L'Arena di Verona, 17 gennaio 2015
I condannati per reati minori potranno scontare la pena lavorando gratuitamente a favore della comunità. Il sindaco Flavio Tosi e il presidente del Tribunale Gianfranco Gilardi hanno sottoscritto la convenzione tra il Comune e il Tribunale di Verona per permettere lo svolgimento di lavori di pubblica utilità a persone condannate.
Tale attività, come illustrato alla firma dell'accordo, rappresenterà un beneficio sostitutivo della pena detentiva Alla firma erano presenti anche il magistrato coordinatore della sezione dei giudici per le indagini preliminari (Gip) e dei giudici dell'udienza preliminare (Gup) Laura Donati e il direttore generale del Comune Marco Mastroianni. In base a questa convenzione, il giudice potrà disporre che la pena detentiva e la pena pecuniaria possano essere sostituite con quella del lavoro di pubblica utilità Esso consiste nella prestazione di un'attività non retribuita, a favore della collettività.
"Siamo ovviamente nell'ambito di reati minori, non certo di fatti criminali importanti", spiega il sindaco Tosi. "Infatti potranno usufruire della convenzione soggetti condannati per lo più sulla base del codice della strada, come nel caso di guida in stato di ebbrezza.
Si tratta di una misura intelligente, che va nel senso di alleggerimento del sistema penale, e che consente di commutare una condanna in lavoro socialmente utile, a vantaggio sia della comunità veronese, che di chi ha commesso il reato.
Qualche altro Comune della provincia aveva già sottoscritto una convezione di questo tipo", conclude Tosi, "ora, con questa firma, i cittadini residenti o domiciliati a Verona potranno usufruire del beneficio sostitutivo della pena nel proprio comune di appartenenza, senza doversi recare fuori".
La convenzione, della durata di un anno ma rinnovabile tacitamente di anno in anno, prevede che il Comune possa farsi carico di un numero complessivo di 12 addetti, da impiegare alla Direzione musei e monumenti, al Museo di Storia naturale, alla Galleria d'arte moderna, al settore Sport e tempo libero, al servizio Manifestazioni e nelle biblioteche pubbliche. Analoghe convenzioni con il Tribunale di Verona sono state stipulate anche da altri sei Comuni veronesi. Le ore di lavoro da svolgere variano dalle 40 alle 170 e sinora sono state circa duecento le persone che hanno beneficiato di questa misura alternativa al carcere o a una ammenda pecuniaria. "Queste sono misure che alleggeriscono il sistema penale", spiega il presidente del Tribunale, Gilardi, commentando i contenuti dell'accordo, "consentono poi condizioni di vita più favorevoli alle persone coinvolte e inoltre svolgono una funzione rieducativa, attraverso il lavoro. Per questi motivi stanno ottenendo un valido successo".
L'Arena di Verona, 17 gennaio 2015
La Procura apre indagine e per alcuni carcerati dell'Est scatta la sorveglianza stretta. Hanno filmato la vita in cella, scattandosi anche dei selfie e poi hanno pubblicato le immagini su Youtube e sui loro profili Facebook. Ed è così, che la Polizia penitenziaria s'è resa conto che alcuni cellulari erano entrati in carcere a Montorio.
Mercoledì durante i controlli sono stati trovati altri quattro cellulari nelle sezioni detentive, nell'arco di sei mesi i cellulari rinvenuti sono una ventina, un dato sconcertante. Le voci viaggiano veloci in carcere e la bravata di alcuni detenuti dell'Est ha fatto in fretta il giro dei bracci che dividono le sezioni. Una voce è arrivata anche all'orecchio di un poliziotto che ha deciso di andare in fondo a quella confidenza.
