di Guido Olimpio
Corriere della Sera, 15 luglio 2020
Dopo la misteriosa serie di esplosione a Natanz, gli ayatollah mandano a morte un iraniano, dipendente del ministero della difesa, sospettato di passare informazioni sul programma missilistico ai nemici
Il cittadino iraniano Reza Asgari, accusato di essere una spia della Cia, è stato giustiziato pochi giorni fa. Lo ha annunciato il sito Mizan. L'ex dipendente del Ministero della Difesa era stato arrestato dai servizi di sicurezza che lo ritenevano coinvolto in operazioni per trafugare segreti militari. Informazioni poi finite nelle mani degli americani. In particolare - secondo la versione diffusa dalle autorità - avrebbe venduto dati riguardanti il programma missilistico, una delle punte del dispositivo strategico iraniano. Un mese fa circa era stata eseguita un'altra sentenza capitale, a finire sul patibolo un uomo ritenuto legato all'uccisione in Iraq del generale Qasem Soleimani. Uno dei molti episodi della guerra strisciante che contrappone Teheran a Usa e Israele.
Dal 29 giugno l'Iran è stato teatro di numerosi incidenti, alcuni dei quali sono stati attribuiti ad atti di sabotaggio del Mossad. La lista si è aperta con le fiamme in una fabbrica di missili (regione di Parchin) ed è proseguita coinvolgendo siti industriali e militari, compreso il centro nucleare di Natanz (qui lo speciale del Corriere sugli incidenti nel sito). L'ultimo caso lunedì con un rogo nell'impianto di Kavian Fariman, Mashad, evento per il quale non si conoscono le cause.
L'esecuzione di Reza Asgari può essere solo un elemento "collaterale", ma che comunque rientra nella strategia del confronto, con gli ayatollah che mandano un segnale all'esterno. Non è la prima volta che in fasi critiche o di tensione Teheran annuncia retate o punizioni per gli avversari interni. Insieme alla morte della spia sono arrivate altre misure: 2 curdi sono finiti sul patibolo in quanto avrebbero organizzato un attentato a Mahabad nel 2010 (12 le vittime) e tre persone verranno mandate sul patibolo perché hanno partecipato alle proteste del 2019.
I colpi segreti non precludono comunque altre strade. Comprese quelle negoziali. Gli Usa hanno rilasciato e rimandato in Libano l'uomo d'affari Kassim Tajideen che era stato condannato perché parte della rete di finanziamento del movimento filo-iraniano Hezbollah. La decisione è una coda dello scambio che ha portato alla liberazione di due cittadini statunitensi da parte di Siria e Iran. C'è la cosiddetta guerra segreta, ma anche un'attività diplomatica riservata attraverso canali speciali.
di Riccardo Noury
Corriere della Sera, 15 luglio 2020
Il 13 luglio la Corte di cassazione del Bahrein ha rigettato l'ultimo possibile ricorso giudiziario di Mohamed Ramadhan Issa Ali Hussain e Hussain Ali Moosa Hasan Mohamed, condannati a morte dopo che erano stati giudicati responsabili di un attentato dinamitardo in cui, il 14 febbraio 2014, era rimasto ucciso un agente di polizia.
Moosa, impiegato d'albergo, venne arrestato una settimana dopo; Ramadhan, addetto alla sicurezza dell'aeroporto internazionale del Bahrein, il 20 marzo. Durante gli interrogatori nella sede del Dipartimento per le indagini criminali, i due uomini vennero torturati per giorni: Moosa sottoposto a pestaggi e a scariche elettriche, Ramadhan picchiato e sospeso a testa in giù. Alla fine, Moosa si arrese a "confessare" e a incriminare Ramadhan. Il processo di primo grado si concluse il 29 dicembre 2014 con la condanna a morte, confermata in appello il 27 marzo 2015 e in Cassazione il 16 novembre dello stesso anno.
