di Marco Pelissero*
Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019
Non è facile comprendere le dinamiche che sorreggono il diritto penale, specie quando si tratta di fatti lesivi di diritti fondamentali delle persone e dell'intera comunità associata; soprattutto, non è facile trasmettere le ragioni che stanno alla base di decisioni che appaiono, a prima vista, un'inaccettabile concessione in favore di chi ha commesso un reato, specie se efferato. Il fatto è che siamo tendenzialmente propensi ad identificarci con chi è vittima del reato e mai con chi ne è l'autore (salvo che l'autore sia colui che si difende da un'aggressione ingiusta, ed allora il discorso cambia completamente).
di Claudia Pecorella*
Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019
Il condannato alla pena dell'ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione. La questione dell'ergastolo ostativo pone la Corte costituzionale di fronte a un bivio, dovendo scegliere se andare alla ricerca di possibili giustificazioni sul piano teorico della presunzione assoluta di non rieducabilità di chi non collabora con la giustizia oppure valutare quella presunzione alla luce dell'esperienza concreta maturata nei ventisette anni trascorsi dalla sua introduzione.
di Francesco Carraro*
Il Fato Quotidiano, 21 ottobre 2019
C'è qualcosa di giuridicamente "stonato" nella sentenza con cui la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha spiegato all'Italia che l'ergastolo ostativo va rivisto. E che prescinde dal caso specifico trattato. Ma forse, prima, c'è anche qualcosa di semanticamente fuorviante, e quindi di razionalmente sballato, nella locuzione "ergastolo ostativo". I due termini costituiscono un magnifico esempio di tautologia: una figura retorica con la quale si usano vocaboli ridondanti rispetto al significato da veicolare. Un ergastolo dovrebbe essere "ostativo" di default: l'aggettivo è superfluo.
di Liana Milella
La Repubblica, 21 ottobre 2019
Dopo la bocciatura di Strasburgo, mercoledì è attesa la pronuncia della Consulta sull'ergastolo ostativo che nega i benefici a chi non collabora. "Sì alla speranza dopo una lunghissima detenzione e un radicale ravvedimento. Ma l'ergastolo deve restare".
Dice così a Repubblica Gianrico Carofiglio, romanziere ed ex pm. La Corte di Strasburgo ha bocciato l'ergastolo "duro", detto "ostativo", che fissa un principio, nessun beneficio a chi non collabora.
In attesa della decisione della Corte costituzionale giuristi, opinionisti e magistrati si dividono. Lei da che parte sta?
"Non condivido l'idea di irrigidire la diversità di opinioni su un argomento così delicato. Dunque mi permetta di dire che non sto da nessuna parte o meglio, sto dalla parte della Costituzione che all'articolo 27 prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
"Fine pena mai": non è un giusto deterrente per chi ha soppresso scientemente una vita?
"Non sono favorevole all'abolizione dell'ergastolo. Ci sono reati di eccezionale gravità che richiedono pene altrettanto gravi. Deve però essere prevista la possibilità che anche i condannati all'ergastolo, dopo un lunghissimo periodo di detenzione in cui abbiano mostrato un radicale ravvedimento, possano avere una speranza".
Strasburgo è contro una detenzione "inumana e degradante". Ma chi è entrato a far parte di Cosa nostra, dove l'omicidio è la regola, e magari ha compiuto una strage, ha diritto a una riabilitazione?
"Non lo dico io, lo dice la Costituzione. Naturalmente rispetto a certi reati come quelli di mafia e di terrorismo i criteri per valutare l'eventuale ravvedimento devono essere particolarmente severi".
Tra i diritti dei singoli e la tutela e la sicurezza della collettività non è obbligatorio scegliere la seconda?
"Attenzione: dire che si debba scegliere fra diritti dei singoli e tutela della collettività ci mette su una china pericolosissima. Alla fine di questa china ci sono i giudizi sommari senza garanzie e lo stato di polizia. Bisogna garantire la sicurezza della collettività senza violare i diritti costituzionalmente garantiti".
