di Antonella Barone
gnewsonline.it, 14 luglio 2020
Gli effetti positivi dell'interazione tra persone in stato di detenzione e cani o altri animali da compagnia sono ormai documentati da numerosi studi e ricerche. I risultati più apprezzabili sono stati riscontrati sul piano socio-relazionale dei detenuti e su quello della responsabilizzazione che il prendersi cura di un animale comporta. Il successo dei tanti progetti già avviati in istituti penitenziari italiani ha portato a una loro progressiva estensione ad altre realtà carcerarie e a diverse tipologie di detenuti.
È di pochi giorni fa la sottoscrizione di un protocollo d'intesa tra la Fondazione Cave Canem e la Casa circondariale di Napoli Secondigliano per la realizzazione del progetto "Fuori dalle gabbie". La Fondazione, già partner di un'analoga collaborazione con la casa di reclusione di Spoleto, attiverà a breve un percorso formativo che offrirà ai detenuti coinvolti competenze per l'assistenza e la cura dei cani e dei gatti randagi, vittime di abbandono o di maltrattamenti.
Il progetto, che inizierà con la parte teorica il 20 luglio, oltre a fornire un'occasione di riscatto sociale offre anche delle competenze spendibili all'esterno in prospettiva di un futuro reinserimento lavorativo. Il progetto "Qua la zampa" all'interno della casa circondariale di Pavia prevede, invece, la realizzazione di un canile negli spazi verdi del carcere.
Protagonisti dell'accordo sono l'associazione di volontariato "Amici della mongolfiera Onlus", il Dipartimento Veterinaria Ats Pavia, la clinica veterinaria S. Anna e la scuola cinofila "Il Biancospino" di Casteggio.
La struttura consentirà soprattutto ai detenuti con problemi di carattere psichiatrico di prendersi cura degli animali e di conseguire il patentino di educatore cinofilo, una volta attivati i relativi corsi di formazione. Il progetto, finanziato dalla Fondazione Banca del Monte, rientra tra le azioni promosse dal Tavolo permanente in tema di sicurezza psichiatrica per il contenimento del disagio psichico delle persone detenute nel territorio della provincia pavese.
di Antonio Polito
Corriere della Sera, 14 luglio 2020
Il ritorno alla normalità è sempre un momento difficile per chi ha vissuto tempi eccezionali. Non si può avere nostalgia di un'epidemia, come non si può averne della guerra. Ma anche chi ha vinto una guerra, come Churchill, ha avuto nostalgia dello stato di emergenza che essa portava con sé, perché consentiva di chiedere al popolo "sangue, lacrime e sudore" e di ottenerlo senza discutere.
La storia ci dimostra che questa nostalgia è perniciosa per i politici, e che a volerla prolungare oltre il dovuto si può finire per perdere le elezioni dopo aver vinto la guerra, come accadde proprio allo statista inglese nel 1945. Ma il ritorno alla normalità è sempre un momento difficile per chi ha vissuto tempi eccezionali. Perfino de Gaulle soffrì di questa sindrome della trincea: liberata la Francia, ma deluso dal tran tran democratico del dopoguerra, si ritirò dalla politica nell'"esilio" di Colombey-les-Deux-Églises.
In tale compagnia, Giuseppe Conte può dunque essere scusato se, annunciando la proroga dello stato d'emergenza, ha dato la sensazione di trovarcisi a suo agio. I critici potrebbero notare che "emergenza" è qualcosa che emerge, un problema che si appalesa all'improvviso, ma purtroppo per noi il Covid-19 è tutt'altro che questo, nel senso che è emerso da tempo, viene da lontano e va lontano, ne conosciamo la pericolosità e abbiamo anche imparato a combatterlo molto meglio. Si potrebbe anzi dire che continuando a proporlo come un'emergenza il premier sottovaluti la capacità mostrata dal suo governo e dalle istituzioni pubbliche italiane nel fronteggiarlo e rinchiuderlo in sacche e focolai. Ciò che sta "emergendo", piuttosto, è la crisi economica e sociale; ma quella non si risolve con i Dpcm.
Qui non è in discussione se il Covid sia oppure no ancora attivo e pericoloso: lo è eccome, visto che ha appena fatto il record mondiale dei contagi in un giorno. E negli Stati governati dai negazionisti, come Usa e Brasile, le cose vanno anche peggio. Il dubbio è se vada ancora affrontato come un'emergenza. È del resto lo stesso governo a dirci che dobbiamo imparare a conviverci, che sarà ancora lunga. Ma se la convivenza è la nuova normalità, come si concilia con lo stato d'eccezione?
C'è davvero bisogno di uno stato di emergenza per far rispettare norme già esistenti ma ormai dimenticate, come il divieto di assembramento e l'uso della mascherina?
