di Lorenzo Rosoli e Giovanna Sciacchitano
Avvenire, 18 dicembre 2019
Il segretario di Stato è stato prima nell'istituto di pena di Opera, poi ha inaugurato il borgo solidale a Quarto Oggiaro. Il carcere di Opera, al margine meridionale di Milano, con le 1.300 persone che vi sono detenute, più gli agenti, gli educatori, i volontari. La Corte di Quarto, all'estrema periferia nord, dove Fondazione Arché ha avviato un'esperienza di "vicinato solidale" che mette in rete nuclei mamma-bambino "fragili" con alcune coppie e singoli e una piccola fraternità formata da religiosi e laici. Infine la redazione di Avvenire, dov'è stata celebrata la Messa per il Natale (si veda l'articolo che apre questa pagina). Ecco i tre volti di Milano - tre modi, diversi, di promuovere bene comune - che oggi si sono fatti incontro al cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, nella giornata trascorsa a Milano.
Nel carcere di Opera, dove "nascono" le ostie - "Voi state collaborando col Signore, perché possa dare la vita a tante persone". Così ha detto il cardinale Parolin, benedicendo il laboratorio "Il senso del pane", nato nel carcere di Opera nel 2016, in vista del Giubileo della misericordia, e che da allora ha prodotto, grazie al lavoro dei detenuti, più di tre milioni di ostie destinate a parrocchie di tutto il mondo. Questo laboratorio è una delle esperienze più significative, fra le numerose ospitate nella casa di reclusione milanese.
Accolto dalla vicedirettrice dell'istituto, Mariantonietta Tucci, dal comandante del reparto di Polizia penitenziaria, Amerigo Fusco, e dal cappellano, don Francesco Palumbo, Parolin ha dialogato con i detenuti e visitato diversi laboratori, a partire da quello delle ostie, dove lo ha accompagnato Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello spirito e delle arti. Nello stesso laboratorio ha incontrato il barnabita padre Giannicola Simone, che ha testimoniato il desiderio del suo istituto di aprire un'esperienza analoga nel carcere di Merida, nel Messico.
Quindi la tappa nella cappella. "Grazie per questa accoglienza così bella, semplice, fraterna - ha esordito Parolin - mi avete accolto come una persona importante. Ma io vi porto la vicinanza di una persona più importante di me. La più importante di tutte ovviamente è Gesù. E noi vogliamo essere trasparenza di Gesù, non schermo. E vi porto la vicinanza e i saluti di papa Francesco. Voi sapete quanto abbia a cuore la situazione dei carcerati. Vicinanza - ha aggiunto il porporato - è una parola che usa spesso. Quante volte l'ho sentito dire ai preti: siate vicini alla gente!
Questa vicinanza non è solo un atteggiamento umano ma, per i cristiani, un dovere, se siamo davvero discepoli di Gesù. Perché il mistero del Natale consiste in questo: in un Dio che si fa vicino a noi, si addossa le nostre sofferenze e i nostri errori, condivide tutto di noi per aprirci alla speranza di diventare persone nuove e di poter essere, a nostra volta, vicini agli altri". Infine: nel giorno del compleanno di Bergoglio, da Opera - primo carcere italiano a lanciare un'iniziativa simile, ricorda un comunicato di Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti - nasce la proposta di riunirsi in preghiera un giorno a settimana per il Papa.
Quarto Oggiaro, spazio al "vicinato solidale" - Il borgo solidale "La Corte di Quarto" - casa per mamme e bambini con fragilità costruita e aperta da Arché a Quarto Oggiaro - è stata la seconda tappa nell'itinerario milanese del cardinale Parolin. L'obiettivo di questo progetto: accompagnare per un anno o due le donne in fuga da violenze e dalle guerre, dopo il percorso di comunità.
"Questo non è solo un tetto ma è un luogo di condivisione e di relazioni, perché le relazioni curano e aiutano moltissimo queste mamme a recuperare la voglia di futuro", ha detto padre Giuseppe Bettoni, fondatore e presidente di Arché, cui si deve l'intuizione del progetto.
"Il Santo Padre sarà contento della vostra presenza in occasione dei 30 anni di attività. È importante che lo Spirito del Signore continui a suscitare uomini e donne che sanno intercettare i bisogni e dare risposte", ha detto il porporato intervenendo all'inaugurazione della Corte di Quarto, poco dopo mezzogiorno. "Insieme si può fare e si può rispondere alle necessità, questo è un messaggio importante alle porte del Natale".
