di Gianni Macheda
Italia Oggi, 10 febbraio 2015
Testimoni di giustizia assunti dalle pubbliche amministrazioni, ma dopo aver superato un test di "meritevolezza" del beneficio, una prova di idoneità e sapendo comunque di dover rinunciare a tutto o parte dell'assegno statale di mantenimento dei familiari. Chi non si trova bene nel nuovo posto di lavoro potrà fare domanda di comando o distacco presso altri enti.
Lo prevede il regolamento del ministero dell'interno 18 dicembre 2014, n. 204, che dà attuazione al dl 101/2013 e che è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 30. In vigore dal prossimo 21 febbraio, il decreto siglato di concerto con il ministro della funzione pubblica, si applica ai testimoni di giustizia sottoposti alle misure speciali di protezione previste dalla legge in quali, per accedere a un programma di assunzione per chiamata diretta nominativa, dovranno presentare domanda alla Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, indicando una o più sedi territoriali dove gradirebbero essere collocati.
Compito della Commissione, anche valutando quanti e quali benefici economici i testimoni abbiano già percepito o se abbiano già fruito di interventi finalizzati al reinserimento sociale, è quello di deliberare il riconoscimento del diritto all'assunzione. Di tali soggetti verrà poi fatto un elenco, partendo da chi ha percepito al momento più benefici (che quindi avrà meno possibilità di essere assunto) a chi ne ha ottenuti di meno (che dunque avrà più chance).
Entro il 1° gennaio e il 1° settembre di ogni anno viene fatta la ricognizione dei posti disponibili, acquisendoli presso le amministrazioni locali e le camere di commercio e gli uffici statali. Una lista che viene poi incrociata con quella delle domande, tenendo conto del titolo di studio e della professionalità dei testimoni, delle esigenze di sicurezza personale e delle preferenze espresse.
Scattano dunque le pratiche dell'assunzione che prevedono anche lo svolgimento delle prove di idoneità, il quale non comporta valutazione comparativa ma è volto solo ad accertare l'idoneità del lavoratore a svolgere le mansioni del profilo nel quale avviene l'assunzione. Fatta l'assegnazione il testimone ha 15 giorni di tempo per accettare o no; se rifiuta, decade dal beneficio.
Una volta assunto, se subentrano motivi di sicurezza che impediscano di lavorare nel posto scelto, si aprono le porte all'assegnazione in comando o distacco presso altre amministrazioni, ed è comunque garantito il collocamento dei testimoni di giustizia in aspettativa retribuita. Nell'ipotesi di assunzione la Commissione centrale può poi rideterminare la misura dell'assegno di mantenimento per le persone a carico e prive di capacità lavorativa, ma anche misure atte a favorirne il reinserimento sociale.
Il Velino, 10 febbraio 2015
"I delinquenti in uno Stato normale vanno in galera, in Italia no: girano liberi continuando a rapinare, aggredire se non di peggio. E se un cittadino onesto si difende finisce nei guai. Come direbbe il grande Gino Bartali, "è tutto sbagliato, è tutto da rifare".
Lo afferma Roberto Calderoli, Vice Presidente del Senato, che spiega: "In uno Stato normale chi compie furti, sparatorie e aggressioni va in galera, non è libero di andare in giro armato a rapinare gioiellerie, costringendo la gente onesta a difendersi rispondendo al fuoco e - continua - in uno Stato normale uno spacciatore con 4 espulsioni alle spalle che accoltella due carabinieri se ne sta in prigione, non viene scarcerato dopo una notte diventando uccel di bosco".
"In uno Stato normale esiste la certezza della pena, ma, purtroppo, in Italia vengono protetti i delinquenti mentre chi si difende rischia carcere e risarcimento", denuncia l'esponente della Lega Nord. "Invece di perdere tempo, Renzi e Orlando mettano mano a quell'assurdità che è l'eccesso di legittima difesa", è la proposta di Calderoli che aggiunge: "E Alfano utilizzi le forze dell'ordine per il presidio del territorio e il ripristino della legalità anziché - conclude - per traghettare ed accogliere gli immigrati clandestini".
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 10 febbraio 2015
La deputata Pd Enza Bruno Bossio chiede risposte: perché il detenuto perse la vita a dicembre nel carcere di Arghillà? La morte poco chiara del detenuto Roberto Jerinò, denunciata su queste stesse pagine de "Il Garantista", approda al parlamento.
Su sollecitazione di Emilio Quintieri, esponente del Partito Radicale, l'onorevole Enza Bruno Bossio, deputata del Partito democratico e membro della commissione bicamerale Antimafia, ha presentato un interrogazione parlamentare a risposta in commissione ai ministri della Giustizia, Andrea Orlando e della Salute, Beatrice Lorenzin.