Magistrati come Grasso, Scarpinato, Di Matteo, Cafiero De Raho, Roberti, Tartaglia, considerano la richiesta di Strasburgo un antistorico cedimento alla mafia. E con loro stanno i parenti delle vittime. Gli si può dar torto?
"Mi sono occupato di criminalità mafiosa, come pm, per oltre dodici anni. Su mia richiesta sono stati comminati centinaia di anni di carcere e decine di ergastoli. Si figuri se non sono sensibile al tema e alle ragioni dei familiari delle vittime. Ciò detto: la giusta, severa punizione di gravi reati non deve trasformarsi in spietata vendetta contraria al senso di umanità e alla Costituzione. Non si può negare a priori un beneficio a chi dopo aver scontato decine di anni di carcere provi di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo e di aver troncato i collegamenti con le realtà criminose di provenienza. Bene sottolineare poi che la sussistenza di questi presupposti sarà sempre sottoposta al controllo di un magistrato di sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere benefici penitenziari".
Ha letto le parole di Elvio Fassone su Repubblica? Dopo aver comminato un ergastolo questo giudice ritiene che a quel detenuto non si possa precludere comunque un futuro...
"Sono completamente d'accordo con Fassone. È stato uno straordinario magistrato ed è un uomo di grande cultura non solo giuridica".
Riina chiedeva nel1993, mentre pianificava le stragi di Roma, Firenze e Milano, e dopo aver ucciso Falcone e Borsellino, che lo Stato cedesse su ergastolo e 41bis. Non basta per rendersi conto che resiste una specificità criminale italiana da cui non si può prescindere?
"Infatti di questa specificità criminale bisogna tenere conto. I criteri per l'eventuale attenuazione dell'ergastolo ostativo, devono essere particolarmente stringenti. Io credo si debba istituire, in questa materia, quello che in gergo tecnico si chiama "presunzione relativa". Tradotto per i non addetti ai lavori: sì presume che un condannato per mafia o per terrorismo sia comunque pericoloso a meno che non venga fornita la "prova" del contrario. Il giudice di sorveglianza potrebbe concedere dei benefici solo dopo un lungo periodo di detenzione, in presenza di una radicale critica del passato criminale e una sicura cessazione di ogni rapporto coni contesti di provenienza".
Perché non è sufficiente la clausola dell'articolo 4bis dell'ordinamento penitenziario per cui l'accesso ai benefici è possibile solo se il detenuto collabora rompendo per sempre con il suo passato?
"Perché, a tacere d'altro, ci sono molti casi, dopo anni di detenzione, in cui la collaborazione è impossibile. E perché ci sono casi in cui un soggetto ha deciso di non collaborare (e la scelta di collaborare, in un paese civile, può essere sollecitata ma non imposta) ma ha comunque cambiato vita, troncando i rapporti con l'ambiente criminale di origine".
Ammorbidire l'ergastolo non rende inutile la spinta stessa a collaborare?
"Nessuno vuole ammorbidire l'ergastolo. Bisogna solo rendere la normativa antimafia compatibile con la Costituzione. Chi decide di collaborare seriamente lo fa per un concorso di ragioni. Anche evitare lunghissimi anni di carcere duro. E questa motivazione rimarrà del tutto integra anche dopo un eventuale intervento su questa normativa. Non dimentichiamo che tutto il discorso fatto non riguarda i141 bis, la norma che prevede il carcere duro per i mafiosi. La norma è fondamentale per il contrasto delle mafie e rimane, giustamente, intatta e operativa".
di Iris Lidonnici
salvisjuribus.it, 21 ottobre 2019
C'è chi ambisce al diritto di morire, perché costretto ad un'esistenza talmente indignitosa da non poter essere chiamata "vita" (eutanasia). E poi, dall'altra parte della carreggiata, c'è chi, non avendo vissuto dignitosamente, chiede allo Stato un'altra possibilità per poter vivere secondo le regole. E lo Stato italiano gliela nega questa possibilità (ergastolo ostativo).
