di Giansandro Merli
Il Manifesto, 14 luglio 2020
La detenzione amministrativa dei migranti rischia di tornare a una normalità "minore", cioè ancora più "scevra di diritti e garanzie". Lo denuncia il rapporto "Detenzione migrante ai tempi del Covid" pubblicato ieri dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild).
I dati sono del periodo marzo-giugno e riguardano le tre casistiche di privazione della libertà personale dei cittadini stranieri: navi quarantena; hotspot; centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Sulla recente prassi di imporre il periodo di isolamento in mare, la Cild afferma la necessità di rispettare il principio di proporzionalità e tenere in conto il vissuto di chi arriva sulle coste italiane. C'è da chiedersi se sia stato "proporzionale" disporre la quarantena per i 180 naufraghi salvati da Sos Mediterranée dopo averli costretti per giorni sulla nave umanitaria, tanto da creare forti tensioni a bordo, e nonostante l'esito negativo dei tamponi.
Tasto dolente rimangono i Cpr dove sono venute meno le stesse basi legali per la detenzione amministrativa. Questa dovrebbe essere finalizzata al rimpatrio dei migranti ma perdura nonostante i voli siano bloccati e il Decreto Rilancio abbia disposto la sospensione dei provvedimenti di espulsione fino al 15 agosto. Sono sette i Cpr attivi sul territorio nazionale. A inizio luglio trattenevano 332 persone. Un numero cresciuto rapidamente, dopo il minimo toccato a maggio (204), perché le autorità trasferiscono chi sbarca prima negli hotspot e da lì nei Cpr. Questo nuovo flusso di ingressi sta facendo salire la tensione nelle strutture.
A Gradisca d'Isonzo negli ultimi 10 giorni si sono registrati scioperi della fame ed episodi di autolesionismo. Il più grave è stato denunciato dalla rete "No frontiere-Fvg" che ha pubblicato un video girato all'interno che ritrae un uomo con le braccia e il busto pieni di sangue, segnati dai tagli di lametta. Secondo la ricostruzione a corredo delle immagini, si sarebbe trattato di una forma di protesta estrema contro le manganellate ricevute dagli agenti durante una perquisizione. "Ci raccontano che questa persona è svenuta diverse volte ogni giorno nei quattro giorni seguenti, in una di queste occasioni all'interno del Cpr gli è stata fatta una rianimazione cardiopolmonare ed è stata portata al Pronto soccorso di Gorizia", si legge ancora su nofrontierefvg.it
di Alessandra Ballerini*
Corriere della Sera, 14 luglio 2020
La lettera dell'avvocato della famiglia: "Disperato è il gioco di chi pensa che vendendo navi ed armi da guerra a uno Stato dittatoriale possa tutelare la nostra sovranità". Sull'Eni: "Non vogliamo che l'Eni dedichi borse di studio, né ci interessano targhe"
Caro Direttore, abbiamo letto con interesse le considerazioni di Ernesto Galli della Loggia sull'assassinio di Giulio Regeni. Le premesse sono condivisibili: "Un Paese serio sa dire la verità". E il regime di Al Sisi evidentemente non fa della serietà (né del rispetto dei diritti umani) la sua bandiera quindi non è da lui che dobbiamo aspettarci verità. Ma non per questo possiamo accontentarci della memoria. Non è la memoria che cercano i Signori Regeni, ma la verità, perché senza verità non può esserci giustizia, né pace, né, dunque, memoria. Per questo non ci interessano targhe con inciso il nome di Giulio, ma vogliamo una sentenza che ricostruisca le responsabilità penali, personali e politiche di "tutto il male del mondo" che si è abbattuto su Giulio. E, contrariamente a quello che lei paventa, a quella verità arriveremo, stiamo già arrivando.