La parlamentare calabrese - che da tempo si occupa anche della tutela dei diritti umani fondamentali all'interno degli stabilimenti penitenziari - ha chiesto al Governo di chiarire le circostanze della morte del detenuto Roberto Jerinò, deceduto lo scorso 23 dicembre 2014 presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Il 60enne, di Gioiosa Ionica, Comune della Provincia di Reggio Calabria, si trovava in custodia cautelare presso la Casa Circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria, dopo essere stato ristretto per un qualche tempo presso la Casa Circondariale di Paola, in Provincia di Cosenza.
L'On. Enza Bruno Bossio, nella sua interrogazione (la n. 5/04649 del 05.02.2014), riferisce quanto trapelato in merito agli ultimi momenti di vita del detenuto e narrato su 11 Garantista lo scorso 6 gennaio 2015 ritenendo che "a giudizio dell'interrogante, i fatti esposti nel presente atto di sindacato ispettivo richiedono doverosi accertamenti dal momento che il signor Roberto Jerinò era affidato alla custodia dello Stato".
In merito, c'è da dire, che a seguito di una denuncia dei familiari dell'uomo, il sostituto procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Dott. Giovanni Calamita, ha aperto un fascicolo attualmente contro ignoti per accertare se ci siano eventuali responsabilità da parte del personale dell'amministrazione penitenziaria che lo aveva in custodia o dei sanitari penitenziari ed ospedalieri che lo avevano in cura.
Sul corpo di Jerinò, su disposizione del magistrato, è stata eseguito anche l'esame necroscopico. Nei prossimi giorni, secondo quanto riferisce il radicale Quintieri, i congiunti del defunto che sono rappresentati e difesi dall'avvocato Caterina Fuda del Foro di Reggio Calabria, saranno sentiti come persone informate sui fatti, presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. L'onorevole Enza Bruno Bossio, nello specifico, ha chiesto ai ministri della Giustizia e della Salute, se e di quali informazioni disponga il Governo in ordine ai fatti descritti; se e quali problemi di salute presentasse il detenuto Roberto Jerinò all'atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Paola e poi presso quella di "Arghillà" di Reggio Calabria ricavabili dal suo diario clinico e quali motivi abbiano determinato il trasferimento dello stesso dallo stabilimento penitenziario di Paola a quello di "Arghillà" di Reggio Calabria; se e come sia stata prestata l'assistenza sanitaria al detenuto durante la sua restrizione carceraria chiarendo cosa gli era stato diagnosticato ed a quali trattamenti terapeutici fosse sottoposto visto che, in pochissimo tempo, le sue condizioni si sono irrimediabilmente compromesse; quando, da chi e per quali ragioni il detenuto sia stato trasferito presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria specificando se il ricovero, in considerazione della gravità del quadro patologico, avrebbe potuto effettuarsi prima che le condizioni del signor Jerinò peggiorassero in modo fatale come è avvenuto; se siano noti i motivi per i quali sia stato negato al detenuto, da parte dell'autorità giudiziaria competente, di ottenere la concessione degli arresti domiciliari presso la propria abitazione e di quali elementi disponga il governo circa la dinamica del decesso e le relative cause e se siano state ravvisate eventuali responsabilità del personale operante presso l'amministrazione penitenziaria.
Inoltre, l'attenzione della deputata democratica, si è focalizzata anche sulla struttura carceraria. Sono state chieste delucidazioni anche su quali fossero le condizioni della casa circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria all'epoca dei fatti (dicembre 2014), facendo riferimento alla capienza regolamentare, a quanti detenuti vi fossero ristretti, quanti tra questi fossero tossicodipendenti e quanti affetti da gravi disturbi mentali o altri gravi patologie e se si fosse in grado di riuscire a garantire, in maniera sufficiente ed adeguata, non soltanto la sorveglianza dei detenuti ma anche l'assistenza sanitaria ed il sostegno educativo e psicologico nei loro confronti; se attualmente si trovino ristretti in detto Istituto in custodia cautelare o in espiazione di pena detenuti con gravi problemi di salute e se risulti se siano state presentate dagli stessi alle autorità giudiziarie competenti istanze di concessione degli arresti domiciliari o di sospensione o differimento della esecuzione della pena e, in caso affermativo, quali siano gli esiti delle stesse; se il predetto istituto penitenziario sia stato ispezionato dalla competente azienda sanitaria provinciale ed, in caso affermativo, a quando risalgano le visite e cosa sia scritto nelle rispettive relazioni inoltrate ai ministri interrogati, agli uffici regionali ed al magistrato di sorveglianza in merito allo stato igienico sanitario dell'istituto, all'adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario ed alle condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti ai sensi dell'articolo 11 commi 12 e 13 dell'Ordinamento penitenziario approvato con legge n. 354 del 1975 e infine, se e con che frequenza il magistrato di Sorveglianza competente abbia visitato, negli ultimi anni, i locali dove si trovano ristretti i detenuti ai sensi dell'articolo 75, comma 1, del regolamento di esecuzione penitenziaria approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 230/2000 e se abbia mai prospettato al ministro della Giustizia eventuali problemi, disservizi o violazioni dei diritti dei detenuti nell'ambito della sua attività di vigilanza ai sensi dell'articolo 69 del citato ordinamento penitenziario.
di Irene Puccioni
La Nazione, 10 febbraio 2015
Giuseppe Gulotta è stato in carcere da innocente per 22 anni. Domani si riunisce la Corte di Reggio Calabria. Gli avvocati promettono battaglia.