Nel marzo 2018 l'Unità per le indagini speciali inviò all'ufficio del Procuratore un memorandum contenente le conclusioni di un gruppo di medici del ministero dell'Interno, che confermavano le denunce di Ramadhan sulle torture subite. Correttamente, il 22 ottobre 2018 la Corte di Cassazione annullò la sentenza e chiese all'Alta corte d'appello di rifare il processo. Da lì, una nuova condanna a morte emessa il 20 gennaio di quest'anno e, ieri, la conferma della Cassazione.
di Tiziana Maiolo
Il Riformista, 14 luglio 2020
Sta scontando la pena all'ergastolo nel carcere di Oristano, da quasi due anni è in isolamento e non può neanche cucinare. Ha problemi di salute e ha bisogno di un'alimentazione sana.
"Taci e digiuna, assassino comunista". "Era abituato al caviale. È dura la vita per gli assassini che pagano per i loro crimini". Non si sono certo tirati indietro Matteo Salvini e Giorgia Meloni con commenti che mai potrebbero apparire sulla bocca del loro alleato storico Silvio Berlusconi.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 14 luglio 2020
"Ai detenuti e agli internati è assicurata un'alimentazione sana e sufficiente, adeguata all'età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima". Così recita l'articolo 9 dell'Ordinamento penitenziario. In carcere il diritto al cibo deve, o dovrebbe, essere contemplato. All'indomani della notizia che l'avvocato di Cesare Battisti, Gianfranco Sollai, ha presentato un reclamo segnalando la scarsità e la bassa qualità del cibo somministrato, subito si sono avvicendate polemiche trasversali.
di Giovanni M. Jacobazzi
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Enrico Costa, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Montecitorio, è stato di parola: trascorso il periodo previsto dal regolamento della Camera per ripresentare una proposta di legge bocciata dall'Aula, lo scorso maggio ha depositato per la seconda volta il testo di riforma della norma sulla riparazione per ingiusta detenzione.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Le raccomandazioni del Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura. La pandemia ha colpito più duramente nei luoghi di detenzione in cui le precedenti raccomandazioni (spesso piuttosto datate) dello stesso Comitato non erano state attuate, invitando gli Stati membri a cogliere le opportunità generate dall'emergenza nonché a stabilizzare talune misure adottate durante la pandemia.
di Carlo Fusi
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Intervista a Giuliano Amato: "Nonostante l'occasione fornita dall'epidemia di comportamenti ispirati all'interesse della collettività alle prese con una sfida mai finora provata, le parti politiche sembra che proprio non riescano ad assumere comportamenti coerenti con l'esigenza di unità".
Nella settimana forse più difficile per il governo Conte che sulla vicenda Autostrade rischia l'osso del collo; con alle spalle le polemiche sullo stato d'emergenza e davanti il Consiglio europeo di venerdì che deve decidere sul Recovery Fund, cioè il futuro dell'Italia o giù di lì, vien voglia di chiedere (per il sottoscritto, una voglia incontenibile) a Giuliano Amato di mettere l'orecchio a terra alla moda dei pellirosse nei film western di quando eravamo bambini, e chiedere cosa sente battere nel cuore profondo del Paese, quale sentimento alligna negli italiani: se prevale la rabbia, la paura, la speranza.
"È una buona domanda e me lo stavo chiedendo io stesso", risponde il due volte ex premier e oggi giudice costituzionale. "Vede, a mio avviso la questione è questa. Noi abbiamo nell'agone politico atteggiamenti che continuano a riflettere una animosa e assai forte ostilità reciproca. Nonostante l'occasione fornita dall'epidemia di comportamenti ispirati all'interesse della collettività alle prese con una sfida mai finora provata, le parti politiche sembra che proprio non riescano ad assumere comportamenti coerenti con l'esigenza di unità".
Una demonizzazione l'un verso l'altro che ha poco di razionale e molto di viscerale...
"Quando ne parliamo, il mio vecchio amico don Vincenzo Paglia commenta così: "È vero, dicono tutti che siamo sulla stessa barca, ma ci siamo per darci i remi in testa!". Non proprio le parole che uno si aspetterebbe da un arcivescovo... Però è un commento corretto".