Ebbene, recentemente abbiamo assistito a due importanti e autorevoli arresti, che mettono sull'ago della bilancia le questioni, personalissime, del "fine-vita" e del "fine pena mai".
Il primo sul c.d. Caso Cappato. La Corte Costituzionale, all'esito della Camera di Consiglio del 25/09/2019, chiamata ad esaminare le questioni sollevate dalla Corte d'Assise di Milano sull'articolo 580 del Codice penale, riguardanti la punibilità dell'aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita, ha ritenuto "non punibile ai sensi dell'articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli".
In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.
Inoltre, la Corte sottolinea che l'individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell'ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili.
Il secondo sul c.d. Caso Viola. La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo rigetta il ricorso presentato dal Governo Italiano contro la sentenza del 31/06/2019 che aveva negato la compatibilità del cd. ergastolo ostativo - previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 22 c.p., 4-bis e 58-ter della legge sull'ordinamento penitenziario - con l'art. 3 della Cedu che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo. In particolare, con la sentenza in oggetto - che riguardava il caso del boss di 'ndrangheta Marcello Viola - i giudici di Strasburgo hanno stabilito che la condanna al carcere a vita senza poter accedere a permessi e benefici inflitta al boss di 'ndrangheta viola l'art. 3 Cedu poiché, per effetto del regime applicabile alla pena inflitta al ricorrente, le sue possibilità di liberazione risultano eccessivamente limitate e un tale assetto non soddisfa i criteri che consentono di ritenere "riducibile" una pena perpetua e si traduce nella violazione del principio di dignità umana, desumibile dall'art. 3 ma immanente all'intero sistema convenzionale.
L'Italia, in tema di ergastolo ostativo, aveva evidenziato la pericolosità di certe condotte criminali legittimando così una reazione severa nei confronti degli aderenti ad una organizzazione mafiosa o terroristica. L'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario concede al detenuto di fruire di permessi premio, lavoro esterno al carcere e misure alternative al carcere, tranne che la liberazione anticipata, qualora egli decida di collaborare con la giustizia al fine di dimostrare la rottura dei legami con l'organizzazione criminale
Tuttavia, secondo la Corte Edu, l'ergastolo ostativo, definito trattamento inumano e degradante, viola i diritti umani: al detenuto non è possibile "rubare" anche la speranza di un recupero sociale, ma a costui va riconosciuta la possibilità di pentirsi e di avere una occasione di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Anche nell'ambito di tale materia si auspica un intervento del legislatore, poiché la sentenza in oggetto fa da apripista rispetto a ricorsi proponibili da altri detenuti, che versano in condizioni analoghe.
Il leit-motive dei due arresti si fonde e si perpetua al servizio del bisogno di giustizia dei più deboli: due facce di una stessa medaglia, appunto.
di Michela Allegri e Andrea Bassi
Il Messaggero, 21 ottobre 2019
Carcere se si superano i 100 mila euro di evasione fiscale. Confisca per sproporzione, già prevista per i mafiosi. E ancora: un inasprimento delle pene detentive per i principali reati tributari. Tradotto: soglie più basse per la punibilità e più anni di carcere per chi viene scoperto. Ma sono previste anche attenuanti nei confronti di chi ammetta eventuali illeciti, abbia in corso procedure di regolarizzazione e per le imprese che avviino percorsi di concordato. Il pacchetto è pronto, ha spiegato ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.
E oggi sarà in discussione in consiglio dei ministri per stabilire i dettagli della norma e decidere quale strumento utilizzare per inserirlo nella manovra: "Ancora non sappiamo se entrerà tutto nel decreto fiscale. Potrebbe infatti entrare anche nell'emendamento e quindi in corsa, in sede di conversione. Al di là di questo l'importante è che abbiamo il pacchetto sul carcere e la confisca per sproporzione per i grandi evasori", ha detto il Guardasigilli.
