Askanews, 19 gennaio 2015
Shin Dong-hyuk, fuoriuscito nordcoreano punta di diamante della campagna per i diritti umani nel regno dei Kim, s'è rimangiato una parte della storia che ha raccontata nel best-seller internazionale che l'ha reso famoso, "Fuga dal campo 14".
Il libro, che racconta le atrocità subite mentre era prigioniero sin da bambino del famigerato Campo 14, ha reso famoso il fuoriuscito. Tuttavia, secondo quanto racconta il New York Times, oggi Shin racconta che alcuni elementi chiave del suo racconto sono parzialmente veri e alcuni altri sono stati spostati nel tempo. La sua ammissione rischia d'indebolire anche altre testimonianze nella campagna per costringere Pyongyang a intervenire sull'atroce situazione dei diritti umani nel paese, recentemente oggetto di una campagna in sede Onu.
"Sono spiacente per molte persone" ha detto Shin, raggiunto al telefono negli Stati uniti, dove ha sposato una donna di origini coreane. "Io sapevo che non avrei potuto nascondere la cosa a lungo, ma avevo rimandato per evitare che la mia confessione danneggiasse il movimento per i diritti umani in Corea del Nord". Shin, che ha incontrato anche il segretario di Stato Usa John Kerry e ha contribuito a costruire la campagna per i diritti umani in Corea del Nord degli ultimi mesi.
Nel libro Shin racconta di essere nato e cresciuto nel Campo 14, di essere sopravvissuto alla fame, alle torture, di aver visto uccidere tutti i suoi familiari, di essere riuscito a scappare - unico caso registrato - dal campo passando sopra il corpo di un amico finito folgorato sul recinto elettrificato del campo. Ora, nella nuova versione, in realtà sarebbe scappato due volte dal meno pesante Campo 18, per essere ripreso, e poi fuggire ancora. Inoltre, torture che ha detto di aver ricevuto da bambino, sarebbero da situare più avanti nel tempo. Il co-autore del libro Blaine Harder, dal canto suo, ha cercato di giustificare Shin.
E lo stesso protagonista ha cercato di sostenere di non aver voluto "raccontare esattamente ciò che è accaduto per non rievocare questi momenti tristi". Tuttavia il danno è pesante. E anche la sua nuova versione pone dubbi. "Sta ancora mentendo" ha detto un ex detenuto del Campo 18 scappato dalla Corea del Nord, secondo il Nyt.
"Semplicemente - ha spiegato - non si può scappare due volte dal un campo di prigionia nordcoreano, come lui dice d'aver fatto, e restare ancora vivi e tentare di fuggire una terza volta, questa volta da una zona del tutto incontrollata". Un altro ex detenuto, Chung Kwang Il, ha detto di non capire perché Shin abbia mentito. "Senza dire di essere scappato dal Campo 14, aveva una grande storia da raccontare, era un buon testimone degli abusi dei diritti umani in Corea del Nord".
di Errico Novi
Il Garantista, 18 gennaio 2015
Una "candidatura". A cosa? "Ad andare avanti". La formula scelta da Rita Bernardini per rispondere alla provocazione di Angiolo Bandinelli gioca con un'espressione in apparenza sentimentale, che però allude a qualcosa di sostanziale e concreto. Sul Partito Radicale non incombe la mannaia dell'autodissoluzione, diversamente, dunque, da quanto Bandinelli ha sostenuto in un articolo pubblicato su questo giornale una settimana fa.
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 18 gennaio 2015
Anni di polemiche contro i costi di uno strumento percepito come "inutile", e ora che diventa essenziale, perché ne siamo sprovvisti. Esauriti i braccialetti elettronici e i detenuti rimangono in carcere. La richiesta per i detenuti da condannare agli arresti domiciliari ha ormai superato la disponibilità dei dispositivi, e alcuni tribunali iniziano a vedere respinte le loro richieste.
di Eugenio Terrani
Corriere della Sera, 18 gennaio 2015
Da pochi giorni il servizio mensa delle carceri di Rebibbia, a Milano - Bollate, Trani, Siracusa, Ragusa, Torino, Padova e Ivrea è di nuovo in gestione all'amministrazione penitenziaria dopo una sperimentazione di successo durata oltre un decennio.
di Agnese Moro
La Stampa, 18 gennaio 2015
Di solito in questa rubrica si parla di cose buone che vivono e vanno avanti. Questa volta devo fare un'eccezione; la cosa buona è quella che finisce. Leggo nel comunicato stampa del Consorzio Giotto, www.officinagiotto.com: "Il progetto di gestione della cucina della Casa di Reclusione di Padova chiude. E il primo pensiero va a tutti quelli che in questi 11 anni ci hanno seguito con affetto, sostenuto con forza, incoraggiato in ogni modo".