La nostra Procura ha iscritto un anno e mezzo fa cinque funzionari della National Security egiziana nel registro degli indagati e l'ha fatto evidentemente non per concludere il procedimento con un'archiviazione. Nuovi elementi da allora, grazie anche alle nostre faticose indagini difensive, si sono aggiunti, nuovi testimoni si sono fatti avanti - dei quali per segretezza delle indagini non è dato parlare - e nuovi brandelli di verità, come li definì Erri De Luca, si stanno aggiungendo a ricomporre il puzzle sanguinario che determinò il sequestro, le torture, l'uccisione di Giulio e tutti i successivi depistaggi.
La nostra non è una "partita disperata". Non lo è quella dei genitori di Giulio, determinati da lucida, inflessibile e generosa speranza, né quella delle decine di migliaia di cittadini di tutto il mondo che sanno che solo esigendo verità senza farsi distrarre da cinismo o apatia, saranno più sicuri. Non è disperata neppure la partita che portano avanti da 52 mesi la Procura e gli investigatori italiani, senza sosta né incertezze. Disperata semmai è la partita di Al Sisi, che prova dopo quattro anni e mezzo a rifilare quattro oltraggiose cianfrusaglie ai genitori di Giulio spacciandole per gli effetti personali del loro figlio. Disperato è il gioco della politica che pensa che vendendo navi ed altre armi da guerra a uno Stato dittatoriale possa in qualche contorto modo tutelare la nostra sovranità nei confronti di altri concorrenziali Paesi europei che peraltro quelle navi da guerra non potrebbero vendere se non dopo averle costruite.
Disperata è la finzione di chi ancora pensa, oppure vuole far credere, che il nostro ambasciatore possa agevolare la ricerca della verità, quando gli stessi procuratori di Roma auditi in Commissione di inchiesta hanno chiaramente riferito che le uniche forme di collaborazione da parte dell'Egitto si sono avute nel momento in cui il nostro Paese ha avuto la dignità di richiamare l'ambasciatore. Da quando invece nel settembre 2017, l'ambasciatore Cantini è tornato in Egitto è stata una continua, indecente débâcle, fino all'ultimo fallimentare colloquio tra le Procure di due settimane fa. La dittatura egiziana ha capito che non eravamo un Paese serio e ha ricominciato a mentire, infangare, nicchiare, nascondersi dietro silenzi e bugie, continuando peraltro ad accanirsi contro i difensori dei diritti umani.
Non vogliamo che l'Eni dedichi borse di studio a Giulio (siamo più che soddisfatti di quelle istituite dal ministro Fioramonti), né ci interessa che i Comuni deliberino affissioni di targhe (che peraltro avrebbero da attendere i dieci anni di legge). Vogliamo semmai che espongano striscioni gialli con la scritta impegnativa "Verità per Giulio".
Vogliamo azioni concrete: richiamare (e non ritirare) l'ambasciatore per consultazioni è una di queste. L'impegno collettivo di verità, quando ci sono promettenti indagini in corso e una sentenza deve essere ancora scritta, si mantiene non gettando la spugna, accontentandosi di una targa che metta tutto a tacere, ma lottando senza distrazioni di sorta. Chi sta dalla parte della verità e della giustizia non può concedersi il lusso della disperazione: deve rimboccarsi le maniche, alzare la testa e se occorre la voce, per Giulio e per tutti i Giuli.
*Legale della famiglia Regeni
di Sara Volandri
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Fino a ieri la pena di morte continuava a essere applicata oltreoceano dai singoli Stati, ma era bandita a livello federale. Ora cambia tutto. Una corte di appello ha infatti emesso una sentenza che consente la prima esecuzione federale da 17 anni a questa parte, a meno di una sospensione dell'ultimo minuto dalla Corte Suprema.
L'Amministrazione Trump che si è battuta per il ritorno della pena capitale su tutto il territorio ha programmato altre tre esecuzioni nei prossimi mesi. Daniel Lee, suprematista bianco di 47 anni, è stato condannato nel 1999 per aver ucciso in Arkansas un commerciante d'armi, sua moglie e la loro figlia di otto anni. Per lui, oggi è prevista l'iniezione letale nell'Indiana, nella prigione di Terre Haute.