E al fondo di questo quasi voluttuoso randellamento, presidente, cosa c'è?
"Non possiamo non dire che questa reciproca e insistita ostilità che presuppone un non reciproco riconoscimento, riflette certo fratture vecchie e fratture nuove che si sono prodotte nella nostra società. Ma col passare del tempo rispetto a quando queste fratture si sono aperte e manifestate ciò che mi chiedo se non altro l'intensità di questo darsi i remi in testa non rifletta una modalità comportamentale che è interna al ceto politico corrispondente a malanimo che soprattutto nella Rete si manifestano, ma forse non il maggioritario e profondo sentimento degli italiani che potrebbero a questo punto avvertire il fortissimo bisogno di un ceto politico che sia più ispirato al bene comune che non a questo continuo malmenarsi proprio con quei remi che dovrebbero al contrario servire per procedere vogando nella medesima direzione".
Litigando si affonda tutti insieme: è questo che sta dicendo, presidente?
"Ho fatto mia non a caso la metafora di monsignor Paglia. Mi spiego. Tre anni fa, un grande sociologo spagnolo a me coetaneo: Victor Perez Diaz, fece ricerca che poi si tradusse in più scritti ed un libro sul rapporto tra la società civile spagnola e la politica, nella quale metteva in evidenza che nonostante la forza che stavano manifestando i due nuovi partiti che esprimevano il populismo "anti" - che poi erano Podemos da una parte e Ciudadanos dall'altra e che effettivamente ridimensionavano le forze politiche tradizionali - a domanda risponde: "La stragrande maggioranza degli spagnoli esprimeva come critica maggiore alla politica quella di non sapere trovare accordi sulle cose fondamentali da fare per il Paese". Questo accadeva nel 2017. Io rimasi sorpreso da questa ricerca. Che tuttavia anticipava una evoluzione politica che la Spagna ha finito per avere, con un ridimensionamento se non dei partiti nuovi senz'altro della loro foga "nati", e con certo un governo di minoranza e partiti tradizionali sempre in posizione minoritaria, ma con un consenso popolare che appare superiore a quello che esiste tra le forze di maggioranza e minoranza. Riflettendo su quella analisi, mi chiedo se gli italiani non comincino ad essere stanchi di un teatro politico che somiglia a quello dei burattini che a Roma si svolge al Gianicolo, dove c'è sempre una marionetta che picchia col bastone in testa ad un altro. Il cui principale messaggio è che l'altro sbaglia; che l'altro non sa fare nulla. Uno scenario di lite e non di costruzione di piattaforme condivise".
Presidente, quel è la maledizione che ci costringe al teatrino "bastonatorio" che lei descrive?
"È una giusta domanda. Dobbiamo tornare molto indietro. L'Italia ha sempre avuto un problema del genere. Quando celebrammo il 150esimo dell'Unità d'Italia, ritornò in voga l'ode di Manzoni Marzo 1821: Una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor. Diciamo che in quel modo Manzoni davvero gettava l'anima oltre l'ostacolo perché ad essere realisti non nel marzo del 1821 ma nel '61 era una d'altare se va bene, ma certo non di lingua, non di memoria, non di sangue o di cor. L'Unità d'Italia, l'unità degli italiani è sempre stato un fine da perseguire più che un risultato già acquisito. Nacque il Regno d'Italia e dovendo avere la Capitale a Roma già per questo nel giro di dieci anni arriva una frattura che riguardava la religione maggioritaria degli italiani, più pronti a seguire il parroco che non l'autorità politica. Per non parlare del Mezzogiorno col brigantaggio. E poi buona parte di quelli che avevano contribuito a realizzarla cominciarono a parlare di un'altra Italia: i giudizi di Mazzini, di Garibaldi, di Carducci che si scagliava contro i "brutti" francobolli, le brutte divise, eccetera. L'Italia nasce, vive e contiene in sé ciò che in linguaggio moderno definiamo "una coesione sociale incompiuta".