La nostalgia dell'emergenza può prendere non solo chi si è trovato ad avere in mano le leve del potere, ma anche i semplici cittadini. Al netto del dolore e del cordoglio che ha davvero unito tutti, ci sono tra i sei e gli otto milioni di italiani abbastanza fortunati da avere un lavoro che si può fare a distanza; e che dunque non solo non l'hanno perso, ma riusciranno anche a conciliarlo meglio con la famiglia e il tempo libero.
Se sono uomini, non donne costrette a scegliere tra il figlio e il lavoro, e se hanno anche una casa comoda e spaziosa, immagino che molti di loro non siano così ansiosi di tornare alla vita di prima. È probabile che anche i percettori di reddito di cittadinanza, e in generale di sussidi o bonus non legati a un posto di lavoro, temano il momento in cui finirà l'emergenza, perché finiranno anche i soldi. Luglio e agosto si prestano bene all'evidente clima di rilassatezza nazionale. Ma che accadrà a settembre, se non si torna alla normalità?
Ci sono pericolose distorsioni che lo stato d'emergenza inevitabilmente induce. Per esempio: sembra che la salute pubblica si misuri oggi con le variazioni percentuali del bollettino dei contagi, che si applicano tra l'altro a numeri ormai fortunatamente piccoli. Ma se pubblicassero un bollettino quotidiano dei malati di tumore in lista d'attesa negli ospedali scopriremmo che c'è purtroppo una "normalità" non meno grave e precedente all'emergenza. Verrebbe da pensare che l'indifferenza per i 37 miliardi resi disponibili dal Mes nasca proprio da questo strabismo: più facile tamponare l'emergenza che riformare il sistema sanitario.
È apprezzabile che la presidente Casellati abbia deciso di mettere fine alla "invisibilità" della sua Camera (si vede che l'altro presidente, Fico, ritiene invece la sua visibilissima). Ma il problema non è tanto farsi vedere, anche se questa è sicuramente un'attività in cui al nostro premier - non il primo né l'ultimo - piace eccellere.
Il guaio è che lo stato di emergenza è l'humus ideale per i rischi di "dispotismo democratico", per quanto benevolo esso possa apparire; perché è la situazione tipica in cui "chi rifiuta di obbedire alla volontà generale vi sarà obbligato, lo si forzerà a essere libero", e per cui si può chiedere a ogni cittadino "l'alienazione totale, con tutti i suoi diritti, alla comunità". Sono, come è noto, frasi tratte da Il Contratto sociale di Rousseau. E spiegano bene perché la piattaforma dei Cinque Stelle non si chiami "Voltaire" o "Kant".
napolicittasolidale.it, 14 luglio 2020
L'associazione che opera nel carcere di Pozzuoli apre un bistrot a Galleria Principe. Apre uno scorcio sui più bei progetti di rinascita carceraria italiani: il bistrot Le Lazzarelle. Ci lavoreranno le detenute del carcere di Pozzuoli dove la cooperativa Le Lazzarelle opera con la torrefazione del caffè dal 2010.
Il 22 luglio alle 18 inaugura Lazzarelle Bistrot nella Galleria Principe a Napoli, in uno dei luoghi più belli e suggestivi della città. Il Bistrot, realizzato grazie al supporto della Fondazione Charlemagne, aspira a diventare un luogo di socialità, incontri e appuntamenti culturali, dove bere il nostro ottimo caffè e mangiare in modo sano ed economico. Un punto di snodo e di intreccio di relazioni autentiche che ospiterà anche i prodotti che provengono da tutte le realtà detentive del nostro paese e dove continueremo la nostra esperienza di riscatto ed emancipazione tutta femminile.
Sono circa 70 le donne che la cooperativa ha seguito e formato dal 2010 all'interno del carcere nel progetto del caffè Le Lazzarelle, adesso è giunto il momento di uscire fuori dalle sbarre. "Questo è un progetto che abbiamo da un paio di anni - spiega la presidente Imma Carpiniello, aprirsi alla città era diventato fondamentale per delle donne chiuse in carcere tanto tempo. Vogliamo dare la possibilità alle detenute che lavorano con noi apprendendo la torrefazione di fare l'ultima parte della pena lavorando in esterna, grazie ai benefici delle misure alternative.
Quando sei deprivato della libertà ti manca l'orientamento e la possibilità di relazionarti all'esterno ed è difficile cominciare a ripensare al quotidiano invece la chiusura del cerchio fa sì che le detenute possano reintegrarsi nella società in modo protetto e graduale. Le statistiche dicono che laddove inizi un percorso lavorativo in carcere la recidiva cala del 90%. L'abbiamo visto nel lavoro all'interno, e speriamo di riconfermarlo all'esterno".
pupia.tv, 14 luglio 2020
Piccole attività industriali in carcere: come la produzione di pannelli fotovoltaici, ad esempio. Una proposta concreta da inserire nel programma di Italia Viva per le Regionali 2020 in Campania, formulata da Mariano Scuotri, 21 anni, componente dell'Assemblea Nazionale del partito di Renzi e consigliere comunale della città di Aversa.