Gli è stato negato anche un sussidio mensile in attesa che venga stabilito il risarcimento economico per aver passato 22 anni in carcere da innocente. La Corte d'Appello di Reggio Calabria per il momento ha detto "no" alla richiesta di una provvigione per Giuseppe Gulotta avanzata dagli avvocati Pardo Cellini e Baldassare Lauria, fintanto che il procedimento che dovrà stabilire la cifra - quella stimata dai legali è di 56 milioni e 88mila euro - a riparazione del maltolto, non sarà concluso. E l'esito, a questo punto, non è per nulla scontato: l'avvocatura dello Stato, infatti, sta facendo una strenua quanto ostinata opposizione alla richiesta di risarcimento: "un attacco frontale", lo ha definito l'avvocato Cellini.
Gulotta, il muratore di Certaldo oggi 57enne, è stato assolto con formula piena dalla stessa Corte calabrese il 13 febbraio 2012 che ha annullato la condanna all'ergastolo inflittagli nel 1990 per la strage di Alcamo Marina del 1976 in cui furono uccisi due carabinieri. Domani la Corte di Reggio Calabria si riunirà di nuovo e in aula gli avvocati promettono battaglia. "Siamo all'assurdo - tuona Cellini - l'avvocatura dello Stato è arrivata a sostenere che Giuseppe Gulotta non ha diritto al risarcimento perché di fatto l'errore giudiziario lo ha provocato lui stesso auto incolpandosi del duplice delitto. La confessione - sottolinea l'avvocato - gli fu estorta con torture e sevizie. C'è una sentenza passata in giudicato che lo ha stabilito. Lo Stato, dopo 36 anni, ha finalmente riconosciuto l'innocenza di quest'uomo e ora gli nega un sacrosanto diritto: quello di essere risarcito".
Cellini è deluso e amareggiato e non nasconde una certa preoccupazione per quello che potrà accadere in aula. Tre i possibili scenari: la Corte potrebbe decidere di disporre una provvigione, accogliendo il ricorso degli avvocati, e prendersi altro tempo per valutare tutte le perizie fornite dai legali al fine di stabilire il 'quantum' del risarcimento; i giudici potrebbero, invece, esprimersi immediatamente sulla cifra a riparazione del danno; come terza ipotesi la Corte potrebbe invece accogliere la memoria difensiva dell'avvocatura e rigettare la richiesta di risarcimento.
"Un'eventualità, quest'ultima - dice con risolutezza Cellini - che non prendiamo neppure in considerazione. Quello che mi auspico è che la Corte difenda lo stato di diritto e non lo Stato che attraverso la propria avvocatura sta portando avanti un'opposizione in malafede. Quanto ancora dovrà pagare Giuseppe Gulotta prima di poter tornare a vivere? A diciotto anni gli è stata rovinata l'esistenza, per 22 anni ha vissuto da innocente dietro le sbarre e oggi che di anni ne ha 57 ed è un uomo libero, non ha ancora trovato pace per sé e per la sua famiglia".
Adnkronos, 10 febbraio 2015
Nessuna prova, un "quadro indiziario assente", che sembrerebbe sfaldare quella certezza granitica che lo scorso 16 giugno aveva portato in carcere Massimo Giuseppe Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio.
I nuovi elementi emersi nelle relazioni dei consulenti della procura di Bergamo sembrano sottrarre pezzi al puzzle dell'accusa e dare vigore alla tesi della difesa - a cui credono in pochi - che oggi torna a chiedere la scarcerazione dell'indagato accusato di aver ucciso, con crudeltà, la giovane ginnasta di Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui corpo senza vita fu trovato in un campo di Chignolo d'Isola a tre mesi esatti di distanza.
Nella nuova istanza di 13 pagine consegnata al gip Vincenza Maccora, il legale Claudio Salvagni si focalizza sulle nuove perizie dei consulenti dell'accusa in cui si evidenzia l'assenza di peli e capelli di Bossetti sul corpo della 13enne - "nessun reperto pilifero riconducibile all'indagato risulta rinvenuto tra quelli presenti sul cadavere della vittima e nelle immediate vicinanze", così come si esclude "in modo categorico" la presenza di tracce di Yara sugli abiti, gli attrezzi e il furgone sequestrati al 44enne muratore.