E così arriviamo al punto odierno, al proseguimento del randellamento reciproco e alle sue conseguenze.
"Il punto è che, per limitarci agli anni di vita della nostra Repubblica, noi abbiamo avuto una leadership politica che si è posta come problema principale quella di suturare quelle fratture. Da De Gasperi a Togliatti a Nenni a Moro, abbiamo una sequenza di scelte politiche tutte consapevoli del fatto che c'è una frattura, che ciascuno di loro rappresenta una parte ma lavora perché ci sia una ricomposizione del tutto. Lo fa perfino Togliatti che rappresenta l'alternativa di sistema votando l'articolo 7 della Costituzione perché non vuole rappresentare soltanto una parte del Paese. È l'idea di Partito della Nazione che vuole percorrere un futuro che non concerne solo il pezzo d'Italia che rappresenta. Pensando a chi mi fu tanto amico, cito un libretto non tra i più noti di Antonio Ghirelli che racconta il lavoro di Nenni e Moro che insieme cercano di rafforzare le radici di una democrazia fragile, percependo che l'aver messo insieme i lembi del centro con quelli della Sinistra attraverso i socialisti è un passo che serve a rinsaldare l'unità degli italiani. E quindi entrambi sacrificano obiettivi a cui ambiscono, al valore dello stare insieme. dando così più forza ad una democrazia che cresce grazie a loro. Questa resterà sempre la ragione della grandezza di Aldo Moro: la percezione che se c'è una parte della società che resta "fuori", beh va ricondotta dentro il circuito democratico-rappresentativo perché altrimenti siamo deboli. Segnalo anche un altro elemento decisivo. A quell'epoca c'era rispetto degli uni verso gli altri, nonostante le distanze. Anche perché alla fine c'era rispetto per chi comunque rappresentava così tanti elettori".
Dunque tornando per un secondo alla esperienza spagnola e a quello che insegna, lei sta dicendo che gli italiani sono più maturi di chi li rappresenta...
"Direi di sì. Voglio insistere su un punto. Quando negli anni 70 una parte delle fratture si va ricomponendo - ricorda quando si parlava di solidarietà nazionale? - maturano le condizioni di una nuova, profonda frattura. Per due ragioni: i partiti che si essiccano, diventano più palazzo che società e la corruzione che prende piede in misura superiore al tollerabile generando Mani Pulite. Questo è il primo alimento dei movimenti populisti che arriveranno dopo, avvalendosi e agitando una nuova frattura. Quella tra "noi" cittadini e il Palazzo; noi e le élite, noi e la Casta che diventerà ancora più grave quando la crisi economica accentuerà le diseguaglianze togliendo futuro a molti. Ecco i populismi, che sono in partiti di governo e di opposizione. Ma hanno una caratteristica comune: che non legittimano più l'altro. Non operano più come parte che vuole connettersi al tutto bensì come parte che è il tutto. La maggioranza ha titolo a ignorare gli altri, decide anche contro il resto del Paese".
La domanda è semplice: esiste un antidoto a tutto questo?
"L'antidoto è se alla lunga tutto questo per gli italiani diventa insostenibile. C'è chi vive di quel comportamento divisivo, scrivendo cattiverie nei social contro un altro e il giorno che finissero le cattiverei finirebbero anche lui o lei. Ma è ben possibile che esista una maggioranza di italiani che dice: ora basta. Basta. Ora insieme dobbiamo scegliere la via. Ora per cortesia i remi usateli per remare".
Presidente, per ricomporre chi deve fare il primo passo?
"Ho sempre pensato e penso che le responsabilità sono diffuse. Ma chi governa ha quelle maggiori anche in questa fattispecie. Non c'è niente da fare. Ed è assodato che in una democrazia parlamentare, fare in modo che le decisioni si prendano in Parlamento, non limitandosi a dare agli altri un diritto di tribuna ma discutendo seriamente delle proposte degli uni e degli altri, e facendo in modo come si seppe fare negli anni '50 e '60 in un Parlamento molto più diviso di adesso, di far emergere le ragioni di tutti, se si riesce a fare questo gli italiani, anche quelli che appaiono più esasperati, si sentiranno maggiormente tranquilli e in mani più sicure".
