, inesorabilmente, a perdere l'indipendenza dal potere esecutivo.
Tra ordine giudiziario ed esecutivo, infatti, non esiste un "tertium" dotato di autonomia. E ciò per un ragionamento istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente. Con il rischio che di indagini sulla corruzione o sulla zona grigia o sui misteri dei servizi deviati non se ne facciano più. Il che, magari, consentirebbe a qualcuno di proclamare la scomparsa della corruzione, delle collusioni con la mafia e delle deviazioni. Ma sarebbe una falsità. Estremamente pericolosa.
Il Pm legato alla cultura della giurisdizione è un magistrato - con tutti i suoi limiti ed errori - che ricerca la verità processuale come "parte pubblica". Vede quello che scienza e coscienza gli impongono di vedere. Magari senza entusiasmo, perché a nessuno piace sapere che gli arriveranno addosso palate di fango sol perché fa il proprio dovere. Ma è proprio questo il modello di magistrato (non burocrate né conformista) che dà fastidio a chi preferisce i "servizi" alle decisioni imparziali. Per cui, se la separazione delle carriere è incompatibile con tale modello, chiederla è contro l'interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale.
di Annalisa Chirico
Il Foglio Quotidiano, 15 luglio 2020
Le rivelazioni sui colleghi dalle carriere facili. I 133 testimoni chiamati in causa per denunciare il correntismo. Una pazza chiacchierata con Luca Palamara. Lei è pronto per la politica. Nel centrodestra. "Non scherziamo", Luca Palamara si schermisce ma ci pensa. "In questo momento devo difendermi - dice la toga al centro dello scandalo nomine in una intervista al Foglio - Poi si vedrà: nella vita bisogna sempre farsi trovare pronti, e io ho accumulato un patrimonio di conoscenze, certo".
Si sente il capro espiatorio, quello che paga per tutti perché nessuno paghi. "Quello che hanno fatto a me può capitare a chiunque - prosegue Palamara - Gli ultimi dieci anni mi hanno certamente allontanato dalla giurisdizione, mi sono occupato di altro, ero nell'epicentro di un sistema clientelare e ho gestito il potere. Ho maturato esperienze politiche e associative che hanno trasformato sensibilmente il mio ruolo". Lei può essere il testimonial perfetto del magistrato redento. "La politica attiva rappresenterebbe un percorso del tutto nuovo, in questo momento devo concentrarmi sulla difesa, poi si vedrà".
Lei ha le ore contate nella magistratura: lo sa, vero? "Siamo in uno stato di diritto: voglio far emergere la verità utilizzando gli strumenti che l'ordinamento mi mette a disposizione". La carica dei 133: tanti sono i testi da lei convocati davanti alla sezione disciplinare del Csm, e alcuni nomi servono ad avvalorare la tesi che le condanne a carico di Silvio Berlusconi siano state politicamente orientate. "Non voglio usare frasi a effetto ma certi fatti e vicende vanno chiariti".
Proprio lei così antiberlusconiano. "Non sono mai stato anti o pro qualcuno, né ho mai coltivato ostilità nei confronti dell'ex presidente del Consiglio. Quando ero alla guida dell'Anm, era mio preciso dovere difendere l'indipendenza della magistratura. Ho sempre cercato di agire seguendo ciò che istinto e ragione mi suggerivano". Il suo amico Nicola Zingaretti è sparito? "Sparito".
Neanche una telefonata? "Penso che abbiano paura di chiamarmi dopo la storia del trojan". Il Cavaliere potrebbe arruolarla come l'ex toga che apre il vaso di Pandora e conferma tutto ciò che l'ex premier sostiene da una vita a proposito dei magistrati politicizzati. "Che certi colleghi siano mossi dal pregiudizio politico è fuor di dubbio. È una preoccupazione fortemente sentita tra gli stessi magistrati". Su whatsapp lei apostrofava l'allora vicepremier Matteo Salvini con un linguaggio da trivio, paragonandolo a un escremento.
"La frase è stata totalmente decontestualizzata, continuo a dubitare di averla mai pronunciata. Poi, lei lo sa, nei messaggi si tende ad accorciare le frasi, a contrarre i pensieri, cullandosi nell'illusione di esercitare il diritto costituzionale alla segretezza delle comunicazioni. Quella espressione non la ripeterei per nessuna ragione al mondo". Dalle chat emerge che nell'agosto 2018 lei condivideva l'azione politica del ministro dell'Interno sul fronte immigrazione ma riteneva che andasse comunque attaccato.