"Data la consistenza della popolazione carceraria in Campania (terza regione italiana per popolazione) - spiega Scuotri - l'ente Regione può finanziare questa attività, trattandosi di una sua competenza (quella della formazione professionale): non farebbe concorrenza alle aziende già esistenti e ciò formerebbe i detenuti sia per la produzione industriale che per la posa in essere del prodotto".
"Trattandosi, poi, di attività che sono finanziate dal Fondo sociale europeo, - continua - i manufatti realizzati sarebbero già di proprietà della regione che li potrebbe poi cedere agli enti locali che ne facessero richiesta per i loro consumi energetici. In questo modo avremmo costruito una filiera no profit piena".
"Aggiungo - conclude Scuotri - che ci sono tanti brevetti industriali scaduti di attrezzature del genere che potrebbero essere rilevati a costi irrisori, e anche l'impatto sul sociale sarebbe immenso: ci sono comuni che impegnano parti importanti delle loro risorse per l'assistenza ai familiari dei detenuti, specialmente ai minori".
di Gianluca Amadori
Il Gazzettino, 14 luglio 2020
Le Camere penali chiedono l'ispezione al ministero: "Gravità enorme". Corte d'appello di Venezia nell'occhio del ciclone. L'Unione delle Camere penali del Veneto e i 7 presidenti delle Camere penali della regione, informata l'Unione nazionale delle Camere penali, hanno sollecitato il ministero della Giustizia a disporre un'ispezione urgente per quelle che ritengono essere bozze di alcune sentenze già scritte, con tanto di condanna e indicazione dei termini di deposito delle motivazioni, prima ancora che l'udienza venisse discussa.
Un fatto di "enorme gravità", ha denunciato il direttivo della Camera penale veneziana in una lettera inviata ieri a tutti gli avvocati per informarli di quanto accaduto e auspicare che venga restituita al più presto "chiarezza ai rapporti processuali ed al giudizio d'appello nella nostra Corte".
"Nessuna sentenza già scritta, ma una semplice bozza di ipotesi di decisione, predisposta dal giudice relatore sulla base di uno schema predisposto dal Csm e come consentito dalla Cassazione", replica la presidente della Corte d'appello lagunare, Ines Marini.
Tutto ha preso il via a seguito della segnalazione pervenuta da due legali veneziani in relazione all'udienza dello scorso 6 luglio di fronte alla prima sezione penale della Corte.
Un avvocato comunica alla Camera penale di aver ricevuto a mezzo pec, con tre giorni di anticipo rispetto all'udienza di discussione, "le motivazioni della sentenza di rigetto ricavate attraverso quello che appare essere il copia e incolla di altra sentenza redatta nell'ottobre del 2016".
Quindi, il giorno dell'udienza, un'avvocatessa segnala che alle difese, prima che iniziasse la discussione, era stato consegnato "l'ordito motivazionale della sentenza, comprensivo del dispositivo, che disattende le tesi degli appellanti".
In aula chiede informazioni anche il sostituto procuratore generale, Alessandro Severi, e i casi vengono rinviati al 2021. Si trattava di procedimenti che, dopo la sentenza di prima grado, si erano prescritti per il troppo tempo trascorso, ma la decisione era in ogni caso attesa per la presenza di parti civili che reclamano un risarcimento per i danni sofferti. E, nel caso di condanna, poi prescritta in appello, il risarcimento è comunque dovuto.
La Camera penale veneziana a sua volta protesta nei giorni successivi scrivendo una dura lettera sia alla presidente della Corte d'appello, che al procuratore generale, Antonello Mura. Ines Marini si attiva immediatamente chiedendo una relazione alla presidente del collegio giudicante, Luisa Napolitano e al coordinatore delle sezioni penali, Carlo Citterio, per poi dare riscontro alla richiesta di spiegazioni degli avvocati, trasmettendo loro i documenti richiesti. Le "copie autentiche dei verbali delle udienze e di ben 7 pronunce complete di motivazione e di dispositivo", precisa la Camera penale veneziana, presieduta da Renzo Fogliata.
"Uno sconcertante quadro documentale che rischia di legittimare l'ipotesi che esista una sorta di prassi di precostituzione del giudizio non solo rispetto alla camera di consiglio, ma anche alla discussione delle parti", denuncia il direttivo dell'associazione che riunisce i penalisti della provincia di Venezia. In sostanza gli avvocati ritengono che le sentenze siano state scritte prima della discussione del processo, e dunque senza neppure ascoltare pubblico ministero e difensori.