Ma cosa cambia? Anche se la proposta è già sul tavolo, per avere le cifre precise sarà necessario attendere, perché sono ancora oggetto di confronto e discussione. Le sanzioni detentive sono già previste nell'ordinamento italiano, ma il nuovo pacchetto prevede un inasprimento delle pene per i reati fiscali fino 8 anni di carcere, la confisca dei beni e un abbassamento da 150 mila a 100 mila euro - ma la cifra non è definitiva - della soglia per la dichiarazione infedele, per l'omessa dichiarazione e per l'omesso versamento di "ritenute dovute o certificate". In realtà, già questa appare una contraddizione rispetto alla volontà di colpire i "grandi evasori".
L'abbassamento delle soglie e il contemporaneo innalzamento delle pene, sarebbero una inversione di tendenza rispetto alla riforma del 2015, quando fu deciso di alzare i limiti oltre i quali scattano i procedimenti penali per evitare che gli imprenditori in difficoltà economica, oltre a dover fronteggiare il Fisco, dovessero poi finire davanti a un tribunale. Come nel caso degli omessi versamenti di imposte dichiarate.
Una delle ragioni della riforma firmata dal governo Renzi, era quella di colpire, per esempio, chi dichiarava correttamente le tasse, ma poi non aveva i soldi per versarle effettivamente, magari anche perché vantava ingenti crediti nei confronti della Pubblica amministrazione che venivano saldati con fortissimi ritardi. Qualcuno, come l'esponente di Leu ed ex vice ministro all'Economia, Stefano Fassina, definì questi casi "evasione da sopravvivenza".
E diverse furono le sentenze dalle quali gli imprenditori, di fronte alla scelta se pagare i dipendenti o il Fisco, uscirono assolti. Adesso, almeno da quanto trapela, l'intenzione sarebbe di tornare indietro.
Per quanto riguarda il reato di "dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti", attualmente gli anni di reclusione previsti sono un minimo di uno anno e 6 mesi, come pena minima, e 6 anni come pena massima. Secondo la nuova proposta potrebbero diventare 4 anni - pena minima - e 8 anni - pena massima -. La pena detentiva sarebbe però mitigata - cioè non muterebbe rispetto alla legge attuale - in caso di uso elementi passivi fittizi di ammontare inferiore ai 150 mila euro. In caso di utilizzo di documenti falsi o operazioni simulate per impedire i controlli la pena verrebbe aumentata.
Si alzerebbe in modo consistente anche la soglia di punibilità per il reato di dichiarazione infedele, che si consuma quando l'evasore sottrae elementi attivi, oppure aggiunge elementi passivi fittizi. In questo caso la soglia di punibilità era stata triplicata dal governo Renzi - passando da 50 mila a 150 mila euro - e ora dovrebbe scendere a 100 mila.
Secondo le intenzioni del governo, dovrebbe anche scendere a 2 milioni di euro - attualmente sono 3 milioni - l'ammontare delle attività sottratte o passività imputate necessario per finire in carcere. Ci sarà anche un inasprimento di pena: se attualmente si rischiano da 1 a 3 anni di reclusione, ne potrebbero rischiare da 2 a 5. Condanne più severe verranno previste anche per chi occulti o distrugga documenti contabili, per intralciare eventuali accertamenti.
di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei
Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019
Arriva la super Procura europea che indagherà sui reati che danneggiano gli interessi finanziari dell'Unione: dalle frodi Iva alle truffe sui contributi Ue. La legge di delegazione europea 2018 (pubblicata in Gazzetta ufficiale venerdì scorso e in vigore dal 2 novembre) dà al Governo nove mesi di tempo per adeguare le norme nazionali.