I parenti delle vittime, fra i quali la nonna della bambina, Earlene Peterson, hanno chiesto che l'esecuzione sia rinviata a causa della pandemia di coronavirus. Ma l'ingiunzione temporanea del Distretto Sud della corte distrettuale dell'Indiana, emessa in questo senso, è stata revocata ieri dalla Corte d'appello che ha stabilito di andare avanti con l'esecuzione. La famiglia delle vittime si appellerà "alla Corte suprema degli Stati Uniti per cercare di ottenere l'annullamento", ha detto il loro avvocato Baker Kurrus. Sperano di ritardare l'esecuzione finché il viaggio verso la prigione non sarà sicuro. La maggior parte dei reati negli Stati Uniti sono processati a livello statale, ma il governo federale si occupa dei casi più gravi, come gli attacchi terroristici o i crimini razziali.
Negli ultimi 45 anni, solo tre persone sono state messe a morte dal governo federale, tra cui Timothy McVeigh, che è stato condannato per aver messo una bomba in un edificio del governo e nel 1995, uccidendo 168 persone, e fu giustiziato nel 2001. "Non c'è ragione per cui qualcuno debba eseguire delle esecuzioni in questo momento in cui nel Paese imperversa la pandemia di Covid", ha detto Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, accusando l'amministrazione di Trump di fare un "uso politico della pena di morte".
Nel 2019 negli Usa sono state giustiziate 22 persone - per lo più in Texas, Tennessee, Alabama e Georgia - e 2.656 erano nel braccio della morte. In cima alla triste classifica, con 729 in attesa di condanna, c'era la California, dove il governatore democratico Gavin Newsom ha imposto una moratoria, impedendo di fatto il compiersi delle esecuzioni sotto il suo mandato. Altre moratorie sono in vigore anche in Oregon e Pennsylvania. Ma la linea di Trump rischia di vanificarle.
di Carlo Lania
Il Manifesto, 14 luglio 2020
Addestramento delle forze di polizia dei Paesi di origine e di transito dei migranti e finanziamenti per dotarle di attrezzature utili a contrastare il traffico di essere umani. Almeno sulla carta, come se quanto accade ogni giorno in Libia grazie al sostegno dato alla Guardia costiera di Tripoli non dimostrasse già abbastanza come le organizzazioni criminali non si preoccupino molto degli sforzi che l'Europa fa per fermarle e di come questi finiscano per colpire soprattutto i migranti.
Eppure è proprio questa la strada che l'Unione europea, Italia in testa, sembra voler percorrere ancora una volta esportando il fallimentare modello libico. La decisione è stata presa ieri nel vertice Ue-Africa voluto dalla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese e al quale hanno partecipato i colleghi di Francia, Germania, Spagna e Malta insieme agli omologhi di Libia, Tunisia, Marocco, Mauritania e Algeria. Presenti anche la commissaria europea agli Affari interni Yilva Johansson e il commissario per l'Allargamento Olivér Varhely. "È stato un confronto proficuo che ci permette di rafforzare l'impegno reciproco nel prevenire e combattere il traffico dei migranti", ha spiegato Lamorgese al termine dell'incontro.
Naturalmente non sono mancate rassicurazioni circa il trattamento che verrà riservato ai migranti, come del resto già successo in passato con la Libia. "Tutti i Paesi - ha proseguito infatti la titolare del Viminale - hanno condiviso la sfida che ci impone di garantire il rispetto dei diritti umani e la dignità delle persone, ridurre la sofferenza umana di chi è più esposto a ogni ricatto".
Dietro il vertice c'è la preoccupazione dettata dall'aumento degli arrivi registrati nel nostro Paese, ma soprattutto il timore per quanto potrebbe accadere durante l'estate con una ripresa delle partenze dalla Libia. E questo nonostante finora i numeri si siano mantenuti tutto sommato bassi. Stando infatti alle cifre fornite da Frontex, l'agenzia per le frontiere dell'Europa, i migranti arrivati in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale dall'inizio dell'anno stati quasi 7.200. Un numero facilmente gestibile anche se rappresenta l'86% in più rispetto ai numeri molto bassi del 2019. Tunisia e Bangladesh in testa ai Paesi di origine.