E ai giornalisti ha spiegato: "Penso che questo progetto a Milano porti un messaggio di solidarietà. Di fronte all'esistenza di tanti problemi, difficoltà, disagio, bisogna essere sensibili e non chiudere gli occhi. È il tema della globalizzazione dell'indifferenza che il Papa continua a richiamare".
La struttura prevede 14 nuove unità abitative per accogliere nuclei di madri con bambini avviati all'autonomia, singoli o coppie che scelgono di vivere un'esperienza di vicinato solidale e una piccola fraternità di religiosi e laici. Al piano terra c'è uno spazio polivalente aperto alla cittadinanza, dove, oltre ad iniziative culturali, è previsto un servizio di counseling per i genitori del territorio. Il progetto ha potuto contare sul contributo di oltre un milione di euro, grazie a tanti amici e sostenitori, primo fra tutti Unicredit.
cataniatoday.it, 18 dicembre 2019
Giovedì e venerdì, don Piero Galvano e Salvo Pappalardo, rispettivamente direttore e responsabile delle attività della Caritas Diocesana di Catania, incontreranno i detenuti della Casa Circondariale di Piazza Lanza. La visita della delegazione dell'organismo diocesano, un appuntamento ormai tradizionale nel corso delle feste, sarà dedicata a uno scambio di auguri, alla consegna del panettone, almeno un dolce per ogni camera detentiva, e del Calendario Caritas 2020 che quest'anno è stato intitolato "...ero in carcere e siete venuti a trovarmi".
Il calendario ospita i pensieri dei detenuti e ciò è stato possibile grazie alla collaborazione della Casa Circondariale di Piazza Lanza, nella persona della direttrice Elisabetta Zito, che ha concesso l'utilizzo degli scritti per la pubblicazione. Parole di speranza, ravvedimento e affetto per i propri cari emergono dai pensieri che i fratelli reclusi hanno voluto indirizzare alla Caritas Diocesana per il Calendario 2020.
Da questa raccolta, che accompagna i dodici mesi dell'anno, emergono aspirazioni e prospettive, e traspare anche il racconto dell'esperienza della detenzione e la volontà di una seconda occasione. L'edizione 2020 del Calendario vuole suggerire al lettore di andare oltre i consueti luoghi comuni sui detenuti, per offrire, tramite le loro stesse parole, uno sguardo su quanti hanno commesso degli errori e vorrebbero, col tempo e con consapevolezza, poter rimediare.
"Auspico vivamente - scrive monsignor Salvatore Gristina, Arcivescovo di Catania, in un estratto del suo intervento che è integralmente riportato nel Calendario - che anche attraverso questo strumento del Calendario 2020 possiamo abbattere quotidianamente il muro della diffidenza o indifferenza verso i fratelli reclusi, sforzandoci di promuovere nei loro riguardi atteggiamenti di concreta accoglienza e inclusione sociale".
Anche don Piero Galvano, direttore della Caritas Diocesana, ha voluto sottolineare come "non dobbiamo dimenticare che, anche chi sta "dentro", come ogni persona, ha un cuore che batte e una mente che pensa: come tutti noi piange e spera, sogna e lotta per perseguire i propri obiettivi, si preoccupa della propria famiglia e soprattutto dei figli, pensa al proprio futuro e lo vede incerto, piange ed ha paura della morte, si pone interrogativi e cerca la verità".
Un pensiero di condivisione e speranza arriva da Elisabetta Zito, direttrice C.C. Piazza Lanza, che ha voluto spiegare che "solo con la collaborazione, la sensibilità e l'empatia che tutti gli operatori penitenziari possono aprire spiragli di luce e di libertà".
lameziaoggi.it, 18 dicembre 2019
I detenuti della Casa circondariale di Paola saranno gli attori del dramma "Fallout" liberamente tratto dal libro di Salvatore Brusca "Fallout. Redenti e dannati nell'era dell'antropocene" (Santelli ed.) che sarà rappresentato presso la stessa Casa circondariale la mattina di venerdì 20 dicembre. L'iniziativa ha ottenuto il permesso del direttore della Casa circondariale, Giuseppe Carrà, il quale ha sempre dato la dovuta importanza all'attività teatrale per la sua funzione rieducativa e per come può facilitare il reinserimento sociale.