Adnkronos, 18 gennaio 2015
"Percepiamo la volontà di riforma di questo governo , se ne è parlato da subito e si sono date scadenze, ma ci vogliono risultati concreti che ancora purtroppo faticano ad arrivare". Lo ha sottolineato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, a margine dell'iniziativa organizzata al Tribunale di Roma in occasione della Giornata nazionale per la Giustizia. Per Sabelli si tratta di "cammino avviato, in qualche caso contraddittorio e che si basa spesso sugli annunci".
Adnkronos, 18 gennaio 2015
Il sempre più crescente interesse da parte dei talk show ai fatti di cronaca e ai processi ad essi legati rischiano "che il luogo della giustizia venga trasferito dalle aule dei tribunali negli studi televisivi, in una sorta di processo parallelo, dove non ci sono regole".
È quanto ha sottolineato il procuratore capo della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, nel corso di un dibattito pubblico su 'giustizia, poteri dello stato, cittadini sovranì, che si è tenuto al Palazzo di giustizia. Il convegno, cui hanno partecipato tra gli altri il presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro, il presidente della Corte d'appello Giovanni Canzio e, a sorpresa, l'ex magistrato Gherardo Colombo, ha chiuso una giornata dedicata ai cittadini.
Dalle 9 e 30, infatti, i portoni del Palazzo di giustizia si sono aperti ai milanesi che, con una serie di visite guidate, hanno potuto assistere ad alcuni processi per direttissima, visitare i locali della Procura, sedere tra i banchi della Corte d'Assise. "Il fatto che il pubblico possa assistere ai processi e alle udienze -ha sottolineato Bruti Liberati - è un aspetto di grande rilievo.
È un modo con il quale la giustizia si rende responsabile di fronte ai cittadini. Beccaria scriveva che il segreto è il più forte scudo della tirannia. Una riflessione ancor più attuale oggi. Per questo - ha concluso - l'informazione sulla giustizia è essenziale ma a volte nei talk show si esagera rischiando, appunto, di trasformarli in aule di tribunale".
di Maria Brucale
Il Garantista, 18 gennaio 2015
Scrive su Facebook Roberto Saviano all'indomani della scarcerazione dei fratelli Di Lauro, Ciro e Vincenzo, figli di Paolo Di Lauro, detenuto al 41 bis, detto "Ciruzzo 'o milionario": "Mi domando come Napoli li avrà accolti. Qualcuno avrà tappezzato la città di manifesti come quelli che circolavano quando andò in onda Gomorra La Serie? A Scampia ci saranno state riunioni e manifesti come quelli che furono fatti contro di me?".
Vede, caro Saviano, è un dato di fatto che Gomorra abbia reso al mondo solo un'immagine di degrado e di orrore di Scampia, tracciata anche sulle tinte tragiche di atti di indagine (spesso tradotti in condanne, talvolta non) e di atti processuali. È comprensibile che gli abitanti di quel quartiere si dolgano di una pubblicità negativa che si rinnova e raggiunge sempre un maggior numero di persone abbattendo la volontà, l'aspirazione di pochi o di molti, di cancellare le stimmate e rialzare la testa.
Umanamente comprensibile che venga stigmatizzata la circostanza, dato di fatto anch'essa, dei guadagni che originano dalla produzione della serie e che non si traducono in alcun giovamento per la realtà dolente di Secondigliano. Nessun reato nel guadagnare del proprio lavoro. Però, Saviano, Napoli non è Gomorra e rattrista il paragone tra le reazioni della gente - di alcuni - alla notizia della tua nuova serie e quelle alla scarcerazione di due persone che, per quanto evocativo sia il cognome che portano, hanno espiato per intero la condanna loro inflitta.