Viceversa gli arrivi in Europa sono stati 36.400, un quinto in meno rispetto al 2019, soprattutto a causa della pandemia da Covid. "Abbiamo avuto un aumento degli sbarchi autonomi, non delle ong, quindi difficilmente controllabili", ha proseguito Lamorgese. "È stato importante avere oggi un'interlocuzione con Tunisia e Libia che sono i Paesi da cui maggiormente provengono i migranti. Ho delle aspettative su questo aspetto, speriamo di vedere qualcosa di concreto dopo l'estate".
E sempre per settembre è in programma un tavolo tecnico tra i Paesi presenti ieri al vertice per concordare come dare seguito alle decisioni prese ieri. Intanto dopo la Moby Zaza, Viminale e ministero dei Trasporti hanno indetto una gara per reperire un'altra nave da inviare in Calabria per la quarantena dei migranti. "Nel giro di due giorni dovremmo avere una risposta, perché ci è arrivata notizia che c'è qualche società interessata", ha annunciato la ministra. In caso contrario il governo è deciso ad utilizzare le caserme per ospitare i migranti.
di Victor Castaldi
Il Dubbio, 14 luglio 2020
Resterà nella prigione di Tora almeno altri 45 giorni Patrick George Zaky, lo studente egiziano iscritto all'Università di Bologna e attivista dei diritti umani detenuto in Egitto con l'accusa di "propaganda sovversiva" sui social network. Una detenzione che da mesi suscita indignazione e preoccupazione in quanto avvenuta senza prove, con accuse generiche e fuori dalla cornice del diritto alla difesa. Proprio in questi giorni Zaky ha compiuto il suo 29esimo anno di età, un compleanno dietro le sbarre.
La notizia del "rinnovo della sua detenzione" preventiva è stata data dal gruppo "Patrick Libero" sulla propria pagina Facebook. Nel post viene specificato che la decisione di tenere Zaky altre due settimane in carcere è stata presa senza che fosse presente nén lui né tantomeno i suoi legali. Una nuova udienza è stata fissata per il 16 giugno. "L'ultima volta che Patrick è apparso di fronte a un pubblico ministero è stato il 7 marzo - si ricorda sempre nel post- il che significa che è tenuto in carcere senza apparire davanti al pubblico ministero per un periodo di circa tre mesi".
L'unico diritto concesso a Zaky è stata la possibilità di scrivere una lettera ai genitori in cui afferma di essere ancora in buone condizioni di salute: "Cari, sto bene e in buona salute, spero che anche voi siate al sicuro e stiate bene. Famiglia, amici, amici di lavoro e dell'università di Bologna, mi mancate tanto, più di quanto io possa esprimere in poche parole".
Sulla questione è intervenuta Amnesty International che ha definito "atroce" la proroga della detenzione e ha invitato il governo italiano e il premier Giuseppe Conte ha esercitare forti pressioni sul Cairo e sulla giunta del generale Al Sisi.
Il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury ha citato il caso di Mohamed Amashah, uno studente con doppia nazionalità egiziana americana, arrestato lo scorso anno dai servizi di sicurezza con accuse simili a quelle contestate a Zaky (aveva esposto uno striscione contro al Sisi in una manifestazione). Dopo un lungo braccio di ferro con gli Usa e oltre 400 giorni passati in prigione alla fine Amashah è stato liberato dal Cairo, una circostanza che secondo Noury dimostrerebbe "l'importanza della pressione diplomatica che se condotta con forza ottiene risultati".