"Quegli schemi, del tutto legittimi, sono stati trasmessi per errore agli avvocati, gettando ombre su decisioni che vengono sempre prese in camera di Consiglio, dopo aver ascoltato tutte le parti - precisa Ines Marini. Sono sorpresa della decisione della Camera penale di rivolgersi al Ministero: non appena ho ricevuto la loro segnalazione mi sono immediatamente attivata per assumere i provvedimenti necessari, a garanzia della massima trasparenza e dunque trasmettendo tutti gli atti richiesti. Comprendo che gli avvocati possano avere frainteso, ma sono amareggiata. Le decisioni non erano state prese, lo ribadisco".
La presidente della Corte ricorda gli enormi sforzi compiuti in questi anni dalla Corte veneziana per cercare di gestire gli enormi arretrati con una cronica carenza di personale: "Abbiamo introdotto la relazione introduttiva scritta, anticipata agli avvocati invece che letta in aula, per cercare di accelerare i processi e per poterne trattare un numero superiore. Insomma, per offrire un servizio migliore. Spiace che si vogliano gettare ombre su un'attività svolta sempre nell'ambito dei confini costituzionali".
di Manuela Galletta
giustizianews24.it, 14 luglio 2020
Tutelare la salute sempre e comunque. Anche se il diritto da preservare è quello di una persona che ha commesso un reato ed è in carcere per il saldare il suo debito con la giustizia. Così dovrebbe essere ma così non è. Non sempre.
La storia di Antonio Avitabile, 44enne di Torre Annunziata (in provincia di Napoli), è una di quelle che racconta come sia difficile, per un detenuto, vedersi riconosciuto il diritto alla tutela della salute garantito dalla Costituzione. Una storia non rara, ma che raramente fa scalpore e sollecita l'interesse dei politici che, al contrario, sono sempre vigili quando si è in presenza di una scarcerazione concessa (per gravi motivi di salute).
Avitabile è attualmente detenuto nel carcere di Poggioreale dove sta scontando una condanna definitiva per rapina. Tuttavia, denuncia l'avvocato Michele Riggi, la casa circondariale partenopea non è in grado allo stato di assicurargli tutte le cure adeguate al suo particolare e grave stato di salute. Avitabile è affetto da cancro della laringe, patologia attestata alla fine del giugno scorso dal medico legale Ernesto Izzo (nominato dall'avvocato Riggi). Il tumore si è ripresentato dopo molti anni a causa "di cure non adeguate".
E, adesso, rischia di mettere Avitabile in serio pericolo di vita. "Il mio assistito ha bisogno infatti di cure specialistiche e di un intervento chirurgico non più procrastinabili", spiega l'avvocato Riggi che da diverse settimane lotta, a suon di istanze agli enti preposti, affinché ad Avitabile venga concesso il trasferimento in "una struttura sanitaria adeguata e attrezzata al delicatissimo e gravissimo caso concreto".
Una battaglia, quella del penalista, contro i mulini a vento. La malattia ha provocato ad Avitabile anche perdite di sangue dalla bocca, come certificato di recente dalla medicheria del carcere e riscontrato dal dottor Izzo.
"È prevedibile che la protrazione dello stato di detenzione possa cagionare un grave pregiudizio per la integrità psico-fisica del condannato tale da esporlo al pericolo di vita considerata la grave patologia a prognosi infausta, difficoltà ed impossibilità eseguire da detenuto da quanto rappresentato, si specifica infine che le attuali condizioni di salute del signore Avitabile sono totalmente incompatibili con il suo stato di detenzione", è un passaggio della relazione del dottor Izzo.
Parole chiare, chiarissime. Che l'avvocato Riggi ha allegato nelle sue istanze. Ad oggi però Avitabile resta detenuto. Il penalista ha anche inviato una Pec al ministero della Giustizia chiedendo un intervento del ministro della Giustizia. Al momento non è arrivato alcuna risposta. Eppure il quadro clinico di Avitabile è complesso e delicato.
E, come evidenzia con rammarico l'avvocato Riggi, "ogni giorno perso nell'approntare gli strumenti terapeutici più adeguati al gravissimo tumore da cui è affetto il sig. Avitabile, sarà un giorno in cui le speranze di salvare la vita del detenuto si assottiglieranno sempre di più".
di Marzio Bartoloni
Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2020
Il Senato varerà nei prossimi giorni la legge per difendere gli operatori sanitari: oltre a inasprire le sanzioni il provvedimento prevede la procedibilità d'ufficio, salta l'obbligo per As1 e ospedali di costituirsi parte civile.