"Alcuni magistrati erano particolarmente esposti nel dibattito pubblico in ragione delle iniziative giudiziarie intraprese. Era mio dovere difendere l'indipendenza della magistratura pur ribadendo un principio: mai dobbiamo dare l'idea di una magistratura pregiudizialmente orientata". Lei è pronto per la politica. "In questo momento non spetta a me dare suggerimenti o indicazioni di sorta".
In questo momento, non sia mai. "In una democrazia la politica deve avere il coraggio di decidere. E ogni potere deve esercitare il ruolo che la Costituzione gli assegna senza travalicare il proprio perimetro". A sette giorni dall'udienza che si terrà il 21 luglio, non si conoscono ancora i componenti della sezione disciplinare che dovrà giudicarla. A Palazzo dei marescialli la voglia di celebrare 'sto processo è poca. "Mi dispiace ma io andrò avanti e non intendo fermarmi. Nutro profonda amarezza per i cittadini che assistono a questo scempio e per i magistrati che negli anni sono rimasti ingiustamente esclusi da questo meccanismo".
Lei sostiene che, se in magistratura non sei iscritto a una corrente, non vieni promosso. "Confermo: senza una corrente che ti sostiene, non fai carriera. Glielo dico meglio: solo se sei iscritto a una corrente puoi fare carriera. La magistratura deve recuperare credibilità, e se qualcuno vuole far credere che sia tutta colpa di Palamara si sbaglia di grosso". La carica dei 133: tante persone, con ruoli diversi, in un unico calderone. C'è il rischio che l'istinto autodifensivo si trasformi in foga distruttiva? Della serie: muoia Sansone con tutti i Filistei. "La lista testi non è pensata contro qualcuno". Ma sembra finalizzata a una gigantesca e generalizzata operazione di sputtanamento. "È uno strumento indispensabile per la mia difesa. Devo difendermi nei modi consentiti dall'ordinamento. Lo devo fare per ristabilire la verità dei fatti. Io so con certezza una cosa: non ho mai barattato alcuna nomina con gente esterna alla magistratura, né privati cittadini né politici".
Tra i testi compare Stefano Erbani, consigliere giuridico del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e anello di collegamento tra il Quirinale e il Csm. Palamara scassa tutto? "Non è nei miei intendimenti". Il capo dello Stato presiede il Csm. "Ci sono situazioni molto sensibili, anche a livello istituzionale".
A proposito dell'indagine che la vede coinvolto a Perugia, lei accredita la tesi del complotto. Anzi, del disegno superiore: quale? "Mi lasci dire che la cosa per me più importante è che l'ipotesi corruttiva, legata all'accusa infamante di aver ricevuto 40mila euro per una nomina, è caduta per decisione degli stessi pm di Perugia. Per il resto, mi limito a notare che il trojan installato sulla mia utenza doveva servire a individuare un episodio di corruzione smentito dagli stessi magistrati.
In compenso, si sono scoperti gli accordi tra due gruppi associativi, Unità per la Costituzione e Magistratura indipendente, offrendo un quadro sicuramente parziale di ciò che avveniva all'interno della magistratura. Non sappiamo, ad esempio, di che cosa discutessero gli altri gruppi e consiglieri. Anche se il Corriere della sera ha ventilato alcune ipotesi". Quali? "L'ufficio di Roma non voleva l'arrivo di Marcello Viola come procuratore capo". Lei si riferisce alla tribolata successione di Giuseppe Pignatone, suo capo e mentore e maestro. "Ci siamo reciprocamente sostenuti, lo scriva. Collaborazione reciproca". Nella guerra degli esposti incrociati il pm Stefano Fava ha mosso accuse pesanti a carico di Pignatone e di Paolo Ielo.
C'era il suo zampino dietro l'iniziativa di Fava? "Assolutamente no. È stata una sua iniziativa del tutto autonoma, e rispetto ad essa io mi sento totalmente estraneo all'addebito che mi viene contestato. Fava aveva problemi interni all'ufficio in relazione alla gestione di un fascicolo, ha deciso autonomamente di rivolgersi al Csm. Lo dimostrerò nel processo". Intanto il suo rapporto con Pignatone si è interrotto bruscamente.
E i suoi sogni da procuratore aggiunto a Roma sono andati in frantumi. "Con il senno di poi, penso che se, all'epoca, non avessi coltivato quella che era una mia legittima ambizione, molte cose non sarebbero accadute. E se, dopo la stagione al Csm, non fossi rientrato a piazzale Clodio, luogo che consideravo e considero tuttora la mia seconda casa, molte cose non sarebbero accadute".