Grazie alla grande professionalità di quell'assistente della polizia Penitenziaria in servizio a Montorio e a un poca di capacità telematica, il poliziotto è arrivato a vedere i video registrati da detenuti con smart nelle celle detentive e postati su Youtube e Facebook. Il poliziotto assieme ai colleghi ha quindi eseguito la perquisizione nelle celle e sono stati ritrovati quattro telefoni cellulari. La sicurezza dell'istituto è gravemente e costantemente a rischio, basti solo pensare che un detenuto può comunicare in tempo reale ad eventuali complici la sua uscita dall'istituto per visita all'ospedale udienza o trasferimento e quindi anche organizzare la sua eventuale fuga. Nei mesi scorsi le poliziotte che lavorano in carcere avevano trovato i cellulari inseriti in vagina a parenti di detenuti. Certo è che un cellulare, in una struttura che non permette, se non autorizzati, contatti con l'esterno, diventa anche uno strumento di potere.
Questa volta è andata bene così. La leggerezza del detenuto che ha postato i video ha consentito di trovare i telefoni, ma se invece che a un delinquente superficiale e bontempone ci si fosse trovati davanti a un delinquente serio, con contatti di peso all'esterno, la situazione sarebbe potuta diventare molto pericolosa. Soprattutto per i poliziotti che lavorano dentro al carcere, perché quei video mettono a repentaglio tutta la sicurezza all'interno della struttura.
Sull'episodio la procura ha aperto un fascicolo, ai detenuti verranno applicate le restrizioni dell'articolo 14 bis, che determina la sorveglianza speciale che comporta le restrizioni strettamente necessarie per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza, all'esercizio dei diritti dei detenuti.
di Daniela Peira
www.lanuovaprovincia.it, 17 gennaio 2015
Giovane, solo, disarmato di fronte a 50 detenuti che possono circolare liberamente fuori dalle celle: è finita male per un agente di polizia penitenziaria siciliano di 24 anni che giovedì pomeriggio è stato aggredito a schiaffi e pugni tanto da finire al Pronto Soccorso. La denuncia dell'accaduto arriva da Marco Missimei, segretario provinciale della categoria della polizia penitenziaria in seno alla Uil.
"Si parla solo sempre di quando sono gli agenti di polizia penitenziaria a venire condannati per maltrattamenti (o presunti tali) a detenuti, ma fuori dal carcere non si sa come lavoriamo e quali rischi corriamo ogni momento".
L'episodio di giovedì è accaduto dintorno alle 14,30 mentre l'agente stava compilando dei verbali nel suo "gabbiotto" all'interno della sezione B2, quella in cui scontano la pena detenuti per reati comuni. Ogni sezione conta una cinquantina di carcerati. Ad un tratto è stato avvicinato da un detenuto maghrebino molto infastidito dal fatto che da qualche giorno la tv non funzionava pretendendo che qualcuno intervenisse. L'agente lo ha invitato ad allontanarsi dal gabbiotto e a calmarsi, ma per tutta risposta ha ricevuto gli schiaffi e i pugni.
"Casi come quello che è capitato giovedì - spiega Missimei - sono numerosissimi da quando è entrata in vigore la cosiddette Legge Torreggiani, introdotta dopo le sanzioni dell'Ue verso l'Italia per le condizioni di vita nelle sue carceri. La nuova norma prevede un massiccio aumento delle ore di apertura delle celle con la possibilità, per i detenuti, di circolare liberamente all'interno della sezione. Prima i detenuti passavano la maggior parte del tempo in celle ne uscivano per le tradizionali "ore d'aria" o per partecipare alle varie attività complementari in struttura." Una decisione di civiltà nei confronti della popolazione carceraria che però confligge con l'efficacia della sorveglianza e la cronica carenza di organico.