Era diventata una vera e propria emergenza prima dello scoppio dell'emergenza Covid che per qualche mese ha rallentato il fenomeno. Ora però contro le violenze e le aggressioni contro medici e infermieri negli ospedali è in arrivo a giorni un'arma di difesa in più.
Atteso da oltre un anno da tutto il comparto della sanità entro luglio il Senato dovrebbe definitivamente varare il giro di vite contro le violenze in corsia che con il ritorno degli accessi nei pronto soccorso, tra i luoghi più a rischio per chi indossa un camice, stanno purtroppo lentamente riprendendo dopo la forte attenuazione nei mesi del lockdown.
Il provvedimento che nei giorni scorsi ha incassato il via libera della commissione Igiene e Sanità del Senato dove il Ddl è tornato dopo le modifiche della Camera prevede un inasprimento di pene e sanzioni per chi aggredisce operatori sanitari, ma anche campagne informative, un Osservatorio nazionale e una Giornata di sensibilizzazione ad hoc.
Secondo un sondaggio del sindacato Anaao Assomed, il 65% dei medici afferma di essere stato vittima di aggressioni fisiche o verbali, soprattutto tra chi lavora al Pronto Soccorso. Mentre a essere aggrediti sono anche circa 5mila infermieri l'anno, secondo la Federazioni degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi). Si tratta però di stime. In molti casi, infatti, questi episodi non vengono denunciati.
Per arginare questo fenomeno, divenuto appunto vera e propria emergenza di Sanità pubblica, il disegno di legge prevede la procedibilità d'ufficio, senza la querela della persona offesa, trattando i sanitari quasi come un pubblico ufficiale. In particolare il cuore del provvedimento sta nel fatto che si modifica l'articolo 583-quater del codice penale ai sensi del quale le lesioni gravi o gravissime sono punite con pene aggravate: per le prime reclusione da 4 a 10 anni e per le gravissime da 8 a 16 armi.
La novità consiste nell'applicare le stesse pene aggravate quando le lesioni gravi o gravissime siano procurate in danno del personale "esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell'esercizio delle sue funzioni o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso".
Tra le circostanze aggravanti comuni del reato viene inserito l'avere agito nei delitti commessi con violenza e minaccia proprio in danno degli operatori sanitari o socio-sanitari. La legge attesa al varo dell'aula del Senato nei prossimi giorni prevede poi il monitoraggio dei cosiddetti "eventi sentinella", che spesso anticipano le violenze.
Inoltre fa nascere l'Osservatorio nazionale con il compito di monitorare l'attuazione delle misure di prevenzione e protezione a garanzia di medici, infermieri ed operatori socio-sanitari. Dal testo finale è stato invece soppresso l'articolo che prevedeva che Asl e ospedali obbligatoriamente si costituissero parte civile nei processi di aggressione ne confronti dei propri dipendenti.
"Accanto al rafforzamento delle condizioni penali, si aggiungono tanti altri strumenti, ad esempio abbiamo protetto tutti gli operatori sanitari ma anche i sociosanitari e sociali nell'esercizio delle loro funzioni indipendentemente dalle loro condizioni", avverte Paolo Boldrini (Pd) relatrice del Ddl in commissione. "Ritengo innanzitutto - aggiunge la senatrice - sia bene promuovere la sicurezza sul lavoro perché è la base di un'assistenza sanitaria efficace e che le violenze, le intimidazioni, le aggressioni e le minacce possono ostacolare o impedire la prestazione di cura, che invece devono essere protette nel modo più efficace possibile".
"Con questo governo la Sanità - conclude Boldrini - ha assunto una rinnovata centralità anche prima del Covid e ora ancora di più con le risorse stanziate a seguito dell'epidemia con un incremento importante del Fondo sanitario malvisto prima, senza contare l'investimento tra attrezzature, infrastrutture e tecnologie. Anche il rafforzamento delle risorse umane nel Ssn è un aiuto fondamentale per evitare aggressioni dovute molto spesso ai disservizi causati per mancanza di personale".
di Luigi Manconi
La Repubblica, 14 luglio 2020
Penso che quanti, ad Amantea (Cosenza), hanno bloccato una strada provinciale per protestare contro l'arrivo, in un vicino centro di accoglienza, di tredici migranti positivi al virus, non siano razzisti. Ci sarà pur stato qualcuno seriamente convinto dell'inferiorità genetica degli asiatici ma, a muovere la gran parte di loro, è stata, presumo, una condizione di ansia.