"L'esito assolutamente negativo" di questi accertamenti costituisce "un rilevante e determinante elemento a favore dell'indagato - si legge nell'istanza in possesso dell'Adnkronos - e, in particolare, un fatto nuovo sopravvenuto, idoneo a contrastare concretamente gli indizi di colpevolezza posti a base della misura restrittiva", trattandosi di circostanze "che minano, senza alcun dubbio, le argomentazioni esternate dall'accusa che, in tali indagini, indicava l'esistenza di rilevanti elementi indiziari". Novità di "natura determinante" anche alla luce dei nuovi riscontri scientifici.
Sulla traccia mista (Yara - Ignoto 1) trovata sugli slip della 13enne ci sono "acclarati dubbi scientifici", a dire del legale, dopo la relazione firmata lo scorso 5 gennaio dal consulente dell'accusa Carlo Previderè in cui emerge come il Dna mitocondriale di "Ignoto 1" non corrisponde con quello di Bossetti, contro una piena corrispondenza tra il Dna nucleare del presunto assassino con quello dell'indagato, possibilità difficile da spiegare a dire di più esperti. Per la difesa questa nuova consulenza "ha innegabilmente - utilizzando e richiamando le stesse parole del Tribunale di Brescia - scalfito la solidità delle conclusioni delineando manifeste incongruenze dei test rivelatori del Dna". La relazione di Previderè "oltre a costituire elemento di seria pregnanza scientifica e di indubbio valore argomentativo provenendo, peraltro, da consulente della procura" contiene "argomentazioni che pervengono a soluzioni difformi od incompatibili" rispetto a quelle finora note.
Un fatto cruciale alla luce dell'ordinanza dell'ottobre scorso del tribunale del Riesame di Brescia che ha respinto, così come fatto in precedenza dal gip di Bergamo, l'istanza di scarcerazioni. Diverse però le motivazioni: se il giudice delle indagini preliminari ha ravvisato la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza" in particolare quattro, il Riesame riduce sostanzialmente alla traccia biologica l'elemento che costringe in carcere Bossetti.
La presenza sulla cute, sugli abiti e nelle vie aeree di Yara di polvere di calce tipica dei cantieri edili non può essere considerata univoca della presenza di Bossetti; così come il dato sul suo cellulare (aggancia la cella di via Natta a Mapello alle 17.45 del 26 novembre 2010 - giorno della scomparsa -, oltre un'ora dopo rispetto alla presenza del cellulare della 13enne nella stessa zona) e la descrizione del fratellino di Yara di un possibile sospetto, per il Riesame "non ha alcuna carica cautelare, ne´ costituisce sul piano ontologico-processuale un indizio".
La mancanza di valenza indiziaria di questi tre elementi riduce dunque alla traccia genetica la prova regina contro Bossetti. Un solo elemento su cui ora emergono "acclarati dubbi scientifici" ammessi implicitamente, secondo l'avvocato Claudio Salvagni, dalla stessa procura di Bergamo. La scelta di non ricorrere al giudizio immediato "dimostra, una volta di più, l'assoluta inconsistenza delle allegazioni indiziarie formulate dalla procura. Se il compendio indiziario, è asseritamente esaustivo, allora si deve chiedere il giudizio immediato", l'aver desistito dal farlo, costituisce "un determinante 'fatto sopravvenuto" che dimostra, per il legale "l'inesistenza degli indizi di colpevolezza" contro il suo assistito.
Qualora, non si dovesse tener conto dei dubbi emersi sulle traccia biologica - in seguito ai nuovi esami dei consulenti dell'accusa e a quelli depositati pochi giorni fa da Sarah Gino e Monica Omedei, esperte incaricate dalla difesa -, in tale caso, "dovrà', comunque, valere - scrive l'avvocato Salvagni - il principio di valutazione dell'evidenza scientifica secondo il favor rei" come sancito dalla Suprema Corte, per cui "la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ai fini cautelari deve tenere conto della regola di giudizio a favore dell'imputato nel caso di dubbio". Il gip di Bergamo ha cinque giorni per decidere sulla nuova istanza con cui il legale chiede la revoca della misura cautelare in carcere o, in subordine, un'altra meno afflittiva come i domiciliari. Una mossa che, in caso negativo, consentirebbe alla difesa di ricorrere nuovamente in Appello e quindi ancora in Cassazione. I giudici di piazza Cavour, a cui si è già rivolta la difesa dopo il no del Riesame, il prossimo 25 febbraio dovranno pronunciarsi solo sul primo ricorso non tenendo conto delle ultime rivelazioni sull'omicidio di Yara.