Prevista nell'ambito del progetto di Cittadinanza e Costituzione dell'Icsaic "Nella memoria la nostra identità", l'iniziativa, è scritto in una nota, "costituisce un importante traguardo per un percorso durato un anno e, attraverso il quale - ha detto la responsabile del progetto Francesca Rennis - mi sono interfacciata con un gruppo di detenuti in un percorso di rielaborazione critico-riflessivo che da situazioni storiche ci ha condotto a ripensare il nostro rapporto con l'ambiente e con le persone.
Non è un percorso concluso ma credo che questa sia una tappa significativa". Lo stesso libro era stato presentato e oggetto di approfondimento alcuni giorni fa con la presenza dello stesso autore. In quell'occasione aveva riscontrato l'interesse dei detenuti presenti, con i quali Brusca ha dialogato rispondendo alle loro domande e curiosità. La sceneggiatura è stata curata dalla stessa Rennis che ha collaborato anche nella regia con Roberto Pititto.
La vicenda rappresentata si snoda da un equivoco che condizionerà gli eventi dei protagonisti anche se il vero protagonista è la scelta etica che ciascuno di noi è chiamato a fare per poter garantire una sana convivenza civile. Di fondamentale importanza nella realizzazione della rappresentazione sono stati il sostegno dell'equipe degli educatori e la disponibilità della Polizia penitenziaria, la collaborazione con il Centro sociale "Piergiorgio Frassati", la partecipazione dell'associazione "Compagnia della rosa". Alla rappresentazione, seguiranno alcune canzoni e poesie di detenuti, i saluti delle autorità cittadine e del direttore dell'istituto, di alcuni rappresentanti di associazioni presenti, dell'autore del libro.
di Piero Sansonetti
Il Riformista, 18 dicembre 2019
La prima volta che ho partecipato ad una manifestazione politica, da liceale, era una manifestazione antifascista. Parlo della fine degli anni Sessanta. Gridavamo slogan contro Almirante e il Msi. L'Msi era un partito di estrema destra che non era mai stato al governo. La seconda volta invece era una manifestazione studentesca molto agguerrita, mi ricordo che sfilammo in via Cavour, a Roma, e gridavamo: "Siamo sempre più incazzati con governo e sindacati". I sindacati non sostenevano il governo, anzi, erano filo-Pci, in gran parte, e stavamo vivendo un periodo di fortissimo conflitto sociale. Più tardi, da giornalista - faccio un salto negli anni 90 e Duemila - ho seguito diverse manifestazioni contro Berlusconi, anche quando Berlusconi non era al governo. Negli anni 70 invece avevo seguito le manifestazioni contro il Pci, che era il partito cardine dell'opposizione.
Mi stupisce che un sociologo e politologo colto e serio come il professor Luca Ricolfi (ma non solo lui: tanti altri commentatori colti e seri) consideri un paradosso e una insensatezza e un fenomeno senza precedenti, il fatto che le Sardine sfilino contro un partito di opposizione, e cioè la Lega di Salvini, invece che contro il governo. La mia, intendiamoci, non è una obiezione filo-sardine. In questo momento non entro nella discussione sulla loro natura e sugli effetti positivi o negativi che potranno avere sulla società e sulla politica italiana.
Mi interessa semplicemente osservare come forse talvolta un pregiudizio politico possa far male non tanto alla politica, quanto alla politologia. Salvini in questo momento è quasi l'unico leader politico sulla scena. Comunque è il leader di una forza politica maggioritaria, nei sondaggi sicuramente, e ragionevolmente anche nell'opinione pubblica.
Salvini ha dato al suo partito una impronta ideologica e una identità molto nette e in contrasto apertissimo con il cattolicesimo bergogliano e con il pensiero liberale, socialdemocratico, laico e progressista. Cosa c'è di strano, o addirittura di scorretto, se compare una piazza che è contro di lui e che contesta le sue idee e il suo slang?
P.S. Il giovane leader delle Sardine, Mattia Santori, ha chiesto ai leader politici "di usare un linguaggio più complesso". Dio lo benedica! Erano anni che sentivo solo inviti a parlare più semplice. Tanto che alla fine la parola più usata nel dialogo politico era diventata vaffanculo. Viva la complessità. Almeno su questo: grazie Santori.
di Emanuele Giordana
Il Manifesto, 18 dicembre 2019
Militari in subbuglio, il governo "esaminerà nel dettaglio" la decisione della Corte. Pena di morte per Pervez Musharraf dice la sentenza di una corte ad hoc pachistana che mette la parola fine alla lunga vicenda giudiziaria dell'ex dittatore, ex presidente ed ex generale dal 2016 rifugiatosi a Dubai.