"Questo significa, nella realtà, che ogni agente di polizia penitenziaria, nel suo turno, da solo deve sorvegliare cinquanta detenuti che si spostano ovunque - dice Missimei - senza contare che, proprio per la carenza di organico, può capitare di dover sorvegliare due sezioni insieme, quindi cento detenuti, e per otto ore di seguito. Capite che si moltiplicano le occasioni di scontro, di tensioni e, nel caso peggiore, la sproporzione numerica gioca a sfavore degli agenti." A supportare le preoccupazioni del segretario alcuni dati statistici riportati durante il congresso nazionale di tre mesi fa. "Dall'entrata in vigore della Torreggiani con l'apertura delle celle, sono diminuiti i casi di suicidi e di gesti autolesionistici fra i detenuti ma sono quasi raddoppiate le aggressioni agli agenti e i suicidi fra il personale di custodia. Bisogna riorganizzare in fretta tutto per garantire sì i diritti dei detenuti, ma anche la sicurezza degli agenti che operano".
www.lultimaribattuta.it, 17 gennaio 2015
Ancora una bella iniziativa organizzata da Gruppo Idee, associazione nata all'interno del carcere di Rebibbia, dalla volontà di un gruppo di detenuti di dimostrare alla società che gli sbagli compiuti e la privazione della libertà non impediscono la capacità di rinnovarsi e di restituire. Lunedì 19 gennaio 2015, alle ore 12.00, si sfideranno sul campo di calcio della casa circondariale di Frosinone, la squadra del penitenziario e la rappresentativa dell'associazione italiana arbitri, sezione di Frosinone.
Si giocherà per dimostrare, ancora una volta, come il carcere possa essere anche un luogo di solidarietà e di confronto reciproco, come valori quali il rispetto delle regole e dell'avversario possano essere universali, a prescindere dalla realtà che si vive. Sarà senza dubbio un match entusiasmante e il risultato sarà naturalmente ininfluente, perché lo scopo del match è quello di abbattere le barriere del pregiudizio per lanciare, da un luogo "difficile" come la prigione, un messaggio distensivo a tutto il mondo sportivo.
"Gruppo Idee ci tiene inoltre a sottolineare che l'iniziativa non vuole essere un incontro sporadico o un momento di solidarietà verso i detenuti limitato a questa giornata ma bensì il proseguimento di un progetto sportivo e sociale nato dal grande lavoro comune fatto nell'Istituto da tutte le parti coinvolte nella delicata opera di reinserimento sociale e che ha come obiettivo quello di portare la squadra, guidata abilmente dal Mister Antonio Colasanti, a giocare in campionati riconosciuti". Un plauso e il sentito ringraziamento da parte dell'Associazione va alla direzione del carcere di Frosinone, nelle figure del direttore Francesco Cocco, del comandante dell'Istituto Elio Rocco Mare, che da subito hanno sostenuto questa iniziativa. Tutti possono sbagliare, l'importante è dare il modo per dimostrare di aver capito gli errori. E questa è la missione che porta avanti Gruppo Idee.
di Donatella Stasio
Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2015
"La prison c'est la putain meilleure école de la criminalité": non hanno bisogno di traduzione le parole con cui nel 2008 Amedy Coulibaly, uno dei tre attentatori di Parigi, raccontò a France 2 la sua esperienza in carcere, dov'era finito con una condanna per rapina. E dove cominciarono la sua radicalizzazione e il suo reclutamento nella jihad grazie all'incontro con Djamel Beghal, figura dell'islam radicale.
"Come si fa a imparare la giustizia con l'ingiustizia?" chiedeva provocatoriamente Coubaly. Certo non c'era bisogno della sua testimonianza per sapere che le prigioni sono formidabili scuole del crimine e di reclutamento di detenuti comuni ad opera di "veterani". Basti solo pensare che più di un secolo fa Filippo Turati ammoniva che "le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori".
E se non bastasse, ecco anche un riscontro scientifico, documentato in una ricerca su "carcere e recidiva" senza precedenti in Italia e all'estero, effettuata (su impulso del Sole 24 ore) dagli economisti Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni: quanto più il carcere è rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali dei detenuti, tanto più è in grado di ridurre la loro recidiva; per ogni anno passato in un carcere "a misura dei diritti", infatti, la recidiva si riduce di 10-15 punti percentuali (a partire da una media del 40 per cento circa). Gli attentati di Parigi e la storia degli attentatori rilanciano questo tema, anche per la tutela della sicurezza collettiva.