L'obiettivo è arrivare pronti all'appuntamento del n novembre 2020, data a partire dalla quale la Procura europea potrà cominciare a operare. Ma è tutta la giustizia penale a diventare sempre più europea. In base alla legge di delegazione 2018, il Governo dovrà anche rendere più stringente il mandato d'arresto europeo e adeguare le regole nazionali sul sequestro dei conti bancari per facilitare il recupero transfrontaliero dei crediti.
E cresce anche l'utilizzo degli strumenti esistenti: dagli interventi di "facilitazione" della cooperazione tra autorità giudiziarie fatti dall'agenzia Eurojust (dal 2015 al 2018 i casi seguiti sono saliti del 34%) ai mandati d'arresto europei (+8% di provvedimenti emessi dal 2015 al 2017), fino agli ordini europei di indagine penale, che hanno debuttato due anni fa. La Procura europea La nuova super Procura - prevista dal regolamento Ue 2017/1939 - è stata pensata per migliorare il contrasto alle frodi contro la Ue e ai reati connessi, come corruzione e riciclaggio, anche in collegamento con l'agenzia Europol.
Ma la Commissione europea ha proposto di allargare l'ambito d'azione anche ai reati di terrorismo. La Procura Ue è strutturata in un ufficio centrale, che ha sede a Lussemburgo ed è guidato dal Procuratore capo, in carica per sette anni: è stata nominata Laura Codruta Kiivesi, già a capo della direzione nazionale Anticorruzione rumena. A seguire le indagini saranno i "procuratori europei delegati", vale a dire Pm operativi nelle procure nazionali che però dipenderanno dalla Procura del Lussemburgo.
"È un cambio di prospettiva rivoluzionario per l'organizzazione giudiziaria italiana", rileva Francesco Lo Voi, procuratore capo a Palermo ed ex membro di Eurojust. "Sono necessarie modifiche ordinamentali rilevanti. Ritengo inoltre che non potrà essere una riforma a costo zero perché i Pm europei avranno bisogno di personale e di risorse e dovranno avvalersi della polizia giudiziaria". Per facilitare il recupero dei crediti civili e commerciali transfrontalieri, il regolamento Ce 655/2014 ha introdotto una procedura (l'ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari) che permette a un giudice di un Paese Ue di congelare il conto detenuto dal debitore in un altro Paese Ue (eccetto Danimarca e Regno Unito). È uno strumento rapido e incisivo soprattutto perché non prevede un'informazione preventiva al debitore, evitando così che utilizzi o occulti i fondi.
La legge di delegazione dà al Governo sei mesi per adeguare le regole nazionali. La legge prevede anche il rafforzamento del mandato d'arresto europeo. La disciplina attuale (legge 69/2005) andrà modificata trasformando in facoltativi alcuni motivi di rifiuto obbligatorio alla consegna del ricercato da parte delle autorità italiane. Fra questi, il caso in cui il mandato riguardi l'esecuzione di una pena per cittadini italiani che devono già scontarla in Italia. "È uno strumento che funziona molto bene" dice il procuratore di Napoli Giovanni Melillo.
di Nicola Astolfi
Il Gazzettino, 21 ottobre 2019
Il rodigino Livio Ferrari è stato nominato portavoce nazionale di "No prison", il Movimento che chiede di superare il carcere con provvedimenti alternativi alla detenzione e riservando le misure reclusive a casi di estrema pericolosità.
A Roma "No prison" è diventato una realtà associativa, con l'approvazione dello statuto e la nomina del consiglio direttivo. Le votazioni dell'assemblea costituente sono arrivate al termine di una due giorni iniziata con il seminario internazionale ospitato dalla Fondazione Basso, con relazioni di Gherardo Colombo, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Mosconi, Elisabetta Zamparutti e Mauro Palma, coordinati dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio.