Quando si è rotto il sodalizio con l'ex procuratore capo? "Ci sono state fondamentalmente grandi incomprensioni. Dal momento del mio ritorno in procura nel gennaio dello scorso anno, ho percepito che qualcosa era cambiato, e non riuscivo a capire cosa. Con Pignatone avevo avuto un rapporto di strettissima collaborazione che si stava sgretolando, e non ne capivo le ragioni". Nel mezzo c'è l'inchiesta Consip. Forse i suoi rapporti confidenziali con alcuni soggetti coinvolti, come Luca Lotti, possono aver inciso.
Non crede? "Io ho sempre seguito una stella polare: le indagini della magistratura competono solo ed esclusivamente alla procura della Repubblica, quando c'è un'indagine non c'è amicizia che tenga. I fatti vanno valutati con obiettività ed imparzialità". Lei insinua che la procura di Roma abbia mancato di obiettività nella vicenda Consip? "Ci sono dei procedimenti in corso, soltanto in quella sede si potrà chiarire".
Tra i testi convocati davanti alla sezione disciplinare, compaiono ufficiali e sottufficiali del Gico della Finanza. "Dovranno spiegare perché il trojan funzionava a intermittenza. Sto ascoltando personalmente i 3500 file audio collezionati, tutti momenti della mia vita privata e privatissima, financo intima e mi fermo qui. Non è piacevole, soprattutto quando scopri che in talune situazioni, in taluni incontri, le registrazioni si interrompono inspiegabilmente". Sono registrati i colloqui tra lei e Cosimo Ferri, coperto dall'immunità; altre volte invece il trojan non registra, per esempio la sera del 21 maggio 2019 quando lei incontra l'allora pg della Cassazione Riccardo Fuzio. Secondo i bene informati, in quell'incontro ci sarebbero riferimenti al ruolo della presidenza della Repubblica.
"Non posso aggiungere altro. Ribadisco che non riesco a comprenderne la ragione. Il trojan, e lo dico da pm, funziona come una cimice che registra un segmento di vita senza interruzioni. Voglio andare a fondo". Tra gli incontri registrati, c'è la cena a casa del procuratore aggiunto Ielo in cui, insieme ad altri colleghi, parlate anche di nomine e incarichi. "È la dimostrazione che i miei rapporti interni alla procura erano idilliaci, da sempre improntati al massimo rispetto, anche nei confronti di chi ha svolto indagini a mio carico. Dietro le iniziative di Fava non c'è la regia Palamara: io mi sono limitato a riportare gli episodi che lui mi riferiva".
Lei ha esercitato un enorme potere, e il potere corrompe. "Chi ha vissuto con me quegli anni sa benissimo che ero soltanto uno dei protagonisti degli accordi, non agivo da solo ma insieme agli esponenti dei vari gruppi associativi, cercando sempre di trovare una sintesi con la componente laica e i partiti politici di riferimento. Se c'era da nominare il procuratore capo di Milano che doveva essere di Area, cercavo di assicurare alla mia corrente la nomina di Bologna. Bisognava rispettare un principio di equilibrio all'interno della magistratura e tra gli uffici giudiziari. L'equilibrio è tutto: questo è Palamara".
Il Csm con Giovanni Legnini vicepresidente ha portato a compimento una vasta opera di rinnovamento, con centinaia di nomine, anche in conseguenza dell'abbassamento dell'età pensionabile. "Abbiamo affrontato una fase complicata, di sfrenato carrierismo. Già nel 2007, l'abolizione del criterio di anzianità, in un mondo dominato dall'idea che il più bravo era sempre e comunque il più vecchio anagraficamente, ha portato un cambiamento profondo. Non è stato facile, nelle centinaia di valutazioni che abbiamo effettuato, bilanciare il merito, il profilo professionale, con l'esigenza di fare scelte equilibrate rispetto al peso delle correnti.
Non è colpa mia se le correnti hanno perso ogni traccia di idealità e si sono ridotte a centri clientelari. Io mi sono ritrovato nell'epicentro di questa logica clientelare". Ne viene fuori un mercato delle nomine indecoroso, lei se ne occupa in maniera compulsiva. Come fanno i cittadini a fidarsi di questa giustizia? "I cittadini devono sapere che l'assegnamento degli incarichi direttivi non ha nulla a che fare con l'esercizio imparziale della giurisdizione".
Facile a dirsi. "È la stessa differenza che passa tra un leader sindacale, con funzione di rappresentanza, e il lavoratore che manda avanti la macchina". La carica dei 133 sembra la mossa estrema di chi sa di avere le ore contate nella magistratura dalla magistratura e annuncia: aprés moi le deluge.
