di Simona Lo Iacono
www.siracusanews.it, 12 febbraio 2015
"Portare l'arte nei luoghi di detenzione significa fornire al detenuto due immense opportunità: fare un percorso liberatorio, e assaporare la bellezza. Portare in carcere un magistrato vuol dire offrire al detenuto una vicinanza dell'organo giudicante che, pur costretto per legge a valutare il fatto, non può mai essere giudice dell'Uomo". Queste le motivazioni che hanno spinto la scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono ad avviare un progetto con i detenuti della Casa di Reclusione di Augusta, con il pieno sostegno e il coordinamento del direttore della struttura Antonio Gelardi, da tempo fautore dell'importanza di fare arte in carcere.
I detenuti saranno dunque coinvolti nella rappresentazione teatrale dell'ultima fatica letteraria della Lo Iacono, il romanzo "Effatà" che tratta i difficili temi della disabilità ai tempi dell'Olocausto, e dell'importanza della comunicazione intesa come apertura all'altro. Oggi, giovedì 12 febbraio, alle 15 si svolgerà il primo incontro dell'autrice con i partecipanti al progetto, che sono già inseriti all'interno del corso di lettura Read and Fly, una delle numerose attività svolte a favore dei detenuti della casa di reclusione.
Il carcere, sorto nel 1987 nella periferia di Augusta, ospita circa 500 detenuti, tutti condannati in via definitiva, e appartenenti alle tipologie media sicurezza, alta sicurezza, e protetti (ossia ad esempio i sex offender che non vengono "accettati" dagli altri detenuti ). "In questo specifico caso - spiega ancora la scrittrice - la presenza della magistratura in carcere serve ad offrire un ribaltamento di ruoli: infatti il detenuto, in Effatà, vestirà i panni del giudice, mentre il giudice vivrà i luoghi della detenzione. E questo scambio dei ruoli e di visioni della vita è sempre fonte di crescita spirituale, perché ci porta fuori da noi stessi, nell'altro".
www.radicali.it, 12 febbraio 2015
Dichiarazione della delegazione Radicali Roma in visita questa mattina al Cie di Ponte Galeria: "Nel giorno della seduta straordinaria dell'Assemblea capitolina sul tema della sicurezza, aperta dal Prefetto Giuseppe Pecoraro, una delegazione di Radicali Roma ha visitato il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria".
"Chiediamo a Ignazio Marino, come Sindaco e come medico, di visitare al più presto questa struttura e di mobilitarsi per chiederne la chiusura immediata, anche nella veste di autorità sanitaria locale. Oltre ai tentativi di suicidio e agli atti di autolesionismo, che sono ormai all'ordine del giorno, a Ponte Galeria persistono infatti casi di scabbia e di altre patologie dovute alla promiscuità e alle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere gli ospiti del centro: condizioni che abbiamo deciso di documentare pubblicando alcune fotografie scattate all'interno della struttura e che confermano quanto riportato nel recente Rapporto della Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani".
"Al sistema di detenzione amministrativa, che già di per sé viola la nostra Costituzione infliggendo una pena detentiva a persone che non hanno commesso alcun reato se non quello di non avere il permesso di soggiorno, difficilissimo da conseguire vista l'attuale legge proibizionista sull'immigrazione, strutture come quella di Ponte Galeria sommano dunque una condizione oggettiva di profonda drammaticità nella quale vengono violate le leggi italiane e le convenzioni europee dei Diritti dell'Uomo".
"La delegazione era composta da Riccardo Magi, Presidente di Radicali Italiani e consigliere comunale a Roma, Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma, Andrea Billau della direzione di Radicali Roma e giornalista di Radio Radicale. Hanno partecipato alla visita anche Gabriella Guido, portavoce di LasciateCIEntrare che i Radicali ringraziano per il lavoro che da anni svolge all'interno del centro, e la giornalista Raffaella Cosentino".
"Come Radicali ricordiamo che senza stato di diritto non può esistere alcuna sicurezza, ma solo effimere illusioni securitarie, e ribadiamo l'esigenza di modificare la legge sull'immigrazione con un meccanismo di regolarizzazione permanente dei lavoratori migranti: perciò chiediamo ancora una volta la chiusura dei Cie, strumento intollerabile di ultima punizione di una condizione di vita a dir poco afflittiva, che configura un diritto diseguale per autoctoni e migranti. Ecco perché chiediamo al Sindaco Marino di impegnarsi in prima persona affinché il Ministero dell'Interno trovi nuove soluzioni più adeguate e soprattutto rispettose di leggi e convenzioni ratificate dal nostro Paese", concludono i Radicali.
di Roberto Saviano
La Repubblica, 12 febbraio 2015
Per la prima volta nella storia dei cartelli messicani cala il traffico della marijuana: grazie alla legalizzazione. L'effetto: meno reati, maggiori entrate nelle casse dello Stato, meno flussi di denaro criminale. È la sconfitta dei proibizionisti.