In Italia, su 54mila detenuti, 13mila sono musulmani ma solo 10 stanno dentro per terrorismo internazionale (articolo 270 bis del Codice penale). Numeri bassissimi rispetto alla Francia (67mila detenuti di cui 25mila musulmani: 152 radicalizzati e monitorati e di questi 22 in isolamento) dove dopo gli attentati si pensa a forme più rigide di isolamento carcerario. Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha segnalato l'esigenza di "isolare" le cellule terroristiche per evitare che il carcere sia - come purtroppo è stato - un "incubatore" dell'estremismo.
Ma non si sta pensando al 41 bis, cioè all'isolamento completo del detenuto con la sospensione di una serie di diritti per recidere i suoi legami con l'esterno, quanto piuttosto a un'intensificazione del regime di "Alta sicurezza, livello 2" dove attualmente scontano la pena i "radicalizzati": un circuito a sé (che coincide con le carceri di Asti, Benevento, Macomer e Rossano), separato da quello dei detenuti "comuni", per evitare rischi di proselitismo, sebbene anche i detenuti comuni siano potenzialmente a rischio, tant'è che sono comunque sottoposti a un monitoraggio costante.
Questa particolare "attenzione" dell'Amministrazione penitenziaria risale al 2005, anche a seguito di indagini nelle carceri di Italia, Francia e Regno unito, e fa leva sulla formazione specifica del personale, sulla sistemazione dei detenuti estremisti, sulla pratica religiosa in prigione, sull'accesso e formazione degli imam, sulla preparazione dell'uscita dal carcere e soprattutto su una serie di indicatori della radicalizzazione.
Il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto resta, tuttavia, una precondizione essenziale anche per contrastare il rischio di radicalizzazione. I risultati ottenuti da Terlizzese-Mastrobuoni - il paper "Rehabilitation and Recidivism: Evidence from an Open Prison" è pubblicato sul sito dell'Eief, Einaudi Institute For Economics And Finance, e Il Sole 24 ore ne ha dato conto il 29 maggio 2014 - documentano la straordinaria incidenza sulla recidiva del fatto di trovarsi in un ambiente non degradante e rispettoso dei propri diritti.
"Per noi è uno studio fondamentale" dice Mauro Palma, nominato il 5 dicembre vice capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria (Dap), anche se ancora non c'è il decreto di nomina, nonché presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale. "In Europa c'è grande attenzione - spiega - alla radicalizzazione come processo di trasformazione del responsabile di un reato in vittima: entri in carcere come responsabile di un reato ma poi ti percepisci come vittima perché i tuoi diritti non vengono rispettati. Per cui quando esci, esci come persona che ha subìto un'ingiustizia. E questo alimenta odio sociale".
In sostanza, la radicalizzazione è anche "il risultato di un'esclusione sociale, di cui il carcere è l'ultimo anello della catena". Di qui la necessità di "diminuire la vittimizzazione" sia attraverso il rigoroso rispetto dei diritti fondamentali sia attraverso una riflessione del detenuto sulla ferita sociale che la sua condotta criminosa ha provocato. E su questo c'è molto da fare.
"Per le persone che vengono da contesti sociali deprivati - prosegue - il carcere è un ulteriore elemento di deprivazione culturale, di ghettizzazione, di cui si nutre la radicalizzazione". Per molti anni Palma è stato presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e in questa veste ha girato moltissime carceri. "Il torto della Francia - osserva - è aver ghettizzato moltissimo, dividendo i detenuti per omogeneità culturali, mentre l'Italia ha scelto la via della disomogeneità" ricorrendo ai mediatori culturali". Riproporre in carcere "la banlieu parigina", il "quartiere ghetto", è un errore, perché "dà una falsa identità dell'appartenenza".
www.98zero.com, 17 gennaio 2015
"Non vorrei che di fronte ad accuse di tale rilievo passi il messaggio di una colpevolezza a prescindere e quindi Massimo Romagnoli venga lasciato al suo destino nel disinteresse generale". Così il senatore Aldo Di Biagio commenta la scelta di aver presentato una interrogazione parlamentare affinché il Governo prenda in mano le redini della situazione contorta e delicata di Massimo Romagnoli, cittadino italiano accusato dagli Stati Uniti di traffico d'armi e contro cui è stato disposto una richiesta di arresto internazionale.