Giornalista, scrittore e cantautore, fondatore e presidente del Centro francescano di ascolto di Rovigo, Livio Ferrari aveva scritto nel 2012, insieme a Massimo Pavarini, compianto professore di Diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna, il manifesto del movimento.
Nel 2015 era seguita la pubblicazione del volume "No prison", scritto da Ferrari per la Rubbettino Editore, e nell'agosto 2018 era stato edito da Eg Press di Londra un libro in inglese con lo stesso titolo, ma con contributi di intellettuali di vari Paesi del mondo che condividono l'idea abolizionista del carcere: era stato poi presentato in un convegno internazionale a Lubiana e da qui era nata l'idea di un'edizione italiana, curata dallo stesso Ferrari per Edizioni Apogeo di Adria, intitolata "Basta dolore e odio. No prison", con la prefazione di Pavarini.
Ora inizia una nuova fase, spiega Ferrari, "per costruire iniziative, progetti e documenti che riescano a porre nel dibattito pubblico l'abolizione del carcere".
Perché abolire e non riformare il carcere? "Contrariamente alla centralità del carcere proposto all'opinione pubblica come riferimento fondamentale contro i mali - risponde Ferrari - sono il sovraffollamento, il deterioramento delle condizioni di vita interne, il diradarsi e l'indebolirsi degli strumenti trattamentali come i permessi premiali e l'assegnazione al lavoro extra murario, e la restrizione delle opportunità di fruire delle misure alternative, a far riconoscere che il carcere è di per sé uno strumento inutile e dannoso, almeno nelle funzioni che oggi riveste".
Cosa propone No prison? "Lo sviluppo di ulteriori provvedimenti alternativi alla detenzione, riservando le eventuali misure reclusive a casi di estrema pericolosità. Chiediamo di gestire i comportamenti devianti e antisociali tenendo conto delle specificità che caratterizzano l'esperienza dei soggetti coinvolti, per trovare risposte che prevengano la stigmatizzazione sociale e l'emarginazione, e di andare oltre la cultura della vendetta, per introdurre metodi alternativi di gestione dei comportamenti devianti e illeciti.
No prison guarda ai conflitti nella prospettiva di ricomporre i legami sociali: per questo promuove una riflessione sulla questione penale e carceraria che possa orientare i teorici, gli addetti ai lavori, i soggetti istituzionali e l'opinione pubblica alla consapevolezza che occorre modificare le normative verso il superamento dell'istituzione carceraria".
di Mario Consani
Il Giorno, 21 ottobre 2019
Dibattito sulla sentenza europea: "Nessun automatismo, sceglie il giudice". Ora tocca alla Consulta. Fine pena, forse. In Lombardia sono 106 i detenuti a vita che in queste ore sperano. Dopo la Corte europea dei diritti dell'uomo che ne ha bocciato gli automatismi, domani tocca alla Corte costituzionale pronunciarsi sulla legittimità dell'ergastolo ostativo - il "fine pena mai" - il carcere a vita che non ammette permessi né sconti né rieducazione possibile a meno che il condannato, per lo più mafioso o 'ndranghetista, scelga di collaborare con la giustizia.
È un dibattito incandescente quello seguito alla decisione della Corte europea e che ora precede la sentenza della Consulta. Da una parte chi, in politica e nella magistratura, sostiene che dare anche a chi non si "penta" la speranza di uscire un giorno di cella (purché un giudice lo consenta) compromette gravemente il contrasto alla criminalità organizzata. Dall'altro, chi ritiene invece che l'automatismo di legare ogni possibile beneficio alla sola collaborazione con la giustizia non sia in linea con la Costituzione. Nel mezzo, chi è convinto che il nodo non si possa tagliare con l'accetta e riflette sulle mille sfaccettature della questione.