Per la prima volta nella loro storia i cartelli messicani hanno visto precipitare la richiesta di marijuana. Entra in crisi un business miliardario che sino ad ora non aveva mai subito flessioni. I dati diffusi dalla polizia frontaliera americana (l'Us Border Patrol) non lasciano spazi a dubbi: la riduzione del traffico di erba nel 2014 è stata del 24% rispetto al 2011. Che è successo? Nessuno fuma più spinelli? Una stagione di arresti particolarmente efficace?
La risposta è più semplice: ed è la legalizzazione delle droghe leggere in Colorado e nello Stato di Washington. La vendita legale di marijuana non ha solo creato una rivoluzione economica che ha portato oltre 800 milioni di dollari di nuovi introiti fiscali, ma ha anche iniziato a trasformare il tessuto criminale. La crisi delle organizzazioni a sud del Rio Grande che hanno sempre inondato gli Usa di erba è paragonabile alla crisi dei titoli del Nasdaq. I cartelli messicani non hanno mai abbandonato il business dell'erba, tutte le organizzazioni storiche che oggi sono egemoni nel traffico di coca e di metanfetamina hanno sempre coltivato la "mota" (come chiamano la marijuana), che è al contempo fonte di una liquidità economica gigantesca ed ha una crescita di mercato esponenziale grazie alla tolleranza culturale diffusa in tutti gli Stati Uniti.
Un esempio tra i molti che dimostra lo storico legame tra l'erba messicana e gli Usa: Kiki Camarena era un poliziotto della Dea che riuscì a infiltrarsi ai vertici dei narcos negli anni 80: fu così che scoprì El Bufalo, un ranch che nascondeva la più grande piantagione di marijuana del mondo. Oltre milletrecento acri di terra e diecimila contadini a lavorarci. Per averla fatta sequestrare Kiki fu barbaramente torturato e ucciso. L'erba messicana ha riempito gli Stati Uniti e metà pianeta per più di cinquant'anni. Ora, finalmente, la tendenza di crescita si sta invertendo. Dopo tanti dibattiti ideologici c'è la prova che la legalizzazione è uno strumento reale di contrasto al narcocapitalismo. In Colorado e a Washington ci sono diversi vincoli per il consumo: la marijuana può essere acquistata solo se si è maggiori di 21 anni, si può possedere sino a poco più di 28 grammi, in pubblico è vietato consumarla (come l'alcol del resto) e guidare sotto effetto di erba è vietato (sospensione di patente per un anno e arresto se recidivi).
Le grandi obiezioni mosse dai proibizionisti contro l'esperimento di legalizzazione in Usa sono le medesime da sempre sostenute dal proibizionismo europeo: aumento del mercato dei consumatori, aumento degli incidenti stradali, aumento della criminalità. Allarmi tutti smontati dall'esperienza reale. Non c'è stata nessuna catastrofe. La polizia di Denver in Colorado ha registrato una diminuzione del 4% dei reati, nessun aumento di incidenti stradali (la maggior parte continuano ad essere provocati dall'alcol).
Non solo: sottrarre una massa di capitali enormi alle organizzazioni criminali ha portato il Colorado a prevedere la possibilità di incrementare le proprie casse con circa 175 milioni di dollari nei prossimi due anni, mentre lo Stato di Washington prevede un'entrata di oltre 600 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. Come se non bastasse, sembra che lo Stato potrà addirittura restituire ai cittadini parte delle tasse.
Tutto è dovuto da una legge del Colorado che impone allo Stato una quota limite sui soldi che può ricevere dalle tasse: superata la quale deve ridistribuire il denaro ai contribuenti. Grazie alle entrate per l'acquisto di marijuana, il Colorado rimborserà i 30 milioni di dollari in eccedenza ricevuti. Mai successo a memoria d'uomo che la quota fosse superata, la legalizzazione l'ha permesso. Soldi che prima finivano nelle tasche dei narcos messicani e delle banche complici ora sono a disposizione dello Stato.