"Con la mia interrogazione ho proprio voluto richiamare l'attenzione delle Istituzioni competenti sul caso di Romagnoli perché gli venga dato il massimo sostegno da parte del suo Paese", aggiunge. Sembra la scena già vista di una pellicola hollywoodiana, quella della vicenda che vede coinvolto Massimo Romagnoli, ex deputato di Forza Italia.
E le accuse sono pesantissime. Secondo la procura di New York, l'ex deputato sarebbe incriminato di cospirazione a fini di uccisione di ufficiali e impiegati di cittadinanza americana e loro collaboratori. Più precisamente, Romagnoli avrebbe cospirato in modo 'indiretto' contro gli Stati Uniti, fornendo armi e altro materiale di supporto agli esponenti delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc), con la consapevolezza che tale organizzazione svolge attività terroristica.
Attualmente, Massimo Romagnoli è detenuto nel carcere montenegrino di Podgorica dal 16 dicembre scorso, ma la situazione è tutt'altro che chiara. La Procura di New York contesta a Romagnoli un unico incontro dell'8 ottobre 2014, a Tivat, in Montenegro, nel corso del quale - come si legge sull'atto di accusa - avrebbe dato la disponibilità alla vendita di armi, benché fosse stato dichiarato dai sedicenti acquirenti che esse erano destinate alle Farc. Inoltre, Romagnoli avrebbe garantito la fornitura di certificati falsi di esportazione degli armamenti fondamentali per far risultare legittimo il possesso delle armi.
Romagnoli si dice innocente, e sostiene "di non essere mai stato un trafficante di armi con base in Grecia" come riferito nell'atto di accusa, e soprattutto di non aver mai, neanche per un momento, sospettato che le armi fossero destinate ad azioni terroristiche.
di Alessandro Di Liegro
Il Messaggero, 17 gennaio 2015
La Cia avrebbe coperto l'omicidio di tre detenuti, avvenuto nel 2006 all'interno della prigione di massima sicurezza di Guantánamo, coprendo l'accaduto come un triplice suicidio. A testimoniare l'accaduto il sergente dell'esercito Joseph Hickman, che all'epoca dei fatti era di guardia nel campo di prigionia cubano nella notte in cui i tre sarebbero stati uccisi.
I prigionieri erano Salah Ahmed Al-Salami, 37 anni dello Yemen, Mani Shaman Al-Utaybi, 30 anni dall'Arabia Saudita e Yasser Talal Al-Zahrani, 22 anni, anche lui saudita. "I detenuti avrebbero dovuto legarsi mani e piedi insieme, mettersi una maschera in faccia, fare un cappio, appenderlo al soffitto della cella, e saltare insieme. Tutto questo mi sembra impossibile.
Noi avevamo l'ordine di controllare i detenuti ogni quattro minuti" avrebbe detto Hickman in una videointervista rilasciata a Vice News. Il sergente riferisce anche di una ispezione nelle celle poche ore prima dell'accaduto in cui le guardie non avrebbero trovato nulla che potesse essere credibilmente stato usato per creare i cappi. Hickman ha appena scritto un libro, "Omicidio al Camp Delta", con cui spera di dare un contributo alla ricerca della verità sulle torture perpetrate all'interno del campo di prigionia sulle quali sta indagando il Senato degli Stati Uniti.
"Speravo di lasciarmi Guantánamo alle spalle. Non volevo ricordare nulla di quel periodo. Era come un brutto sogno", continua Hickman "Poi ho visto un altro detenuto impiccato. Quindi ho voluto andare più a fondo per scoprire cosa realmente stava succedendo".