Non particolarmente incisive, in tal senso, le parole del ministro degli Esteri Luigi di Maio che si dice "preoccupato", aggiungendo che il nostro paese "sta monitorando la situazione in modo costante e continuerà a seguire il caso con l'appoggio dell'ambasciata italiana al Cairo, tramite il coordinamento con i partner internazionali ma anche attraverso gli altri canali rilevanti".
Intanto nella prigione dove Zaky è rinchiuso le condizioni sanitarie sono aggravate dall'epidemia di coronavirus che ha colpito l'istituto: "Nonostante le smentite ufficiali, i gruppi egiziani per i diritti umani denunciano la diffusione del Covid-19 nella prigione di Tora. Intanto, per l'Eid sono stati scarcerati 3.000 detenuti tra cui ladri e almeno un assassino ma non Patrick Zaki e gli altri", ha concluso sempre Noury.
di Simona Musco
Il Dubbio, 13 luglio 2020
Nel 2018 ci sono voluti più di 1.200 giorni per concludere un processo in via definitiva. Crolla la fiducia nelle toghe: il 55% ha un parere negativo. Cala la fiducia della cittadinanza nei confronti della magistratura, avvertita come sempre meno indipendente, mentre rimane alto il numero di giorni necessari per risolvere le controversie. È il quadro dipinto dalla Commissione europea nella valutazione della Giustizia per il 2020, che mette a confronto l'efficienza, la qualità e l'indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell'Ue.
di Rosario Russo*
Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2020
Con il tacito consenso del ministro della Giustizia, ogni anno il Pg presso la Suprema Corte emette mediamente oltre 1200 provvedimenti d'archiviazione disciplinare, ma neppure il Csm li può leggere. Lo scandalo delle Toghe Sporche è oggetto di procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Perugia. Inoltre, tutte le condotte dei magistrati inquisiti o coinvolti a diverso titolo dalle intercettazioni pubblicate dalla stampa sono - o saranno - oggetto di indagine disciplinare da parte del Procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione.
di Alberto Cisterna
Il Riformista, 13 luglio 2020
Esiste in Italia un partito dei pubblici ministeri? In senso formale sicuramente no. E la stessa risposta negativa si deve dare se si ricorre alla definizione politologica più accreditata di partito: "Un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un'etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche" (Sartori, Oxford, 1976).
di Marzia Paolucci
Italia Oggi, 13 luglio 2020
L'innovazione legale e l'approccio a sistemi di giustizia predittiva richiedono una nuova fi gura di giurista formato sia al ragionamento logico che al pensiero computazionale. Materie che è necessario inserire nel percorso formativo universitario, prima ancora del coding.
È la dirompente proposta, ma non la sola, avanzata durante la sessione inglese del terzo congresso internazionale sulla giustizia predittiva organizzato on line dalla Scuola di diritto avanzato nelle giornate del 2 e 3 luglio scorso, dopo le scorse versioni in presenza di Londra e Roma.
di Alessandro Giuli
Libero, 13 luglio 2020
Sono decine quelli in aspettativa o "fuori ruolo presso altri uffici". Intanto Bruxelles ci bacchetta: in Italia processi troppo lenti. Fare il magistrato? Sempre meglio che lavorare. Lo si dice con il dovuto rispetto, figurarsi, e ammettendo subito che la battuta nasce in riferimento ai giornalisti.
E tuttavia, per capire che siamo in buona compagnia e che c'è qualcosa di schiettamente disfunzionale nel mondo dei togati italiani, basta sfogliare il rapporto annuale sullo stato dei sistemi giudiziari dell'Ue appena diffuso dal commissario europeo alla Giustizia, il belga Didier Reynders, e concedersi subito dopo una breve passeggiata sul sito del Consiglio superiore della magistratura.
- Corretto acquisire con le intercettazioni la messaggistica del sistema Blackberry
- Necessario dimostrare il dolo specifico per il trasferimento fraudolento di valori
- Battisti e il questurino Salvini
- Cagliari. "Sanità in carcere: disattese le linee guida". L'intervento di Fsi-Usae
- Perugia. In carcere ripartono i corsi di formazione per i detenuti