Le entrate fiscali hanno convinto altri Stati a intraprendere il percorso di legalizzazione: Alaska, Oregon, Florida e Washington D. C. stanno per decidere.
Ma c'è un altro argomento che ha spinto questa scelta: i reati connessi alla marijuana gravavano enormemente sulle casse degli Stati americani (il Colorado - ad esempio - metteva in bilancio 40 milioni l'anno per contrasto e detenzione di persone legate allo spaccio di erba). E d'altronde la metà della popolazione carceraria americana è condannata per reati di droga, l'Anti-Drugs Abuse Act con la sua severità estrema non ha portato che a un rafforzamento del vincolo criminale tra spacciatore e organizzazione.
Vincolo che è necessario slegare se si vuole contrastare il narcotraffico piuttosto che puntare la responsabilità sul singolo pusher. Il 75% dei detenuti condannati per narcotraffico è afroamericano, miseria e disagio continuano ad essere le miniere in cui raccolgono eserciti i cartelli. Ma in Europa e in parte anche negli Usa (con qualche eccezione tra gli agenti Dea), i vertici delle polizie continuano a sostenere posizioni proibizioniste: eppure nessuna repressione ha fermato la diffusione dell'erba e il suo consumo.
Ora la domanda è: dove sarà dirottata tutta la "mota" messicana? Unica destinazione: Europa. Ci saranno quindi abbassamenti di prezzo e si tratterà di capire come le organizzazioni criminali gestiranno il flusso. I prezzi li farà il mercato, come sempre, ma sarà mediato da 'ndrangheta e camorra sul fronte italiano, dalla mafia corsa sul fronte francese, da albanesi e serbi sul fronte est.
In Italia l'81% dei sequestri delle piantagioni di canapa indiana avviene nel sud Italia (l'Aspromonte è territorio privilegiato di coltivazione), quindi l'erba messicana arriverà ad essere il grande antagonista dell'erba italiana. La legalizzazione non solo sta costringendo i cartelli ad abbassare i prezzi tagliando i profitti ma i messicani devono anche competere con la qualità: la qualità della marijuana legale è certificata catalogata e controllata, leggendo la didascalia delle bustine si possono conoscere effetti e composizione.
La droga illegale spacciata dai messicani invece spesso ha qualità minore a fronte di un prezzo alto perché contiene additivi, come l'ammoniaca, e sempre più spesso viene cosparsa di fibra di vetro o lana di roccia, per simulare l'effetto dei cristallini che hanno alcune qualità di marijuana (ricche in resina di canapa). Legalizzazione quindi porta anche a una riduzione degli effetti negativi e il mercato perde i segmenti più dannosi.
Il Messico vede positivamente la legalizzazione in Usa perché ferma il flusso di capitale criminale che quotidianamente entra nel Paese. Il circolo vizioso è semplice: dalla frontiera parte droga per gli l'America, i soldi tornano in Messico che poi ritornano nelle banche degli Stati Uniti. La legalizzazione rompe questo schema. L'ex presidente Fox aveva dichiarato: "Il consumatore di droga negli Stati Uniti produce miliardi di dollari, denaro che torna in Messico per corrompere la polizia, la politica e comprare armi". Fox, che non ha certo migliorato lo stato della democrazia in Messico né ha portato a un cambiamento nel contrasto ai narcos, ha avuto il merito di riconoscere il punto nevralgico: il proibizionismo americano è il principale responsabile della crescita economica della mafia messicana. La legalizzazione quindi sta producendo effetti immediati e benefici.
Le modalità per sottrarre la marijuana ai narcos sono molteplici: Colorado e Washington hanno legalizzato liberalizzando la produzione e la distribuzione, Alaska e Oregon si stanno avviando ad una legalizzazione come quella del Colorado, la Florida deciderà sull'uso medico della cannabis. Washington D. C. va verso la produzione e il consumo ma non vuole liberalizzare negando l'autorizzazione ai negozi per la distribuzione.
Il che manterrebbe una contraddizione in termini: legale comprarla e fumarla a casa, ma illegale venderla. Ma l'attesa più importante è per il 2016, quando in California si deciderà se intraprendere la legalizzazione o continuare il percorso proibizionista. Se la California - Stato con una massiccia presenza di cartelli messicani e centroamericani - darà il via libera allo spinello il passo per la legalizzazione in tutti gli Stati Uniti sarà definitivo.