In Lombardia, più o meno come per il totale nazionale, la percentuale di ergastolani ostativi sfiora i 2/3 di tutti i condannati al carcere a vita, che in Regione sono al momento 168. I 106 "ostatitivi" sono per lo più boss ed esponenti di spicco della criminalità organizzata, e comunque tutti detenuti nel carcere di Opera. Per una piccola quota di costoro, però, la collaborazione è riconosciuta impossibile: perché non c'è più nessuno che possano chiamare in causa o perché non hanno mai avuto un ruolo che consenta loro di farlo.
Per quanto "ostativi", questi ergastolani possono dunque usufruire di permessi e di sconti. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, già nella Direzione nazionale antimafia e ora coordinatore del settore esecuzione penale della Procura, rifiuta il conflitto ideologico "tra i sostenitori dei principi costituzionali della pena ed i sostenitori della necessaria efficacia" dell'azione di contrasto a mafie e terrorismo.
"Chi pratica il contrasto all'agire terroristico e mafioso - dice - ha ovviamente il massimo rispetto delle regole costituzionali". E quindi va valutato "se le aperture all'ergastolo ostativo, rappresentate dalla collaborazione, e dalla collaborazione impossibile ed inesigibile, siano o meno idonee a garantire il rispetto della funzione rieducativa della pena", a fronte di "fenomeni criminali pericolosissimi e consolidati". Romanelli ritiene di sì, anche se - aggiunge - "senza far cadere le caratteristiche di fondo del sistema, forse è ipotizzabile un qualche ampliamento della collaborazione "impossibile"".
E proprio il caso degli ergastolani ostativi con collaborazione "impossibile", quelli "che perciò stanno usufruendo dei benefici di legge e non hanno mai dato problemi", è l'esempio citato dalla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, sul cui ufficio, nel caso di abolizione degli automatismi, ricadrà la responsabilità di valutare una per una le future richieste dei boss rinchiusi a vita. "Ma credo che l'allarme generale - osserva Di Rosa - sia focalizzato più che altro su una strategia di prevenzione generale che finora ha avuto successo anche grazie alla norma sull'ergastolo ostativo e che però potrebbe arricchirsi anche di condotte risarcitorie e riparative".
Chi non ha molti dubbi è il capo dell'Antimafia milanese Alessandra Dolci: "Dalla criminalità mafiosa - sostiene - si esce solo collaborando con l'autorità giudiziaria o con la morte. La riabilitazione senza pentimento è solo una "bella illusione". Non ho memoria di esempi positivi". Sull'altro fronte, l'avvocato penalista Valentina Alberta, che ha seguito progetti carcerari con il coinvolgimento di ergastolani "ostativi", respinge l'argomento di chi sostiene che la formula attuale della norma sia quella voluta da Giovanni Falcone.
"La versione originaria - ricorda - prevedeva il divieto di benefici a meno che non fossero acquisiti elementi idonei ad escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Prova definita "diabolica", ma di certo non obbligo di collaborazione".
A suo modo categorico è il Garante dei detenuti della Lombardia, Carlo Lio. "Vengo da una formazione socialista - premette - e la mia convinzione, che ritrovo nella Carta costituzionale, è che anche l'autore del delitto peggiore debba poter sperare che una volta scontata la sua pena gli venga offerta una seconda possibilità". Guido Salvini, tra i giudici di tribunale con maggiore esperienza, ha una posizione più sfumata. "Non sarà forse necessario esigere una collaborazione processuale - osserva - ma qualcosa lo Stato ha il diritto di pretendere. Quantomeno, che il detenuto rigetti in modo convincente le scelte passate, dica pubblicamente "non fate come me", non seguite la mia strada. Serve almeno una resa, pubblica e inequivocabile".
Carlo Nordio
Il Messaggero, 21 ottobre 2019
Nell'estate del 1982 il governo annunciò, con un fervore entusiastico, di avere dichiarato guerra implacabile e risolutiva agli evasori fiscali. La trionfalistica notizia fu divulgata con la stessa edittazione solenne di questi giorni, e con lo stessa minaccia, tanto rude quanto scontata, delle manette. Superfluo ricordare la fioritura di considerazioni etiche, economiche, sociologiche e persino religiose che accompagnarono favorevolmente questa benemerita intenzione, perché nulla è più pernicioso, in uno Stato civile, dell'impunità di chi non paga le tasse.