Tanto più intensa quando la minaccia dell'epidemia appare destinata a insidiare la propria comunità dall'esterno. Dall'esterno: questo è il cuore della questione. Perché, altrimenti, non si spiegherebbe come mai analoghe manifestazioni, con relativo blocco stradale, non siano state organizzate contro gli spettatori - "poche le mascherine" - del più importante concorso ippico nazionale; o contro i 300 partecipanti alla festa notturna tenutasi a Porto Ercole sabato scorso; o, ancora, contro i bagnanti che hanno "assaltato" le spiagge romane senza il minimo rispetto delle misure di sicurezza (traggo queste notizie dalle cronache del Messaggero).
In ogni caso, al netto di un'ombra di antico pregiudizio xenofobo, va notato che il rapporto migrante pandemia sembra costituire un nuovo motivo di allarme sociale. In parte pretestuoso perché, se è vero che dal primo gennaio 2020 a ieri in Italia sono approdati 8.988 profughi, quasi tre volte quelli dello stesso periodo del 2019, è altrettanto vero che si tratta di circa la metà degli sbarcati del 2018. Dunque, non si può parlare in alcun modo di "invasione".
Tuttavia, quella della prevenzione, del contenimento del contagio e dell'isolamento dei positivi è una questione molto seria. Ma essa si pone - non è un paradosso nei confronti degli italiani con altrettanta, e forse maggiore, urgenza di quanto si ponga per gli stranieri.
D'altra parte, ad avviso del governo, più preoccupanti sarebbero i focolai che si accendono tra la Croazia e la Bulgaria, dovuti non a extracomunitari clandestini, bensì a cittadini europei scarsamente responsabili. Per quanto riguarda chi arriva via mare, la possibilità di controllo sanitario è agevolata dal fatto che a condurli sulle nostre coste sono navi mercantili, militari o delle Ong (più difficile il monitoraggio di quanti arrivano in piccoli gruppi sui cosiddetti "barchini").
Saggiamente, il ministro dell'Interno, già ad aprile, aveva predisposto un bando per la realizzazione di "strutture ricettive", capaci di "assicurare l'applicazione delle misure di isolamento o di quarantena con sorveglianza attiva".
Che ne è di questo progetto? Potrebbe essere la soluzione più idonea a garantire quelle condizioni di sicurezza giustamente reclamate, capaci di contenere il contagio quanto, se non più, possono fare le misure previste per la popolazione italiana. Non solo: un'attenta vigilanza sanitaria è in grado di disinnescare, almeno in parte, quel sospetto oscuro e quella diffidenza inconscia verso gli stranieri. In proposito giova ricordare che il pericolo rappresentato dai bengalesi risultati positivi si deve, in primo luogo, a una clamorosa falla del nostro sistema di prevenzione: ovvero il tardivo blocco dei voli provenienti dal Bangladesh.
Tutto ciò per dire che siamo in presenza di problemi e di umori e sentimenti - anche questi possono essere pesanti come pietre - molto seri, ma risolvibili grazie a provvedimenti razionali e intelligenti. Assai più complessa e di ardua soluzione resta la questione della dislocazione in altri Paesi dei profughi sbarcati in Italia. L'accordo di Malta del 23 settembre scorso, certo parziale e precario eppure lungimirante, ha risentito anch'esso degli effetti perniciosi del Covid-19.
Qualche spiraglio, tuttavia, si è aperto. E potrebbe ulteriormente ampliarsi se il governo italiano si mostrerà capace di cogliere l'opportunità offerta da questa fase di così intensa attività politico-diplomatica a livello continentale.
La disponibilità di ingenti risorse economiche, una notevole spinta alla cooperazione e alle intese bilaterali, una assidua negoziazione e una maggiore integrazione, costituiscono il tessuto più fertile dove collocare il tema dell'immigrazione come grande questione europea. Una questione che presenta notevoli criticità ma che, allo stesso tempo, può rivelarsi una risorsa preziosa.
di Michele Marsonet
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Molti intellettuali americani e inglesi si sono apertamente ribellati alla dittatura del politically correct. La rivista Harper's Magazine ha infatti pubblicato un manifesto firmato da nomi prestigiosi e di tutte le tendenze politiche. Insomma progressisti e conservatori uniti per di contrastare un fenomeno che negli Stati Uniti e in Inghilterra ha assunto dimensioni epocali, e giudicato dai firmatari pericoloso per le sorti della democrazia liberale.
Il problema di fondo è il seguente. È lecito che qualcuno si veda censurare un articolo solo per il fatto di aver espresso opinioni discordanti da quelle dei talebani del politically correct? E può una rivista licenziare un collaboratore che osa mettere in dubbio il "pensiero unico" che si va diffondendo a macchia d'olio? Si può, infine, consentire a un ateneo la messa al bando di grandi personaggi del passato che hanno contribuito alla sua fondazione?