Una condanna pesante per un reato grave, associazione di stampo camorristico, ma una condanna patita per intero, senza progressione né opportunità trattamentali, senza sconti. La legge pretende che queste persone siano uscite dal carcere libere, anche dal pregiudizio. La Costituzione lo pretende. Sul punto si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione che, con sentenza 475 del 2015, ha evidenziato la forza diffamatoria connaturata all'appellativo di "pregiudicato"- pur usato attestando il vero - ed ha richiamato "l'esigenza, sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, di evitare che il cittadino che si trovi nella condizione personale e sociale di persona processata e/o condannata divenga, in maniera indenne, perenne bersaglio del discredito dei consociati".
Oggi per la legge Ciro e Vincenzo sono due uomini liberi. Hanno pagato il prezzo, hanno scontato la loro pena. Il carattere permanente dei reati associativi, la presunzione di una diuturna immanenza della partecipazione sodale da cui discende la convinzione pedissequa che chi nasce mafioso muore mafioso, non può coesistere con lo Stato di diritto. La proiezione di chi giudica un imputato deve essere lucidamente e pragmaticamente orientata alla congruità della sanzione nell'ottica della scarcerazione e della rieducazione.
Chi ha giudicato i fratelli Di Lauro ha dato un tempo alla loro pena. Un tempo lungo durante il quale la presenza nella società del detenuto si è sospesa insinuandosi una condizione, la carcerazione, che diviene perno e direzione della vita non solo del ristretto ma anche della sua famiglia e suddivide i giorni in pacchi di vestiario e di alimenti, viaggi per destinazioni lontane dalla propria casa, visite di colloquio, vaglia postali, ricezione di telefonate, spese legali.
Una condizione, la carcerazione, che è in sé mutilazione di vita, frattura di rapporti, interruzione di ogni attività lavorativa, esclusione. Chi è stato in carcere per molti anni, anche se si chiama Di Lauro, ha il diritto all'oblio, a una speranza di ricostruzione, di restituzione alla società. In assenza di tale proiezione benevola, la pena, qualunque pena, perde il suo senso, mutila la sua essenza, non ha ragione di esistere.
di Tiziana Maiolo
Il Garantista, 18 gennaio 2015
Un muratore rumeno, ha fatto lavoretti a casa Gambirasio e ha un furgone bianco. Nel 2010 raccontava di avere una ragazza molto giovane, minorenne, che viveva in provincia di Bergamo, faceva la "danzatrice" e si chiamava Yara. Sembra l'identikit perfetto dell'alter- Bossetti. E, come lui, non va criminalizzato. Ma la storia va raccontata. È dai difensori di Bossetti che arriva la notizia di un'indagine difensiva che ha rintracciato una testimone "molto attendibile", la quale ha parlato, nella sua deposizione, del giovane muratore rumeno.
La testimone, una signora di una certa età, lo aveva conosciuto quando lui cercava una stanza dove alloggiare. Non si sa, per ora, in quale città. Prima di aver perfezionato l'accordo (complicato dal fatto che il ragazzo rumeno voleva anche spostare a casa della signora la residenza), il giovane muratore un paio di volte le aveva chiesto la possibilità di ripulirsi o fare una doccia. Le aveva anche raccontato di questa ragazza, che lui rispettava, tanto che mostrava un medaglione e giurava "sul suo dio" che mai l'avrebbe toccata finché lei non fosse stata maggiorenne. Ma come mai si chiama Yara, aveva chiesto la signora incuriosita, è straniera?
No no, aveva risposto lui, è di Bergamo, anzi di un paese vicino a Bergamo. È una danzatrice, aveva aggiunto, fa ginnastica e vince premi con le sue compagne. Il ragazzo dice anche che lui e Yara si vedevano di nascosto dalla famiglia, anche perché tra loro c'era una certa differenza di età.
Questi discorsi erano avvenuti tra settembre e novembre del 2010. Il 26 novembre, proprio il giorno in cui la ragazzina sparì, il muratore rumeno chiama la signora, chiede se può andare da lei a fare una doccia perché è in partenza per la Romania e prima deve andare a salutare la sua ragazza. Poi parte con un'altra persona. Il giorno dopo chiama la signora per dire che è arrivato bene, ma lo fa in modo frettoloso e con un tono brusco che non aveva mai avuto, poi chiude la telefonata. La sua interlocutrice, stupita per il tono e per la fretta, lo richiama, ma trova una segreteria estera. Nel frattempo nelle valli bergamasche tutti cercano Yara. Quando la nostra testimone apprende la notizia della sparizione fa due più due e deduce che i due ragazzi siano scappati insieme, che abbiano fatto la "fuitina".