Pena capitale per alto tradimento - la condanna più grave in un Paese che ha tra l'altro sospeso la moratoria sulle esecuzioni di Stato - per aver sospeso la Costituzione durante gli anni del suo regime. La notizia arriva come una bomba e sembra mettere una pietra tombale sul destino dell'uomo che dal 1999 al 2008 ha retto il Paese. Ma è davvero la parola fine?
L'esecutivo del premier Imran Khan viene in soccorso, sebbene con prudenza, al generale. Il governo pachistano infatti "esaminerà in dettaglio" la decisione della corte le cui motivazioni saranno rese note a breve. È la prima volta nella storia del Paese che un capo dell'esercito viene dichiarato colpevole di alto tradimento e condannato per questo a morte e non sarebbe evidentemente un bel precedente. Awan ha aggiunto che gli esperti legali analizzeranno tutti gli aspetti legali e politici, nonché l'impatto sugli interessi nazionali, dopo di che una dichiarazione del governo verrà resa nota. È un distinguo che fa intravedere il fatto che la parola fine si allontana. Ma c'è di più. La condanna colpisce indirettamente gli uomini in divisa, vero potere neppur troppo occulto del Paese. E infatti i militari prendono subito posizione.
Una dichiarazione dell'Inter-Services Public Relations (Ispr), ala mediatica dell'esercito, dice che "la decisione è stata accolta con molto dolore e angoscia dalle forze armate". La dichiarazione porta la firma del generale Asif Ghafoor: "Un capo di stato maggiore e presidente del Pakistan, che ha servito per oltre 40 anni e ha combattuto guerre per la difesa del Paese non può essere un traditore". I giochi dunque non sono affatto chiusi. Del resto il team legale di Musharraf, malato di cuore, può appellarsi ricorrendo alla Corte Suprema. E se questa confermasse il verdetto della corte speciale, il presidente avrebbe pur sempre l'autorità costituzionale ai sensi dell'articolo 45 per perdonare un imputato nel braccio della morte. Le accuse a Musharraf riguardano il periodo che va dal 3 novembre al 15 dicembre 2007. In quel pugno di giorni il generale dittatore dichiara lo stato di emergenza e sospende la Costituzione cosa che gli permette di giurare come presidente non eletto.
Ma non si ferma lì: per evitare ostacoli imprigiona 61 giudici dei gradi più alti del sistema giudiziario incluso l'uomo che sta all'apice della piramide, il Chief Justice Iftikhar Mohammad Chaudhry, che aveva già sospeso dal servizio ma che un vasto movimento popolare aveva fatto reinsediare. È forse il suo scivolone più grosso, un calcolo politico che gli mette contro magistrati e società civile già turbati dall'ennesimo golpe militare.
Il 2007 è davvero un pessimo anno per il Pakistan che si chiude con l'assassinio di Benazir Bhutto. La sentenza è forse anche il segnale di un desiderio di autonomia della magistratura e di come debba essere giudicato traditore chiunque violi la Costituzione civile. Concetto che finisce per dire indirettamente che l'epiteto "traditore" si dovrebbe storicamente adottare per tutti i dittatori del Paese dei puri. Passati e futuri. In divisa e non.
di Gilberto Corbellini
Il Riformista, 18 dicembre 2019
Chi non studia non sa, chi non sa non capisce, chi non capisce sbaglia, chi sbaglia non è libero, etc. Quasi ovvio. Ma se solo ci si azzarda a dirlo si viene insultati per essere politicamente scorretti o per lesa dignità di persone che si credono libere solo perché agiscono scompostamente, etc. mentre sono eterodirette o mosse da irrazionali impulsi lesisi e autolesivi.
Decine di studi sui profili di coloro che hanno votato Trump e Brexit, mostrano che il livello di istruzione è il principale parametro predittivo del voto populista. Ma se si dice che il populismo italiano è la conseguenza del grave tasso nazionale dell'analfabetismo funzionale si viene messi alla gogna. Ci saranno sicuramente persone molto istruite che si riconoscono nel populismo e persone poco istruire che lo rifuggono, ma la statistica dice che le persone con bassi livelli di istruzione è più probabile che votino dal lato populista.