Criminologo Denti: palese errori su Bossetti, basta gogna pubblica
"Nonostante una perizia firmata da Carlo Previderè, consulente dell'accusa, abbia evidenziato dei palesi errori nell'analisi delle tracce del Dna rinvenuto sul corpo di Yara, la Procura persista nel colpevolizzare Bossetti, sebbene sia ormai evidente che le lunghe e costose indagini non abbiano portato ad alcuna prova decisiva per la sua incriminazione".
Lo afferma il criminologo investigativo Ezio Denti, che fa parte del pool difensivo di Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere con l'accusa di aver ucciso Yara Gambirasio. "Fa specie realizzare - spiega - che in Italia dove, teoricamente, si discute del giusto processo e del sistema di garanzie a favore di chi è imputato, l'opinione pubblica e tutti gli addetti ai lavori, sin dall'arresto di Bossetti, si siano orientati nel presumerne la colpevolezza, anziché l'innocenza, senza nemmeno conoscere il contenuto delle indagini e degli atti di causa".
Per Denti "le mostruose forze messe in campo dalla procura, che dovrebbero essere strumento di tutela della giustizia e mezzi per la scoperta della verità, si sono rivoltate contro un cittadino qualunque, diventando, per lo stesso, strumenti di ingiustizia e sofferenza". E se la tesi innocentista della difesa, dopo la "pubblica gogna", dovesse mostrarsi corretta "come si potrà superare - si chiede - il dramma personale e familiare che Bossetti ha affrontato e dovrà affrontare in futuro?". E al momento opportuno "si vedrà cosa avranno da dire tutti coloro che hanno visto in lui "il diavolo" o lo hanno additato - conclude Denti - come l'assassino".
Dire, 10 febbraio 2015
"Paradossale situazione nelle tre Colonie Penali della Sardegna, le Case di Reclusione dove sono ubicate le aziende agricole in cui si praticano agricoltura e allevamento. A fronte di circa 750 posti disponibili attualmente vi lavorano soltanto 284 detenuti.
Numeri particolarmente significativi se si considera che le aree in questione occupano complessivamente circa 6.200 ettari. Si configura insomma un collasso delle attività lavorative e produttive con pesanti negative ripercussioni sulle finanze dello Stato". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", richiamando l'attenzione sulla necessità di "consentire l'accesso alle Colonie Penali ai detenuti che debbano scontare una pena residua di almeno 6/8 anni".
"In Sardegna, gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, evidenziano - sottolinea - una condizione critica delle Colonie. A Is Arenas (Arbus), 2.700 ettari di territorio comprese spiaggia e terre incolte, lavorano 72 detenuti per 176 posti disponibili. Non è diversa la situazione di Mamone (nel territorio di Lodè) dove per la stessa estensione territoriale sono presenti 123 reclusi per una capienza regolamentare di 392. Analogamente a Isili (800 ettari) lavorano 89 ristretti per 180 posti".
"È evidente che l'ampia disponibilità di lavoro agro-pastorale contrasta - evidenzia la presidente di Sdr - con la concentrazione di cittadini privati della libertà totalmente inattivi in altre strutture penitenziarie ponendo in risalto la necessità di rivedere, almeno in parte, i criteri per l'assegnazione dei ristretti alle Colonie in modo da rendere produttive le aziende e rafforzare il programma di recupero dei reclusi. Le strutture all'aperto peraltro sono assegnate a Direttori con doppi e tripli incarichi senza contare le carenze delle figure amministrative".
"Attualmente per accedere alle Colonie agricole la pena inflitta e/o residua non deve superare i 4 anni, il detenuto deve aver mantenuto una condotta costantemente corretta e deve possedere l'idoneità sanitaria. Prima del trasferimento inoltre ciascun recluso deve sottoscrivere un patto trattamentale con il quale si impegna non solo a rispettare le regole ma a partecipare attivamente alla vita della Colonia. Ciò significa - ricorda Caligaris - una responsabilizzazione personale molto importante per la riabilitazione sociale.
Durante la permanenza il detenuto, che gode di una certa libertà di movimento dovendo svolgere attività lavorative, viene professionalizzato nei diversi settori dall'apicoltura alla potatura, dalla tosatura alla produzione di formaggi. Le Case di Reclusione all'aperto della Sardegna producono infatti il marchio Galeghiotto ma con un numero insufficiente di detenuti/lavoratori si corre il serio rischio di far naufragare il progetto".
"Diventa dunque necessario - conclude - modificare il criterio di accesso alle Colonie portandolo almeno da 4 a 6/8 anni. In questo modo, pur con una ineliminabile valutazione del comportamento da parte dell'equipe d'Istituto, del tipo di reato e delle condizioni di salute, sarà possibile ridare slancio alle tre strutture alternative. Senza questa indispensabile modifica, da attuarsi in tempi rapidi, sarebbe più opportuno liberalizzare i territori, restituendoli alle amministrazioni locali per una valorizzazione, e promuovere cooperative sociali in cui possano trovare sbocco lavorativo anche gli ex detenuti".
di Gaia Bozza
www.fanpage.it, 10 febbraio 2015
Dopo oltre un anno, non c'è nessuna giustizia per il giovane di Pomezia morto in circostanze drammatiche e oscure nel carcere di Poggioreale: l'inchiesta aperta a Napoli si è impantanata. La madre: "Un martire delle carceri". L'avvocato accusa: "Non ci hanno fatto ascoltare i compagni di cella".