Se parlassimo di Cina, Russia o Iran la risposta sarebbe implicita. In quei contesti sono le autorità governative a decidere cosa è corretto e cosa non lo è. Il dissenso degli intellettuali, ma anche dei comuni cittadini, non è ammesso e, al contrario, viene represso con durezza a volte estrema. Basti ricordare il caso di Hong Kong per rendersene conto. C'è una Verità di regime che i capi del partito al potere impongono senza remore per impedire che nella società civile si sviluppi il libero dibattito.
Ora molti rappresentanti del mondo culturale e accademico anglo- americano hanno deciso che la misura era colma, e che occorreva fare qualcosa per impedire che Usa e Regno Unito diventino pericolosamente simili ai tanti regimi tirannici e autoritari che purtroppo prosperano nel mondo.
Superando le differenze politiche, anche grandi, che li dividono, questi intellettuali hanno ritenuto opportuno parlare con voce unica per ribadire che la diversità d'opinione è sacrosanta e va difesa in ogni caso, anche quando non si concorda con quanto qualcuno dice e scrive.
Per ricordare a quale livello di intolleranza siamo giunti, è importante osservare che tra i firmatari figura persino Noam Chomsky, celebre linguista e filosofo del linguaggio considerato - da sempre - un guru della sinistra radicale americana. Innumerevoli le sue prese di posizione contro l'establishment Usa, senza fare distinzioni tra democratici e repubblicani. Ebbene, anche Chomsky, uno dei simboli della contestazione studentesca degli ultimi decenni, ha firmato ed è sceso in campo per spezzare una lancia in favore della libertà di opinione e di parola.
Con lui femministe storiche come Margaret Atwood e Gloria Steinem, intellettuali conservatori quali Francis Fukuyama, romanzieri colpiti dall'anatema degli ayatollah iraniani come Salman Rushdie. Ma anche l'autrice della saga di Harry Potter J. K. Rowling, messa in croce per aver detto che la distinzione tra uomo e donna appartiene alla natura, è non è un'invenzione culturale delle élite al potere.
Un altro dei firmatari, il saggista anglo-olandese Ian Buruma, licenziato dalla New York Review of Books per aver pubblicato un saggio non in linea con le opinioni correnti, ha notato a questo proposito che "l'aria si è fatta irrespirabile". O si trova il modo di porre termine a questa incredibile ondata di intolleranza (e di violenza), oppure le nazioni culla del liberalismo sono destinate in breve tempo a diventare dei Paesi autoritari. Chomsky, tuttavia, ha aggiunto considerazioni interessanti anche perché riguardano un'icona del pensiero marxista come Antonio Gramsci, tuttora popolare non solo in Italia e in Francia, ma anche nell'ambiente accademico anglo- americano. Il famoso linguista, oggi 92enne, sostiene che occorre battersi contro la "fabbrica del consenso", indipendentemente dal fatto che, a proporla, sia la destra o la sinistra.
Aggiunge inoltre che la celebre "egemonia culturale" elaborata da Gramsci, con i suoi corollari quali le figure degli "intellettuali organici", altro non è che un tipico strumento della suddetta fabbrica del consenso. Chi la teorizza è convinto di stare dalla parte giusta perché ha compreso lo sviluppo inevitabile delle leggi marxiane della Storia, ed è quindi autorizzato ad imporre agli altri la propria visione del mondo.
Cosa succede se non si riesce a convincere qualcuno circa la bontà della suddetta visione? In quel caso si deve ricorrere, sempre in nome della Storia, a metodi coercitivi (per il suo stesso bene). In altri termini lo si "rieduca", magari in appositi campi come accadeva in passato nell'Unione Sovietica e accade ancor oggi nella Repubblica Popolare Cinese. Chomsky, socialista libertario (e spesso confuso), rifiuta nettamente questo metodo affermando che abbiamo a disposizione soltanto due strade: "possiamo fare come Hitler e Stalin o possiamo difendere la libertà di parola", e tertium non datur.
Adesso bisogna ora capire fino a che punto il manifesto sarà efficace, e se le tante autorità accademiche e giornalistiche che hanno ceduto senza combattere ai nuovi talebani avranno dei ripensamenti. La situazione è particolarmente grave in un'America che appare in guerra con sé stessa, proprio quando la Cina comunista sta sviluppando la sua battaglia per l'egemonia globale. Anche Chomsky, per quanto in tarda età, ha compreso che la tolleranza nei confronti delle opinioni altrui - e la loro difesa - rappresenta il vero baluardo della democrazia.
di Anna Lombardi
La Repubblica, 14 luglio 2020
Secondo Chutkan, il protocollo potrebbe violare l'ottavo emendamento della costituzione che vieta le punizioni crudeli. E il suprematista bianco Daniel Lewis Lee condannato a morte evita il patibolo.