Presidente, c'è un aspetto che in queste ora sta dividendo tutto e tutti: la decisione di prorogare lo stato d'emergenza per il Covid. Dal punto di vista del giusto bilanciamento dei poteri in una democrazia, è una scelta che lei condivide?
"L'emergenza è una cosa grossa assai... Bisogna capire cosa intendiamo per stato d'emergenza, tenendo ben presente l'aspetto tecnico della questione. Penso che i giuristi che ne hanno scritto, a partire da Sabino Cassese, hanno illustrato bene alcuni termini del problema. Una cosa sono le urgenze cautelari di tipo sanitario e una cosa le misure d'emergenza che può stabilire la Protezione civile. Finora, per così dire, l'una si è infilato nell'altra".
E adesso, presidente?
"Allora lo dico così. Io sono un ultraottantenne. Alcuni giorni fa ho letto un'inchiesta sul New York Times in base alla quale ho una probabilità 50 o 60 volte superiore di essere ucciso dal Covid rispetto a generazioni più giovani. Ebbene se in Italia l'emergenza finisce il 31 luglio e se con essa termina l'obbligo a mantenere le distanze sociali, a indossare la mascherina nei luoghi affollati e quant'altro..., beh personalmente mi sentirei piuttosto preoccupato. La mia domanda è: per tranquillizzare le persone serve lo stato d'emergenza o è sufficiente il potere di intervento che le ordinanze conferiscono al ministro della Salute?".
fpcgil.it, 14 luglio 2020
Non è una battaglia tra detenuti e poliziotti. Aumenta il fenomeno delle aggressioni da parte dei detenuti ai danni del personale di Polizia penitenziaria, regna il sovraffollamento e diminuisce la sicurezza, a scapito del personale che lavora nelle carceri. Servono nuove regole che diano dignità al percorso dei detenuti e sicurezza ai lavoratori.
Le vecchie misure non sono efficaci. La nostra proposta, presentata oggi al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, è quella della "progressione premiale", un modello che valorizza il percorso rieducativo dei detenuti e che tutela il personale.
Da sempre è in corso una diatriba su come dovrebbe funzionare il sistema delle carceri in Italia, su quanto sia realistica la possibilità del detenuto di riscattarsi e reintegrarsi nella società. Uno scontro epico tra chi vede quelle quattro mura come una semplice punizione e chi ne coglie l'aspetto rieducativo. E in questa diatriba c'è chi, da una parte, ha a cuore i diritti del detenuto e chi, dall'altra, pensa alla sicurezza degli agenti di Polizia penitenziaria e di tutte le altre figure che lavorano nel carcere. Come se una delle due cose dovesse escludere l'altra. Il carcere è un ambiente che il detenuto tanto quanto il poliziotto e tutte le figure che ci lavorano, hanno il diritto di vivere con serenità e secondo il fine stesso per cui è pensato.
Convivere in un sistema detentivo costruttivo per il detenuto e sicuro e funzionale per i lavoratori è possibile, ma i problemi di sovraffollamento che le carceri italiane si trascinano da tempo ne hanno impedito la realizzazione. Basti pensare che la popolazione detenuta è aumentata in soli 4 anni di oltre 8 mila unità (passando dalle 52.164 del 2014 alle 60.760 del 2019). Oggi gli istituti penitenziari sono suddivisi in 'circuiti detentivi' in relazione ai reati commessi, e ad ognuno di essi dovrebbe corrispondere una diversa offerta trattamentale e una diversa vigilanza. Ma a causa del perenne sovraffollamento, la maggior parte delle carceri si sono trasformate in contenitori con detenuti in eccesso e di tutti i tipi.