E in Italia? L'Italia dovrebbe essere in Europa in prima fila su questi temi per la conoscenza acquisita e per l'influenza delle organizzazioni criminali italiane in questo mercato. Il primo passo fatto dal ministro Roberta Pinotti con la produzione da parte dell'esercito di marijuana per uso terapeutico aveva fatto sperare in un'accelerazione del percorso di legalizzazione, ma tutto si è fermato e il dibattito sembra essersi spento nella miope ed eterna considerazione che "i problemi sono altri". Nel frattempo narcos e boss estendono il loro impero. Mai come ora il proibizionismo è il loro maggior alleato. È il momento di porre il tema della legalizzazione come battaglia di legalità e contrasto all'economia criminale e sottrarlo al seppur necessario e controverso dibattito morale. Proprio chi è contro ogni tipo di droga deve sostenere la legalizzazione.
di Elena Molinari
Avvenire, 12 febbraio 2015
Gli Stati americani riflettono sulla pena di morte, cercando modi "creativi" di infliggerla quando l'iniezione letale non è possibile. Una manciata di amministrazioni locali ha approvato o sta discutendo leggi che recuperino la camera a gas, la sedia elettrica o il plotone d'esecuzione come "piani di riserva" in modo da non dover più rimandare alcuna esecuzione.
L'ultimo è l'Oklahoma, che sta valutando la possibilità di far ricorso alle camere a gas in attesa che la Corte suprema degli Stati Uniti si esprima sulla legalità dell'uso dei medicinali impiegati per le iniezioni letali. Proprio in seguito al ricorso di tre condannati a morte in Oklahoma, la Corte ha deciso infatti di riesaminare la costituzionalità delle nuove combinazioni di farmaci mortali che alcuni Stati utilizzano. L'alta corte dovrà decidere se l'uso del cocktail viola il divieto della Costituzione americana di infliggere punizioni crudeli.
In particolare, i giudici dovranno verificare se il sedativo midazolam possa essere utilizzato, a seguito dei timori che non produca un profondo stato d'incoscienza. Dovranno inoltre assicurarsi che il detenuto non sperimenti un dolore intenso quando gli vengono iniettati altri farmaci per ucciderlo. Quattro Stati attualmente consentono l'uso della camera a gas: Arizona, California, Missouri e Wyoming, ma tutti prevedono che l'iniezione letale sia il metodo principale. L'ultimo detenuto statunitense ucciso in una camera a gas fu Walter LaGrand in Arizona nel 1999.
Lo scorso anno in Tennessee è stata approvata una legge che consente l'impiego della sedia elettrica nel caso in cui non si possano ottenere i farmaci per l'iniezione letale, ma i detenuti hanno presentato una sfida legale. Intanto, nello Utah e ancora in Wyoming si sta valutando di ripristinare il plotone di esecuzione. Lo Utah aveva abbandonato il plotone nel 2004, ma come altri Stati negli ultimi dodici mesi ha dovuto fare i conti con la resistenza delle società farmaceutiche di fornire medicinali allo scopo di togliere la vita.
Gli Stati americani avevano abbandonato i plotoni di esecuzione e le sedie elettriche alla fine del XX secolo per motivi "d'immagine". Più di una volta i detenuti erano andati in fiamme mentre venivano folgorati, o il pubblico aveva reagito con orrore alla vista di un condannato crivellato di colpi. Una dozzina d'anni non ha reso quei metodi meno barbari, e gli oppositori della pena di morte invitano a riflettere sul fatto che un Paese civile dibatta sul modo più "accettabile" di uccidere i propri cittadini. "Che si spenda tempo cercando metodi efficaci per uccidere la gente è offensivo - ha detto Adam Leathers, della Coalizione per l'abolizione della pena di morte dell'Oklahoma - non c'è un modo giusto per fare la cosa sbagliata".
Agi, 12 febbraio 2015
È finito in tragedia il tentativo di fuga e la clamorosa protesta di sei detenuti del carcere di Kaohsiung, nel sud dell'isola di Taiwan, che mercoledì pomeriggio avevano preso d'assalto l'armeria della prigione e preso in ostaggio alcuni funzionari del carcere. I sei detenuti si sono suicidati all'alba dopo avere rilasciato sani e salvi i due ostaggi che avevano con loro: il direttore del carcere, Chen Shih-Chih, e il capo delle guardie, Wang Shih-tsang.
Lo ha confermato in un intervento televisivo il vice ministro della Giustizia dell'isola, Chen Ming-tang, che non ha spiegato cosa abbia spinto i sei a suicidarsi. I sei reclusi, in carcere per reati di varo genere (dall'omicidio alla rapina) protestavano per le lunghe pene detentive e denunciavano la parzialità del sistema di giustizia nei confronti dei politici corrotti.