Sono passati quindici lunghi mesi dalla morte di Federico Perna nel carcere di Poggioreale. Federico era un ragazzo di 34 anni, finito in cella per un cumulo di pene a causa di piccoli reati legati alla droga, e morto l'8 Novembre 2013 con molte gravi patologie e un corpo martoriato. Quindici mesi fa è stata aperta un'inchiesta dalla Procura di Napoli, ma da allora l'unica evoluzione è stata la richiesta di archiviazione e l'opposizione degli avvocati. Quindici mesi aggiungono pena a pena, soprattutto se non si riesce a venire a capo di una morte avvenuta in circostanze così drammatiche e oscure.
"Non abbiamo ancora risposte - si sfoga la madre, Nobila Scafuro - e questo mi fa cadere le braccia. Ho fiducia nella giustizia ma spero che il giudice guardi bene a fondo la storia di Federico, che sicuramente non è morto di morte natura le come dicono. Basta guardare le sue foto, la sua situazione, le sue malattie".
L'avvocato Camilo Autieri intanto, non si è fermato. Ora chiama in causa direttamente lo Stato: nello specifico, il Ministero della Salute e il Ministero della Giustizia, " che incarnano lo Stato e noi crediamo che sia dello Stato, nel suo complesso, la responsabilità della morte di Federico Perna". "Alla base della nostra azione - continua - ci sono innumerevoli pareri di medici incaricati e medici interni all'istituzione carceraria che dicono tutti, univocamente, una cosa: il ragazzo era incompatibile con il carcere".
Questa mossa, spera l'avvocato, darà un impulso anche all'azione penale: "Nell'inchiesta aperta a Napoli - accusa - Siamo stati ostacolati nel diritto di difesa: di fatto, non siamo stati messi in condizione di svolgere indagini difensive". Ma in che senso? "Non ci è mai stata rilasciata copia delle cartelle cliniche del giovane - risponde Autieri.
Mai date autorizzazioni per parlare con le persone che erano in cella con lui; abbiamo fatto istanze su istanze, ma non ci è stata data nemmeno risposta. Pensi che non ci hanno concesso nemmeno di ritirare gli effetti personali di Federico, le poche cose che aveva in cella". Oltre a chiamare in causa i ministeri, il legale ricorrerà anche alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
La vicenda è quanto mai controversa e drammatica, come Fanpage.it ha raccontato in questo lungo periodo. Federico Perna era molto ammalato.
Era tossicodipendente, e nonostante avesse epatite C, cirrosi epatica, leucopenia e piastrinopenia (carenza di difese immunitarie), un disturbo borderline di personalità e lamentasse problemi cardiaci, è stato trasferito di carcere in carcere fino a Poggioreale: tutte le istanze per riportarlo a casa e le richieste dei sanitari di trasferirlo in una struttura dove potesse essere curato sono state rigettate o ignorate: "Può essere curato in carcere, stiamo attendendo un ricovero, c'è carenza di letti", queste le risposte più comuni.
Intanto Federico stava male: la sua situazione è il paradigma della tortura che le carceri italiane possono infliggere alle persone, tra sovraffollamento, carenza di assistenza sanitaria, abbandono e maltrattamenti. E poco importa che vi siano stati pareri da parte di medici interni alle strutture carcerarie e medici di parte che certificavano la sua incompatibilità con il regime detentivo per le gravi condizioni di salute. Si è aggiunta gravità a gravità, perché a un certo punto il ragazzo ha iniziato a lamentare fiato corto, problemi riconducibili al cuore "mai approfonditi", denunciano gli avvocati.
Fino alla morte, avvenuta l'8 Novembre 2013: secondo la perizia disposta dalla Procura di Napoli si è trattato di un attacco ischemico. Ma la madre di Federico, che dopo l'autopsia aveva deciso con un gesto estremo di pubblicare le foto del figlio, stenta a credere che quel corpo martoriato sia semplicemente il risultato di un malore improvviso. Nel 2013 sono state presentate anche due interrogazioni parlamentari.
Siamo nel periodo in cui è ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, che si era interessata personalmente della vicenda di Giulia Ligresti, in carcere e affetta da anoressia, figlia dell'imprenditore Salvatore Ligresti, amico di vecchia data dell'ex ministro. Anche l'associazione Antigone Campania è intervenuta sul nostro giornale per affermare con forza che il giovane non poteva stare in carcere.