Ma come ristabilire un'organizzazione sicura e dignitosa per lavoratori e detenuti? La nostra proposta, presentata oggi al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, è quella di applicare la cosiddetta "logica della progressione premiale". Cosa significa? Significa che la detenzione, per permettere il riscatto sociale del detenuto e per garantire la sicurezza di chi lavora, deve essere pensata come un percorso progressivo diviso in step. Vediamoli.
Primo step: il detenuto ha l'obiettivo di rispettare tutte le regole dell'ordinaria convivenza e deve partecipare ad un programma trattamentale con risultati positivi, partecipando anche ad attività lavorative volontarie. In questa fase l'apertura della camera detentiva è minima e la vigilanza attenta e costante.
La vigilanza deve avvenire con modalità differenti che non prevedano il contatto diretto che esporrebbe il personale di polizia penitenziaria ad un rischio troppo alto. Inoltre, visto il costante aumento del fenomeno di aggressioni al personale, i poliziotti devono potersi difendere: una soluzione potrebbe essere quella di dotarli di taser elettrico. In generale, la sezione deve essere resa più sicura: sistemi anti-scavalcamento sul muro di cinta, video-sorveglianza, postazioni di sentinella protette, impianto di allarme centralizzato e altro ancora.
Secondo step: se il detenuto ha guadagnato la fiducia dell'amministrazione, il programma prosegue. In questa fase ha più tempo a disposizione da trascorrere fuori dalla camera detentiva, sempre in compagnia di detenuti che stanno facendo lo stesso percorso. La vigilanza verrà proporzionata al tipo di detenuti e di reato. In caso di condotta contraria alle regole e di violazione del patto di fiducia instaurato, il detenuto viene retrocesso al primo livello.
Apertura delle camere detentive. Pensare che si recuperi la sicurezza all'interno delle carceri chiudendo i detenuti in cella per 22 ore al giorno è del tutto fuori strada. In questo modo si può produrre unicamente un aumento esponenziale dell'aggressività. Il detenuto deve essere spronato a vivere la propria detenzione in modo virtuoso: l'offerta di un maggior tempo da vivere all'esterno della camera detentiva è un'opportunità che, se sfruttata, consente la conquista di una vita detentiva migliore. Al contrario, non cogliere questa opportunità e assumere una condotta contraria all'ordine e alla sicurezza e tradire la fiducia concessa, significa privarsi di progredire verso condizioni migliori.
Ampliamento delle opportunità lavorative. Il lavoro è un elemento fondamentale dentro il carcere: dà dignità alla condizione restrittiva e disincentiva dalla perpetrazione criminale. È inoltre uno strumento di nuove opportunità, che può favorire un giudizio positivo nei confronti dei detenuti che gli permetterà di accedere allo step successivo del percorso di progressione premiale.
Una proposta, la nostra, che tenta di ridare dignità al percorso detentivo e vuole tutelare il personale di polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali, i dirigenti e tutte le figure che operano nel carcere, che non possono lavorare sentendo minacciata la propria incolumità. Questa non è una battaglia tra carcerati e carcerieri, è una battaglia per la dignità di tutti. E dobbiamo vincerla.
di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 14 luglio 2020
Nella lista ex ministri, toghe entrate in politica, procuratori e membri del Csm. L'atteso elenco delle persone da convocare davanti al "tribunale dei giudici" martedì 21 luglio.
Cento trentatré testimoni per processare la magistratura italiana e il suo sistema di autogoverno anziché lui, Luca Palamara, accusato di gravi illeciti disciplinari, tra cui l'indebita interferenza nelle "funzioni costituzionalmente previste" del Consiglio superiore della magistratura. Il tanto atteso elenco delle persone da convocare davanti al "tribunale dei giudici", nel "processo" che comincerà martedì 21 luglio, è arrivato: l'ex pubblico ministero romano inquisito dalla Procura di Perugia per corruzione, e per il quale la Procura generale della Cassazione ha esercitato l'azione disciplinare, prova a ribaltare gli addebiti denunciando un andazzo generale al quale lui si sarebbe semplicemente adattato.