Se lo Stato siamo noi, e quindi siamo noi a doverlo mantenere, sottrarsi a questo dovere è anche peggio che un crimine: è uno stupido errore. Gli unici a dubitare dell'efficacia di questa ennesima grida manzoniana furono proprio gli addetti ai lavori, cioè i magistrati (tra i quali chi scrive) che conoscendo la sgangheratezza del nostro sistema penale intravidero subito le insormontabili difficoltà di una reale applicazione della sanzione detentiva ai contribuenti infedeli.
Perché il reato fiscale è di valutazione dannatamente difficile: basti dire che molti accertamenti delle Agenzie delle entrate e della stessa Guardia di Finanzia vengono ridotti o annullati dalle Commissioni tributarie. quindi il giudice penale - se non vuole attendere l'esito del contenzioso amministrativo - rischia di decidere in modo difforme dall'organismo deputato alla verifica finale. In conclusione, dopo quasi quarant'anni dalla legge 516/82,1e manette sono scattate, e solo per breve tempo, pochissime volte. Insoddisfatti di questi magri risultati, i governi successivi hanno aumentato i reati e inasprito le pene.
Niente da fare. Di evasori in galera non se ne sono mai visti. Ora il governo ci riprova. Come i Borboni della Restaurazione, non ha imparato niente e non ha dimenticato niente. Non ha dimenticato il velleitario giustizialismo dei suoi predecessori, e non ha imparato la lezione, estremamente deludente, dell'effimera minaccia dell'arma penale. Non ha imparato, cioè, che minacciare una sanzione che non riuscirai mai ad applicare è peggio che non minacciarla del tutto, perché all'inesistenza del castigo si associa il discredito di chi lo ha minacciato invano.
Non solo. Abbassando la soglia di punibilità (pare siano centomila euro) il governo smentisce sé stesso, perché la somma evasa, per quanto consistente, è del tutto sproporzionata all'entità delle pene previste, e produrrà, come conseguenza naturale, una cautela dei giudici che sconfinerà nell'indulgenza. Chi ha esperienza di processi sa bene che tanto più le pene comminate sono irragionevolmente alte tanto più quelle concretamente irrogate sono tendenzialmente basse.
Senza contare che se ad ogni accertamento provvisorio di evasione oltre i centomila euro dovesse conseguire una denuncia penale, le procure e i tribunali si intaserebbero, e i processi, compresi quelli per i grandi evasori, non si farebbero più. E non è nemmeno finita. Se la prescrizione - come pare - resterà sospesa dopo la sentenza di primo grado, le cause si allungheranno all'infinito, e quindi non solo l'evasore non finirà in galera ma lo Stato non potrà nemmeno confiscargli i beni dissimulati.
Questo è il risultato dell'ennesimo approccio dilettantesco ed emotivo a questo eterno problema, che si continua a combattere (si fa per dire) facendo la faccia feroce per mascherare un braccio debole e impotente. Mentre l'esperienza dovrebbe insegnare che l'evasione tributaria si affronta non aumentando i secondini delle galere ma il numero e la professionalità degli addetti agli accertamenti, e soprattutto semplificando e razionalizzando una normativa a dir poco demenziale.
Queste ridicole leggi, integrate da prolisse circolari e appannate da incerte interpretazioni, non consentono a nessun contribuente, neanche al più onesto, di dormire sonni tranquilli, perché sono così contraddittorie da impedire di rispettarne una senza violarne un'altra. Fornendo così il pretesto ai veri grandi evasori di ignorarle tutte, continuando a gestire capitali in paradisi fiscali europei, protetti da una altrettanto demenziale e disomogenea disciplina che nessuno si sogna di cambiare.
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