"Non avevo il numero della Cancellieri", si sfogava Nobila in quel periodo. Federico lo scriveva spesso, nelle lettere alla madre, che voleva tornare a casa per curarsi: "Mamma, mi stanno ammazzando, portami a casa", ed era diventato una specie di mantra. "Mio figlio ha cambiato nove carceri in condizioni di salute disperate, è stato un martire dello Stato, lasciato morire in cella - racconta Nobila Scafuro.
E poi nessuno mi leva dalla testa la smorfia di dolore impressa sul suo volto. Non aveva più i denti, aveva una grossa ustione sul braccio, un palmo della mano rotto perché secondo l'autopsia ha urtato contro un corpo contundente. C'è anche chi mi ha descritto che Federico è stato picchiato (Fanpage.it ha pubblicato una lettera, che deve essere vagliata dai difensori, ndr). Questo è un dubbio lacerante che nessuno mi toglierà mai dalla testa".
Intanto, Nobila ha scritto un libro per ricordare la sua amarissima vicenda e ha aperto una associazione, "Federico Perna - Diritti e Doveri", per aiutare detenuti ed ex detenuti. E per mantenere viva la memoria di Federico.
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 10 febbraio 2015
Dopo che la Cassa delle Ammende ha chiuso i rubinetti, le cooperative che gestivano la mensa cercano altre vie per finanziarsi. C'è la cooperativa dei detenuti "Abc-La sapienza in tavola" del carcere di Bollate (Milano) che sopravvive nonostante la chiusura del progetto di gestione della mensa. Ma la presidentessa Silvia Polleri non sa fino a quanto potranno continuare, così sta lavorando a un grande progetto che è ancora tenuto in segreto attraverso cui accedere a nuovi fondi.
Da quando il 15 gennaio la Cassa delle ammende ha sospeso i finanziamenti per le cooperative che avevano in gestione le mense di nove carceri italiane, i detenuti di Abc sono pagati a mercede, attraverso un voucher erogato dall'azienda in cui sono comprese le coperture Inps e mail. Sul fatto che il finanziamento di Cassa delle ammende si interrompesse, l'amministrazione penitenziaria non ha mai fatto mistero: "Lo sapevamo già da un anno", ammette il direttore di Bollate Parisi.
Per la cooperativa non ci sono più sgravi fiscali, previsti invece dalla commissione Smuraglia per il lavoro in carcere. Anche lo stipendio dei detenuti si è dimezzato con il cambio di regime: da circa 1.200 euro al mese a meno di 600. "Questo non sarà il catering della misericordia. Stiamo continuando a cercare strade alternative per proseguire con il nostro servizio", dichiara Polleri, la presidentessa della cooperativa.
Da parte della direzione del carcere c'è stata la disponibilità a continuare a concedere l'uso della cucina anche per i prodotti di catering esterno, una delle stampelle su cui si reggono le finanze di Abc. I numeri raccolti dalla cooperativa confermano i risultati positivi dei dieci anni di progetti come la riduzione della recidiva: dei 50 detenuti che hanno lavorato ad Abc solo cinque sono tornati a delinquere. Polleri stima che il carcere di Bollate abbia risparmiato all'anno grazie ad Abc 43 mila euro, soprattutto in spese di manutenzione della cucina e spese per la sorveglianza dei detenuti.
Ricordiamo la storia , definitivamente conclusa, sui progetti finanziati dal Governo. Nel 2003 il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, avvia una sperimentazione in dieci penitenziari in tutto il Paese. Con il finanziamento del Dap si ristrutturano a fondo gli impianti delle cucine e si affida la gestione a cooperative sociali che devono formare professionalmente i detenuti. Il che ha significato lunghi periodi di formazione, affiancamento a professionisti, gestione con criteri di efficienza, adeguamento agli standard di qualità e sicurezza, fino all'inserimento dei detenuti in articolo 21 e misure alternative alla detenzione. E stipendi altrettanto veri, allineati al contratto collettivo nazionale.
Dal 2009 il finanziamento non viene più erogato direttamente dal Dap, ma dall'ente del Ministero della Giustizia che finanzia i programmi di reinserimento in favore di detenuti. Finanziamento che l'attuale Governo - il quale dovrebbe essere il più sensibile alle tematiche sociali - ha deciso di non rinnovarlo. E ora con fatica le cooperative migliori stanno facendo di tutto per rimanere ancora a galla.
La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2015
Nel supercarcere modello di Nuchis il problema più grosso è quello della distribuzione interna di acqua di acqua potabile. Lo hanno scoperto, due settimana fa, gli addetti ai controlli alla sicurezza e igiene interna al carcere di massima sicurezza, quando si sono resi conto, visivamente, che dai rubinetti l'acqua che sgorgava non era proprio di fonte, cristallina, ma un pochino opaca. Le immediate analisi richieste alla Asl hanno confermato la presenza di contaminazione di origine naturale, ovvero dosi al di sopra dei valori di media di ferro, da qui il colore rossastro dell'acqua.