Una linea difensiva che si trasforma in attacco, attuata citando i nomi più noti e altisonanti del mondo togato e istituzionale, della politica giudiziaria e dei Csm avvicendatisi negli ultimi trent'anni. Mancano il capo dello Stato Sergio Mattarella e il suo predecessore Giorgio Napolitano, ma ci sono i rispettivi consiglieri giuridici. E poi gli ex ministri della Giustizia Giovanni Maria Flick e Andrea Orlando, l'ex titolare della Difesa Roberta Pinotti; i magistrati (o ex magistrati) già parlamentari del Pd Anna Finocchiaro, Gianrico Carofiglio e Donatella Ferranti; i procuratori di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo, di Palermo Francesco Lo Voi, di Bologna Giuseppe Amato, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho; ex magistrati di grido come Edmondo Bruti Liberati, Guido Lo Forte e Antonio Ingroia; gli ex presidenti dell'Anm Francesco Minisci e Eugenio Albamonte; gli ex vicepresidenti del Csm Cesare Mirabelli, Nicola Mancino, Michele Vietti, Giovanni Legnini, componenti passati e presenti del Consiglio, compresi alcuni componenti della Sezione disciplinare che deve processarlo.
Un elenco sterminato, con il quale Palamara intende dimostrare che "esisteva una prassi costante, di "strategia" e comunque di interlocuzione" tra togati ed ex togati del Csm, le correnti di appartenenza e "i loro diretti referenti del mondo della politica" per ogni nomina, o quasi. E che lui era amico dei colleghi Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, vittime secondo la Procura generale di un tentativo organizzato di denigrazione.
Palamara vorrebbe istruire un processo al "correntismo", ma l'accusa disciplinare è circoscritta: a parte le trame contro Pignatone e Ielo, avrebbe tentato di pilotare dall'esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore di Roma, come è emerso dall'ormai famosa riunione intercettata all'hotel Champagne di Roma con gli allora deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti (imputato a Roma) e 5 componenti del Consiglio, poi dimissionari. Un fatto specifico, per il quale la Sezione disciplinare del Csm dovrà decidere se ammettere o meno le decine e decine di testimonianze (compresa quella dell'autore di questo articolo, in relazione a due colloqui intercettati con Palamara nel maggio 2019) con le quali l'ex pm cercherà di sostenere che non c'era niente di strano nella sua manovra tesa a far nominare un procuratore di Roma al posto di un altro.
Dalla lista di Palamara si evince che l'accusato vuole mettere sotto accusa decine di altre decisioni del suo Csm e di quelli precedenti. Qualcuno l'ha invitato a diventare "il Buscetta della magistratura", ed ecco spuntare i richiami alle "nomine "a pacchetto" e alle vicende relative alle nomine dei presidenti di sezione della Cassazione successive alla sentenza del 1°agosto 2013 nei confronti dell'onorevole Berlusconi". Su quest'ultimo punto, tornato al centro del dibattito politico nelle scorse settimane, Palamara vorrebbe chiedere lumi all'ex collega del Csm Piergiorgio Morosini (di Magistratura democratica) "sugli accordi tra gruppi successivi alla sentenza" che condannò definitivamente Berlusconi, facendolo decadere dal Parlamento.
Molto più sobria e contenuta la lista dell'ex consigliere del Csm Luigi Spina: 16 testimoni (più tre co-incolpati, tra cui Palamara) per parlare del fatto contestato: i contatti e gli accordi della primavera 2019 per la nomina del procuratore di Roma.
di Simona Musco
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Davide Steccanella, difensore dell'ex Pac: "Sulla vicenda del cibo una strumentalizzazione ignobile. Ma così lo Stato smette di essere credibile". "Faccio questo lavoro perché pensavo di stare in uno Stato di diritto. Ma alla luce di tutto quello che accade, cosa dovrei dire, che aveva ragione Battisti a contrapporsi allo Stato?".