Nella notte del 9 giugno 2006, Hickman era di guardia al campo Delta quando ha visto un furgone rientrare al blocco Alpha tre volte distinte, ogni volta prendendo un prigioniero e portandolo fuori dal campo. Ha visto il furgone uscire dal checkpoint Acp Roosevelt, che portava solo in due posti: la spiaggia e il Campo No, dove c'era un ufficio segreto della Cia. "Fra le 23 e le 23.30 ho visto il furgone tornare al Campo Delta e dirigersi verso la clinica medica. Dopo 10 minuti il caos: tutte le luci si sono accese e le sirene hanno iniziato a suonare. I prigionieri erano morti" ricorda.
Hickman riferisce che i tre si erano impegnati in uno sciopero della fame, cosa che stava ispirando gli altri detenuti a fare lo stesso. "La policy di sicurezza era che non si poteva interrogare chi stava facendo lo sciopero della fame. Nel 2006 la Cia ha fatto circa 200 interrogatori a settimana, cosicché ogni sciopero della fame era visto come una diminuzione della possibilità di intelligence per recuperare informazioni".
Detenere persone senza valide accuse nei loro confronti è considerato illegale secondo la carta dei diritti dell'uomo. Il paradosso è che il motto di Guantánamo è "Sicuri, umani, legali, trasparenti". "Pensavo che Guantánamo fosse quello di cui c'era bisogno, il clima legato alla guerra stava cambiando e avevamo bisogno di un posto sicuro dove detenerli e interrogarli", conclude.
Il Senato ha stilato un rapporto sulle torture perpetrate dalla Cia sui detenuti a Guantánamo e le carte rilasciate dalla Cia sono state date a una commissione composta da cinque senatori. In questi giorni si è scoperto che la stessa agenzia di intelligence stava spiando i computer della commissione, col timore che venissero rilevati informazioni segrete. Dagli uffici della Cia si parla di una semplice incomprensione legata agli obblighi di controllo e sicurezza del National Security Act".
Aki, 17 gennaio 2015
Le autorità pakistane hanno impiccato Ikramul Haq, un militante sunnita dell'organizzazione fuorilegge Sipah-i-Sahaba Pakistan (Ssp), condannato a morte dal tribunale dell'anti terrorismo di Faisalabad nel 2004 per aver ucciso un musulmano sciita. Lo hanno riferito fonti della polizia e lo ha confermato il suo avvocato Ghulam Mustafa Mangan.
L'uomo era stato perdonato dai familiari della vittima lo scorso 8 gennaio, ma un tribunale ha respinto il compromesso raggiunto tra le parti e confermato la pena capitale. Con l'impiccagione avvenuta oggi nel carcere centrale di Kot Lakhpat a Lahore salgono a 19 le condanne a morte eseguite dalla revoca della pena di morte da parte del premier Nawaz Sharif dopo il massacro compiuto il 16 dicembre dai Talebani in una scuola pubblica dell'esercito a Peshawar e costato la vita a 150 persone, di cui 134 bambini. Le Nazioni Unite, l'Unione Europa, Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto al Pakistan di ripristinare la moratoria sulla pena di morte, che è rimasta in vigore dal 2008 al dicembre scorso.
Reuters, 17 gennaio 2015
Fa scalpore la notizia diffusa dal quotidiano britannico Daily Mail riguardo alle autorità filippine che, in occasione della visita di Papa Francesco, per mantenere le strade "pulite", hanno provveduto a portare centinaia di bambini di strada nelle carceri. Questo tipo di detenzione provvisoria sarebbe già stata applicata anche in altre occasioni, scrive il quotidiano, come nel caso della visita del presidente americano Barack Obama.
Secondo quanto descrive il Daily mail, "i bambini sono terrorizzati e rinchiusi in centri di detenzione lerci, dove dormono sui pavimenti e dove molti di essi sono picchiati o diventano vittime di abusi da parte di detenuti adulti, e in alcuni casi vengono incatenati a delle colonne". Il quotidiano si riferisce più precisamente ad un centro di detenzione a Manila e non è chiaro se vi siano altri casi nel resto dell'arcipelago.