Il boia può attendere. Una giudice federale di Washington, Tanya Chutkan, ha bloccato la ripresa delle esecuzioni federali voluta dall'amministrazione Trump dopo 17 anni di moratoria non scritta. A scamparla ancora una volta è Daniel Lewis Lee, 47 anni. Suprematista bianco, colpevole di aver partecipato al massacro della famiglia di origine ebraica Mueller - il venditore di armi da collezione William Frederick, sua moglie Nancy e la figlioletta Sarah Elizabeth di 8 anni - avvenuto nel 1996 nella cittadina di Russelville, in Arkansas. E di averne poi gettato i corpi in un lago, facendoli affondare legandoli a grosse pietre.
Un omicidio istigato dal complice Chevie Kehoe, ex impiegato di Mueller che aveva ordito quel complotto allo scopo di usare il denaro ricavato dalla vendita delle armi rubate, per finanziare un utopico stato bianco da fondare fra Oregon, Idaho e Montana secondo il credo dell'organizzazione di cui era membro insieme al padre e ai fratelli, l'Aryan Peoples' Republic.
Incredibilmente, a Kehoe è toccata però una sorte diversa: nonostante fosse coinvolto perfino all'attentato di Oklahoma City del 1995, è stato condannato "solo" a tre ergastoli: e finirà i suoi giorni in carcere grazie al fatto di essersi dichiarato immediatamente colpevole e aver dunque fatto un percorso giudiziario diverso.
Era stato il ministro della giustizia William Barr ad annunciare un anno fa la decisione del presidente Donald Trump di rompere con una moratoria d'altronde mai scritta: e riprendere le esecuzioni capitali di persone già condannate dai tribunali federali. Una prassi abbandonata nel 2003 perché la pena di morte era ormai in vigore solo in alcuni stati della federazione americana e non in tutti.
Barr aveva dunque adottato un nuovo protocollo per garantire la sicurezza delle iniezioni letale: passando dall'iniezione con tre farmaci, il vecchio sistema usato finora, all'utilizzo del solo Pentobarbital. Un passaggio di formula dettato del fatto che molti Stati avevano problemi a reperire tutti i farmaci richiesti. Con il calo delle condanne a morte, le case farmaceutiche avevano rallentato la produzione dei farmaci impiegati: il sodium thiopental, per stordire, il pancurium bromide, con effetto paralizzante, e il potassium cloride, per uccidere.
Quella di Daniel Lewis Lee doveva essere la prima esecuzione federale in 17 anni. "Lo dobbiamo alle vittime e alle loro famiglie", aveva detto all'epoca Barr. Ma nel caso di Lee la famiglia di una delle vittime non vuole la morte del condannato. Da anni Earlene Peterson, madre di Nancy Mueller e nonna della piccola Sarah Elizabeth, continua a ripetere che sua figlia si sentirebbe "infangata" da quell'omicidio di stato. E dunque di non volere la morte di Lee, preferendo vederlo finire i suoi giorni in prigione, proprio come il complice Kehoe. Per di più, insiste, "sebbene non ci siano dubbi sulla colpevolezza di Lee, è appurato che Kehoe è più colpevole ancora. Perché far morire l'uno e permettere all'altro di vivere?".
Negli anni, la matriarca, che pure è una sostenitrice di President Trump, ha salvato più volte la vita dell'assassino dei suoi cari. Prima facendo slittare l'esecuzione inizialmente prevista a dicembre 2019. Poi, bloccandola solo venerdì scorso, dopo aver affermato di non potersi recare ad assistere all'esecuzione per paura dell'epidemia, tanto più che pure nel carcere dov'è prigioniero il condannato si sono registrati dei casi. Sembrava averla spuntata anche stavolta. Ma durante il weekend un giudice ha stabilito che assistere alla morte di un condannato è una possibilità, ma non un diritto dei parenti delle vittime: e ha rimesso l'esecuzione in agenda.
A salverei nuovamente la vita di quel disgraziato a poche ore dall'esecuzione, ci ha pensato ora la giudice che ha emesso una ingiunzione contro il governo, in attesa che i tribunali esaminino i ricorsi presentati da quattro detenuti nel braccio della morte contro il nuovo protocollo per le esecuzioni federali. Secondo Chutkan, il protocollo potrebbe violare l'ottavo emendamento della costituzione, che vieta punizioni crudeli. I farmaci usati per l'iniezione letale "producono sensazioni di annegamento e asfissia, causando dolore estremo, terrore e panico". Mentre la morte di Stato deve essere asettica.
Già a novembre la Chutkan aveva bloccato le esecuzioni federali. Ma la sua sentenza era stata ribaltata in appello e la Corte Suprema non aveva ammesso il caso. Il dipartimento di Giustizia ha già annunciato un nuovo appello. Daniel Lewis Lee, l'ha scampata di nuovo, ma non è affatto detto che abbia salvato la pelle.
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