"La mia vicenda descrive il meccanismo di funzionamento del sistema correntizio: i vari attori dialogano tra loro ma la decisione finale compete solo e soltanto al Csm. Io mi occupavo con altri della fase preparatoria, necessaria per coagulare il consenso su un candidato. La scelta finale la prendevano tutti i consiglieri seduti nella sala 42". Il suo telefono ha smesso di squillare.
"È l'ultimo dei miei problemi. La storia delle intercettazioni ha alimentato un panico diffuso". Lei ha convocato pure due ex Guardasigilli convocati, Giovanni Maria Flick e Andrea Orlando? "Con il secondo ho condiviso momenti importanti da presidente dell'Anm e da consigliere del Csm. Flick, da profondo conoscitore del sistema, potrà confermare l'esistenza di una prassi costante e di lunga data". Glielo lasceranno celebrare 'sto processo? "Non lo so, me lo auguro".
di Bruno Ferraro*
Libero, 15 luglio 2020
La digitalizzazione è stato uno degli obiettivi primari degli ultimi governi ed è considerata una necessità del Paese, per essere al passo dei tempi e dei Paesi più avanzati in tale campo. E ancora da capire però se e in che misura è perseguibile nel settore giudiziario, stante la peculiarità dei nostri sistemi processuali.
Negli anni Settanta un consulente tecnico giustificava la scrittura a mano e non a macchina della relazione affermando a giustificazione l'intento "di non far conoscere i segreti della giustizia alla sua segretaria"! Personalmente, da presidente del Tribunale di Cassino, con la determinante collaborazione di un giovane magistrato e di un cancelliere autodidatta, realizzai a metà degli anni novanta il primo sito Intenet di un ufficio giudiziario italiano: attuammo anche il primo esempio di un'udienza tenuta dallo stesso magistrato stando a casa, con gli avvocati in tribunale, ma, dopo dieci anni e quando da cinque ero andato a dirigere un altro tribunale, figuravo ancora per mancato aggiornamento come presidente a Cassino!
Ho citato i due episodi per sottolineare che l'informatizzazione ha suscitato un grande fascino sui pionieri; da tempo è una filosofia sposata da tutti o quasi; consente di automatizzare i flussi informativi e documentali tra utenti esterni (avvocati, consulenti) ed uffici giudiziari; rende possibile per gli avvocati depositi ed iscrizioni a ruolo in modo automatico; velocizza i tempi di esecuzione delle attività manuali dei cancellieri.
Tutto questo si è reso possibile in conseguenza degli interventi operati dal ministero della Giustizia a partire dal 2001, passando per l'istituzione nel 2009 della posta elettronica certificata (Pec) per la trasmissione degli atti processuali, le comunicazioni e le notificazioni degli atti; con la legge di stabilità del 2013 si è dato corso, a partire dai fascicoli iscritti dopo giugno 2014, all'obbligatorio invio degli atti processuali.
La connessione in rete di tutti gli uffici giudiziari (cosiddetta Rug) e la soluzione dei fondamentali problemi di sicurezza e protezione dei dati hanno richiesto costi notevoli ed impongono oneri economici non indifferenti per gestione e manutenzione. Può essere non lontano il traguardo della totale dematerializzazione dei fascicoli processuali, con la completa sparizione del cartaceo. E allora, perché restano dubbi e perplessità?
Disservizi, instabilità del sistema, carenza di assistenza, mancanza di un ufficio del giudice, mancanza di disciplina dei limiti di lunghezza degli atti di parte e relativi allegati, persistenza del vecchio attaccamento al cartaceo, non ancora attuata revisione di molte norme processuali non più compatibili con la realtà telematica. sono problemi di carattere tecnico-gestionale sui quali massimo dovrà continuare ad essere l'impegno del ministero. Alle perplessità appena accennate ne aggiungo due più di principio.
La qualità degli atti giudiziari, in particolare i provvedimenti dei giudici, ne risulterà diminuita, anche per il comodo adagiarsi su interpretazioni consolidate attraverso il copia-incolla? Per gli atti del civile e per il processo penale in cui conta il contatto diretto con i soggetti interrogati (imputati e testimoni), come temperare la rigidità della digitalizzazione?
*Presidente aggiunto onorario Corte di Cassazione
di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2020
Alla fine il riferimento ai margini di discrezionalità è rimasto, vincendo anche le perplessità del ministero della Giustizia. Nel testo del decreto legge sulle semplificazioni che, a più di una settimana dall'approvazione con l'ormai proverbiale formula "salvo intese", si avvia alla pubblicazione in "Gazzetta", si mette nero su bianco che la responsabilità penale scatta, con pena da 1 a 4 anni, nel caso di violazione di norme "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".
- Guida in stato di ebbrezza,assunzione di farmaci contenenti alcol non esclude responsabilità penale
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