I giornalisti hanno visitato il centro di detenzione in compagnia di un sacerdote irlandese, Padre Shay, attivo da 40 anni nelle Filippine: "Purtroppo, non c'è modo che il Papa visiti questi penitenziari a Manila", ha dichiarato, con rammarico, il sacerdote, sottolineando che "è una vergogna per la nazione. Le autorità sarebbero preoccupate se il santo padre vedesse come vengono trattati i bambini".
Il caso segue un'altra vicenda che lo scorso anno ha sconvolto l'opinione pubblica. Infatti, una fotografia ritraeva un bambino di 11 anni, ridotto in condizione scheletriche, steso a terra, apparentemente morente, detenuto in uno dei centri della capitale, il Manila Reception and Action Centre (Rac). Il bambino al quale è stata dato il nome del Papa, è stato salvato da alcuni volontari. Tuttavia, secondo le stime vi sarebbero circa 20 mila bambini detenuti nei vari penitenziari della città.
Il ministro dell'Interno, Manuel Roxas, ha respinto il coinvolgimento della polizia nazionale mentre Rosalinda Orobia, responsabile dei servizi sociali del dipartimento del welfare di Manila, ha ammesso che gli agenti hanno recluso per settimane i bambini che sostavano nelle aree centrali, interessate dalla visita del Santo Padre. Il ministro per il welfare Corazon Soliman ha invece negato la detenzioni de bambini, affermando che "chi abusa dei minori finisce in carcere". Tuttavia, come riportano i media, nella maggior parte dei casi "pulizia delle strade" viene effettuata dalle amministrazioni locali.
di Fabio Scuto
La Repubblica, 17 gennaio 2015
La Corte penale internazionale (Cpi) ha aperto un'inchiesta preliminare per verificare se siano stati commessi "crimini di guerra" durante il conflitto della scorsa estate tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. La Corte penale internazionale (Cpi) ha aperto un'inchiesta preliminare per verificare se siano stati commessi "crimini di guerra" durante il conflitto della scorsa estate tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.
Ma l'indagine riguarda anche alcune fazioni palestinesi nonché il lancio di razzi da parte di Hamas su territori altamente popolati. "Il procuratore del Tribunale penale internazionale Fatou Bensouda ha aperto un'inchiesta preliminare sulla situazione in Palestina - ha fatto sapere l'ufficio dei procuratori del Cpi - che non equivale a un'indagine, ma si tratta di esaminare le informazioni a disposizione in modo da poter essere pienamente informati e valutare se ci sia una base ragionevole per procedere con un'indagine", ha spiegato il Cpi.
L'Autorità palestinese lo scorso primo gennaio nell'aderire alla Corte ne aveva riconosciuto la competenza a partire dal 13 giugno 2014, data in cui Israele lanciò una vasta campagna di arresti nella Cisgiordania occupata edando poi il via alla guerra su Gaza, nella quale morirono 2100 persone, gran parte delle quali civili. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deprecato la decisione del Tribunale. "È scandaloso che pochi giorni dopo che dei terroristi hanno massacrato ebrei in Francia, il procuratore del Tpi apra un'inchiesta contro lo Stato ebraico", ha detto Netanyahu, "E questo perché difendiamo i nostri cittadini da Hamas, un gruppo terrorista... Sfortunatamente ciò fa sì che questo Tribunale sia parte del problema e non della soluzione".
L'Autorità nazionale palestinese aveva presentato domanda di adesione al Tpi il 1 gennaio. Il presidente palestinese Abu Mazen aveva chiesto alla Corte di indagare sui crimini commessi da Israele "nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, dal 13 giugno 2014".
Compresi anche i 51 giorni di conflitto di questa estate tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza, costati la vita a più di 2.100 palestinesi, la maggior parte civili secondo l'Onu. Da parte israeliana, nel conflitto hanno perso la vita 67 persone. "Lo statuto di Roma non impone alcuna scadenza per prendere una decisione relativa a un esame preliminare" ha ricordato l'ufficio della procura della Cpi: una simile procedura è già in corso in Afghanistan, Colombia, Georgia, Guinea, Honduras, Iraq, Nigeria ed Ucraina.
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