Secondo le prime ricostruzioni dell'evento, i primi quattro si sarebbero uccisi con i fucili e le pistole sequestrati dall'armeria della prigione mentre gli ultimi due si sarebbero suicidati dopo avere sparato altri colpi ai compagni di carcere per assicurarsi che fossero morti.
I sei prigionieri lamentavano anche le dure condizioni di vita nel carcere; e durante la notte, mentre la prigione era circondata da centinaia di agenti, i sei avevano fatto recapitare una lettera ai negoziatori in cui citavano come "ingiusto" il caso dell'ex presidente di Taiwan, Chen Shui-bian, a cui era stata garantita la libertà condizionale il mese scorso per problemi di salute, dopo essere stato condannato per corruzione nel 2009. Tutti e sei i detenuti dovevano scontare pene tra i 25 e i 46 anni di carcere per reati che vanno dal traffico di droga, la rapina a mano armata e l'omicidio. Tra i primi commenti, quello del presidente di Taiwan, Ma Ying-jeou, che ha condannato il tentativo di evasione dei sei detenuti definendolo "inaccettabile".
di Paola Battista
www.west-info.eu, 12 febbraio 2015
Portare in prigione cani maltrattati e affidarli alle cure dei detenuti. Non una sporadica iniziativa benefica, quanto un efficace percorso socio-educativo raccontato dal documentario made in Usa Dogs on the inside. Che descrive il sorprendente effetto dell'ingresso degli amici a quattro zampe sui reclusi di un istituto penitenziario del Massachusetts. Entusiasti dei nuovi fedeli compagni di cella da nutrire, portare a spasso e, soprattutto, educare con pazienza grazie alle tecniche apprese da istruttori esperti. Vere ancore di salvezza cui aggrapparsi per ricominciare, raccontano le guardie carcerarie. "Tutti meritano una seconda opportunità" afferma da parte sua il realizzatore "entrambi avevano bisogno di un amico". Uno strumento di risocializzazione dei condannati, che nel corso delle settimane ha messo in luce "ricadute tremendamente benefiche e drastici cambiamenti" nella condotta di ormai ex criminali.
di Carmelo Musumeci
Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2015
"Oggi, durante il progetto Scuola-Carcere, ad una domanda di una studentessa ho risposto che in carcere è difficile crescere e migliorare da soli, è più facile quando si comunica e ci si confronta". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com).
Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2015
Gentile Ministro, con la presente intendo sostenere l'appello della Redazione di Ristretti Orizzonti "sugli stati generali del carcere". Apprezzo da tempo il prezioso lavoro della redazione, in particolare quello di sensibilizzazione degli studenti, e ho avuto modo di apprezzare la qualità dei convegni organizzati nella casa di reclusione di Padova.
di Stefano Anastasia (Presidente onorario di Antigone)
www.osservatorioantigone.it, 11 febbraio 2015
Il Ministro Orlando ha giustamente risposto in senso affermativo alla richiesta che gli è venuta da più parti, e principalmente dalla redazione di Ristretti orizzonti, di fare degli annunciati Stati generali sulle pene e sul carcere un'occasione di confronto anche con i diretti interessati, i condannati e le condannate, i detenuti e le detenute che vivono direttamente tale condizione e che possono offrire un punto di vista non solo "diverso", ma essenziale, anzi - meglio - imprescindibile alla comprensione dei problemi e dei limiti del nostro sistema penitenziario. Ciò detto, vorrei spezzare una lancia anche a favore della interlocuzione diretta con una realtà come quella di Ristretti.
Vita, 11 febbraio 2015
Lo ha deciso il ministro Andrea Orlando. La redazione del giornale penitenziario Ristretti Orizzonti: "L'evento? Facciamolo qui a Padova, sarebbe un segnale importante". "Nel mese di aprile faremo una riflessione complessiva, a cui abbiamo dato il nome di Stati generali della pena, non solo con gli addetti ai lavori, ma anche con chi c'è dentro le carceri". Ad annunciarlo è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando in occasione del convegno organizzato dalle Camere penali a Palermo nello scorso fine settimana. Il responsabile di via Arenula ha così assecondato la richiesta che la redazione di Ristretti Orizzonti (la testata dei detenuti del carcere di Padova Due Palazzi) gli aveva recapito nei giorni scorsi attraverso una lettera aperta, proponendo fra l'altro proprio il penitenziario veneto come sede del meeting.
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