"Analfabetismo funzionale" non è un insulto, ma una definizione tecnica, relativa a persone che sanno leggere e scrivere (in Italia l'analfabetismo totale quasi non esiste, trattandosi dello 0,2%), ma non sanno estrarre da un testo il suo preciso contenuto o scoprire che è falso. Dal 28% (fonte Ocse) al 48% (Human Development Index) degli adulti italiani tra 16 e 65 anni è colpito da questa condizione. Siamo ultimi tra i Paesi Ocse e siamo tra gli ultimi in Occidente.
Persino i recenti risultati del test Ocse-Pisa certificano il dramma. Paesi che avvertono meno dell'Italia il problema, come la Francia, hanno lanciato dal 2016 una campagna capillare per migliorare i livelli di istruzione media sulla base di interventi fondati su prove di efficacia, e non mere di chiacchiere pseudo-pedagogiche. L'ascesa del populismo forse non si spiega ovviamente solo o direttamente con bassi livelli di istruzione. C'entrano anche i social media, internet, il fallimento politico della sinistra, la crisi finanziaria, etc. Ma gli effetti di questi fattori cambiano a seconda della base culturale e psicologica delle persone su cui agiscono. È possibile che la correlazione con la scarsa istruzione sia in realtà una spia di altri fattori.
Per esempio, l'apertura mentale delle persone, misurata da test che rilevano specifici tratti della personalità (Big Five) come la disposizione o meno a socializzare, a essere creativi, emozionalmente stabili, interessati alla complessità, etc. Esistono studi sul profilo di personalità di chi ha un orientamento populista, e tutti portano al risultato che è caratterizzato da chiusura mentale e tende a essere convenzionale e tradizionalista.
Sembra che esista una significativa correlazione tra apertura mentale e prosecuzione degli studi superiori, nonché per orientamenti meno populisti. Ergo, può darsi che coloro che decidono di andare all'università abbiano meno probabilità di avere opinioni populiste, anche prima di ricevere istruzione extra, e i livelli di istruzione potrebbero indicare una apertura preesistente, e livelli di istruzione bassi possono semplicemente segnalare una mentalità più tradizionale o "chiusa". Alcuni pensano che non siano i livelli di istruzione che qualcuno riceve, a modellare le opinioni populiste, ma il "tipo".
L'educazione contemporanea metterebbe troppa enfasi sul superamento di test, abuso di indicatori biblio-metrici o sulle prospettive occupazionali di uno studente, invece di insegnare il pensiero critico e le capacità analitiche. Se non viene insegnato a mettere in discussione ciò che ascoltiamo, il populismo diventa più attraente. Oggi, "pensiero critico" è una delle espressioni più usate anche in Italia, quando ci si lamenta di troppa pseudoscienza o superstizione, ma se si interroga chiunque non si riceverà una definizione uniforme. Eppure, si possono costruire mappe di concetti, teorie, valori e procedimenti utili alle persone per capire e affrontare le sfide della contemporaneità.
Il pensiero critico serve perché i politici avvelenano le statistiche per calcoli personali, ovvero adattano le variabili alla loro argomentazione, dando semplicemente priorità al loro successo elettorale, senza necessariamente mentire. Non hanno alcun interesse a cercare la verità interrogando questioni complicate. Inoltre, lo scontro tra le visioni politiche è controproducente poiché il dibattito quasi sempre si basa sulla polarizzazione, che non mette in discussione la fissità o dogmaticità di presunte verità alternative.
La politica ridotta a battaglia demagogica tra fazioni di tifosi minaccia la democrazia in quanto gli elettori sono scoraggiati dal mettere in discussione regimi di verità fisse, proposte come approdi sicuri. Istituzioni come università o partiti politici non possono fare nulla per impedire una tendenza perversa. La mancanza di pensiero critico e il perpetuarsi della demagogia favoriscono la percezione della naturale incertezza dell'esistenza come una ansiogena insicurezza, che accetta risposte acritiche.
I politologi degli anni Cinquanta sapevano che l'istruzione svolge un ruolo chiave per la maturazione di un'autoconsapevolezza politica. Tanto più, quindi, in una società della conoscenza dove servono strumenti precisi o definiti per analizzare i problemi e valutare le decisioni. Sempre che siamo ancora in tempo.
di Daniela Fassini
Avvenire, 18 dicembre 2019
Gli ultimi rapporti di Acnur e Cir parlano di 60mila rifugiati (6mila rinchiusi nei Centri governativi) e un milione di persone senza aiuti. Il problema più urgente? I campi di detenzione. Lo dicono tutti, dalle associazioni in campo per i diritti umani ai governi fino alle agenzie Onu. I centri dove gli stranieri, intercettati sul territorio libico senza un regolare visto, vengono rinchiusi e lasciati in balìa di miliziani con pochi scrupoli.