La ricerca della "fonte" di tale contaminazione pare sia state rapidissima, e qui sta il dilemma. Parrebbe che alcune condotte interne siano state realizzate, dall'impresa che ha costruito il supercarcere (la Gia.Fi. di Firenze, una delle aziende finite sotto inchiesta per gli affari con la Cricca della Ferratella) con tubature metalliche contenente ferro che, con l'usura del tempo, si sarebbero arrugginite. In attesa del completamento degli accertamenti già disposti dalla direzione del penitenziario di massima sicurezza sono scattate le contromisure.
Per l'approvvigionamento idrico della struttura, che ospita duecento detenuti e dove lavorano giornalmente una ottantina di agenti, circa venti tra impiegati e funzionari e altrettanti addetti al reparto sanitario, un vero e proprio ospedale interno con medici e infermieri professionisti, è stato attivato un servizio di autobotti utilizzando furgoni dell'amministrazione penitenziaria, che portano acqua potabile alle cucine per la mensa dei detenuti (si spera anche per quella degli agenti della polizia penitenziaria) e riforniscono i depositi di acqua potabile interni. Il controllo dell'impianto idrico sarà completato nelle prossime ore da parte del personale inviato dal dipartimento per gli istituti di pena.
www.catanzaroinforma.it, 10 febbraio 2015
Sabato 21 febbraio, dalle ore 9 alle ore 11.30, una delegazione della Uil guidata dal Segretario generale Carmelo Barbagallo, effettuerà una visita alla Casa circondariale di Catanzaro per verificare lo stato dei luoghi di lavoro della polizia penitenziaria.
Ad affiancare il segretario generale della Uil durante la visita - è scritto in una nota - ci saranno, tra gli altri, il Segretario Generale della Uil Pubblica Amministrazione Attili, il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari Sarno ed il Segretario Regionale della Calabria Uilpa Penitenziari Paradiso. Durante la visita sarà effettuato un servizio fotografico che documenterà la situazione lavorativa. Si tratta dell'ennesima tappa di una iniziativa denominata "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori".
Un tour che ha già toccato, in poco più di due anni, circa 50 istituti Penitenziari d'Italia documentando, in numerosissimi casi, le infamanti e difficili condizioni di lavoro cui sono costretti gli agenti penitenziari e le incivili condizioni della detenzione. "Intendiamo contribuire alla diffusione di una verità troppo spesso celata dalle mura di cinta.
I nostri servizi fotografici - spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari - sono un momento alto di informazione. Riteniamo che le immagini, molto più delle parole, possano contribuire ad una presa di coscienza collettiva di come sia ancora distante la soluzione al dramma sociale delle condizioni di lavoro e di detenzione nelle nostre carceri. La presenza a Catanzaro, quindi, di Barbagallo ed Attili non solo conferma una storia ultraventennale di attenzione e sensibilità verso il mondo carcerario e di chi ci lavora di tutta la Uil, quant'anche una sollecitazione forte alla politica a risolvere, presto e bene, una questione sociale che, da più parti, è stata definita una vergogna per l'Italia".
Già nel novembre del 2013 una delegazione della Uilpa Penitenziari documentò, attraverso un servizio fotografico, lo stato dei luoghi di lavoro dell'istituto di Siano "ma da aprile dello scorso anno è stato attivato un nuovo padiglione - ricorda Sarno - che sarà il soggetto principale delle nostre rilevazioni fotografiche. Sul punto è bene sottolineare come la burocrazia impedisca di assegnare in via definitiva il personale necessario al funzionamento della nuova struttura e, in attesa di una auspicata revisione delle piante organiche, si è ripiegato sull'escamotage del distacco provvisorio per le 35 unità provenienti da altri istituti penitenziari d' Italia. Così come è intollerabile che a distanza di un anno dalla chiusura del carcere di Lamezia Terme non vi sia ancora un formale decreto ministeriale di dismissione e che a sorvegliare una struttura inattiva vi sia un contingente di 6 unità di polizia penitenziaria che potrebbe essere destinato a compiti operativi più confacenti alle necessità, senza dimenticare - chiosa il Segretario della Uil-Pa penitenziari - l'esigenza del personale che ha perso la sede ad avere un quadro chiaro e certo del proprio futuro lavorativo".
Copie del servizio fotografico effettuato durante la visita saranno distribuite nel corso di una Conferenza Stampa (a cui parteciperanno Barbagallo, Attili e Sarno) che si terrà nella sala conferenze del carcere di Catanzaro alle ore 12.00 di sabato 21 Febbraio 2015. Le foto saranno tutte pubblicabili, avendo già acquisito specifica autorizzazione da parte del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria).
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