Tre giorni dopo però, quando apprende dell'arresto scenografico in mezzo al mare del muratore marocchino Fikri, immagina che gli inquirenti siano fuori strada e abbiano fermato un innocente. Che cosa fa dunque? Quello che viene in mente a una persona non pratica di questure e palazzi di giustizia. Ferma un carabiniere per strada, ingenuamente gli dice "avete arrestato un innocente", lui la invita ad andare a deporre, lei si scoccia e gli fornisce le proprie generalità, il numero di telefono e l'indirizzo. Che caratterino! Se vi interessa, sapete dove sono, chiude. Non sarà mai una testimone, nessuno la chiamerà.
Si farà viva di nuovo nei mesi scorsi, quando, dal suo punto di vista, un altro innocente finirà in carcere, Massimo Bossetti. Questa volta impugna carta e penna e scrive all'avvocato. Così nascono le indagini difensive, incontri diversi nel corso delle settimane, decine di viaggi all'estero del dottor Denti, il criminologo che assiste l'avvocato Galvagni nella difesa di Bossetti. Il muratore rumeno è individuato, anche se non ancora contattato. Il resto è ancora notizia riservata. Ma interesserà tutto ciò gli inquirenti, o sono così affezionati alla propria ipotesi inquisitoria da non avere nessuna curiosità?
Intanto arrivano i risultati ufficiali delle perizie disposte su una serie di oggetti sequestrati a Massimo Bossetti, dall'auto al furgone al telefonino: tutti negativi, da nessuna parte ci sono tracce di Yara. Nei confronti del muratore bergamasco rimane solo la prova del dna. Che è parsa troppo poco persino agli inquirenti, tanto che hanno lasciato scadere il termine di 180 giorni entro cui avrebbero potuto far celebrare il processo con il rito immediato. E Bossetti è in custodia cautelare da sette mesi.
di Paolo Comi
Il Garantista, 18 gennaio 2015
Ieri il Fatto Quotidiano ha deciso di tirare un siluro contro Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia in prigione da tre anni perché condannato per favoreggiamento. Il Fatto ha dato la notizia che Cuffaro si era deciso a chiedere la grazia e che la domanda è stata trasmessa dal Quirinale alla Procura di Palermo per un parere.
E naturalmente ha lanciato lo scandalo: ma come, ti proclami innocente e poi chiedi la grazia? La notizia - ripresa in giornata da agenzie e siti web - è falsa. Una vera bufala. Cuffaro ha confermato di non aver chiesto la grazia e di non volerlo fare. Il Fatto si riferisce a una vecchia e nota domanda, presentata nel 2013 dalla mamma di Cuffaro e dalla quale Cuffaro espresse il suo dissenso.
Si sa che il giornalismo è fatto di imprecisioni. Talvolta anche di balle grosse. Dispiace quando queste balle vengono usate per distruggere la vita a qualcuno. Dispiace ancor di più quando questo qualcuno è una persona debole, indifesa, per esempio un detenuto, che è in carcere da tre anni, che non ha protettori, che è sotto la mira di uno dei pezzi più potenti e incontrastati della magistratura italiana.
Stiamo parlando di Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, rinchiuso a Rebibbia dall'inizio del 2011 in seguito ad una sentenza discutibilissima, e accusato comunque di un reato minore ("favoreggiamento" consistente in fuga di notizie). Ieri il Fatto Quotidiano, imbeccato da qualche fonte interna alla magistratura siciliana (una fonte, probabilmente, un po' pasticciona) ha sparato in prima pagina la notizia bomba: Cuffaro, che si è sempre proclamato innocente, ora si è piegato e ha chiesto la grazia. Esultanza per l'avvenuta umiliazione, e raccomandazione al magistrato Scarpinato, che dovrà esprimere il parere: "mi raccomando, dì di no".
Cuffaro, secondo il Fatto Quotidiano ha scontato quattro anni di prigione e deve scontarne altri tre. Si è stancato del regime carcerario e si è convinto a chiedere clemenza al Quirinale. Il Fatto ha notizie apparentemente molto precise: la richiesta di Cuffaro è stata presentata al Colle dai suoi legali, e ora il Quirinale l'ha inviata alla procura di Palermo, e per la precisione a Scarpinato, per avere il suo parere.
Il bello di questa notizia è che è tutta inventata. Non solo Cuffaro non ha presentato nessunissima richiesta di grazia, ma ha dichiarato formalmente che non accetterà mai alcun provvedimento di clemenza (lo ha ribadito ieri pomeriggio al telefono al fratello) ma continuerà solamente a battersi per i suoi diritti, ad esempio quello di essere affidato ai servizi sociali (diritto recentemente negatogli dalla Cassazione).
Come sono andate le cose? Scarpinato effettivamente si è visto recapitare una richiesta di parere, dal Quirinale, per una domanda di grazia a favore di Cuffaro, e qualcuno vicino a Scarpinato, evidentemente, si è precipitato a spifferare tutto al "Fatto". Ma nessuno si è accorto che la domanda non era di Cuffaro, e che era vecchia di più di un anno, e che era stata presentata dalla mamma di Cuffaro, e per di più che la cosa era nota da tempo, e che comunque la grazia non può essere concessa se non è l'imputato in prima persona a controfirmarla. Quindi stiamo parlando di acqua fresca.
Una bufala, si dice in gergo, e una bufala anche un po' antipatica, perché recentemente il giudice di sorveglianza ha negato a Cuffaro un permesso per andare a trovare la mamma malatissima, sostenendo che tanto la mamma era così malmessa da non potere probabilmente neanche riconoscerlo, e dunque il viaggio di Cuffaro sarebbe stato inutile. Roba da "nazisti dell'Illinois". Vabbé, comunque la signora in questione è la stessa.
Poi c'è una seconda questione. Il Fatto sostiene che a Cuffaro mancano da scontare tre anni. Non è vero. Ne manca uno. Ha già scontato i tre quarti della pena. Aveva preso sette anni (sette anni sette: per favoreggiamento! Spesso si danno pene anche inferiori per omicidio), ma uno gli era stato indultato e uno viene decurtato automaticamente per buona condotta (in base alla legge Gozzini: 90 giorni di sconto all'anno, alla fine dei quattro anno sono 360 giorni cioè un anno intero). Vi pare che uno che si è fatto tre anni di carcere perché non vuole riconoscersi colpevole, poi cede a soli dodici mesi dal fine pena? E Cuffaro recentemente non ha ottenuto i servizi sociali, ai quali chiaramente ha diritto, con questa motivazione: "Non si è pentito e non ha fatto i nomi dei complici", cioè dei magistrati che gli hanno dato le notizie. Ma come si può pentire e come può dare nomi dei complici uno che ha sempre detto: "scusate ma io quel reato non lo ho compiuto"?
Sono le follie della burocrazia carceraria, che è una delle più spietate, a volte. Dopodiché ci sarebbe da fare un ragionamento sul reato di Cuffaro e sul moralismo di chi non perde occasione per chiedere che la sua prigionia sia prorogata il più possibile. Cuffaro è accusato di avere rivelato a degli indagati per mafia delle notizia riservate sulle indagini che li riguardavano.
Due considerazioni si impongono. La prima riguarda i magistrati: ragionevolmente sono loro che hanno divulgato le informazioni, mentre è molto meno sicuro il fatto che sia stato poi Cuffaro a "propalarle". E però i magistrati la fanno sempre franca, e Cuffaro, sulla base di semplici indizi, ha la vita stroncata dal carcere.
La seconda considerazione riguarda i giornalisti. Cioè noi. Quante volte sui nostri giornali diffondiamo notizie riservatissime sulle inchieste (notizie riferiteci di norma dai magistrati, che in questo modo si fanno amica la stampa)? Del resto la stessa notizia, seppure falsa, sulla grazia di Cuffaro, è una fuga di notizie. E, sempre "Il Fatto", e sempre in prima pagina, pubblicava proprio ieri indiscrezioni si una inchiesta dei Ros, usandole per maltrattare Vanessa e Greta e accusarle di amicizia coi terroristi. Il paradosso è quello: ci si indigna per un signore che ha commesso un reato che noi commettiamo tutti i giorni!
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