È qui che avvengono "situazioni indicibili", come aveva denunciato il segretario generale dell'Onu, Guterres, in relazione all'ultimo rapporto sulla situazione nel Paese nordafricano. In assenza di un governo stabile, i migranti vengono venduti come merce di scambio.
Spostati da un lager a un altro, schiavizzati e torturati per estorcere denaro dai familiari costretti ad ascoltare, al cellulare, i dolori delle torture dei propri cari. "Meglio morire in mare che in un lager libico" raccontano i migranti soccorsi in mare da quelle poche navi Ong che ancora lo possono fare.
Attualmente in Libia, secondo l'ultimo rapporto dell'Alto commissariato Onu per le Nazioni Unite, sono circa 6mila i migranti rinchiusi nei dieci principali centri di detenzione del governo di accordo nazionale di al-Sarraj, riconosciuto a livello internazionale. Ma sarebbero tre volte tanto quelli "non governativi" e fuori controllo. Ad oggi, l'Acnur ha registrato 60.000 richiedenti asilo in Libia, ma è riuscita a ricollocarne solo 2.000 circa all'anno.
La capacità dell'agenzia dei rifugiati di ricollocare i richiedenti asilo dalla Libia dipende dalle offerte da parte di Paesi ospitanti sicuri, soprattutto in Europa. A novembre, un appello urgente dal centro di detenzione di Zawiya, dove sono rinchiuse 650 donne e uomini (tra cui 400 eritrei ed etiopi) è stato rilanciato da don Mussie Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia: "Viviamo costantemente nella paura, sentiamo continuamente spari nelle vicinanze, siamo chiusi qui, senza protezione, senza vie di fuga in caso di attacco, rischiamo la vita", raccontano i detenuti quando riescono a mettersi in contatto con il presule.
Don Zerai chiede a tutte le istituzioni europee e alle agenzie per i diritti umani di mobilitarsi per mettere in atto un piano straordinario per queste persone. Dall'inizio dell'anno allo scorso 15 novembre, sempre secondo gli ultimi dati diffusi dall'Acnur, sarebbero complessivamente 8.155 i rifugiati e migranti intercettati dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportati a terra.
Si tratta, in particolare, di 6.547 uomini, 508 donne e 777 minori. La maggior parte delle persone riportate in Libia proviene da Sudan (3.250 persone), Mali (520), Bangladesh (456), Costa d'Avorio (439) e Somalia (391). La maggior parte delle imbarcazioni intercettate è diretta in Europa ed è in partenza da Zwara e Garabulli, rispettivamente a ovest ed a est di Tripoli.
"Da gennaio, più di 8.600 migranti che hanno tentato la traversata del Mediterraneo sono stati riportati in Libia in centri di detenzione sovraffollati, dei quali le Nazioni Unite hanno documentato le condizioni inaccettabili, le violazioni dei diritti umani e le sparizioni - denuncia l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni.
È necessario che siano intraprese azioni rapide per smantellare il sistema di detenzione e trovare soluzioni alternative per proteggere le vite dei migranti". Ma la guerra civile ha messo in ginocchio l'intera economia del Paese nordafricano. Il Centro italiano per i rifugiati parla di circa un milione di persone bisognose di assistenza umanitaria. Sono soprattutto cittadini libici, sfollati, senza cure mediche né medicinali.
di Carmine Gazzanni
Il Giornale, 18 dicembre 2019
Le parole utilizzate dal leader della Lega, Matteo Salvini, non possono essere derubricate a mera battuta. Dopo la decisione della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, di non ammettere la norma sulla cosiddetta "cannabis light" al voto in Aula, l'ex vice-ministro dell'Interno ha ringraziato la seconda carica dello Stato e ha tuonato: "Bloccata in Senato la norma sulla coltivazione e la distribuzione di droga di Stato: no allo Stato spacciatore".
La domanda, a questo punto, nasce spontanea: quanto c'è di vero in quanto riferito dal segretario del primo partito italiano? In sintesi, nulla. E a dirlo non è nessun rivale politico ma una relazione contenente dati oggettivi e redatta dal dipartimento per le Politiche antidroga della presidenza del Consiglio, che fa capo direttamente a Giuseppe Conte. Il report, consegnato solo poche settimane fa in Parlamento, presenta dati a dir poco drammatici. Partiamo dalla mortalità.
L'utilizzo di droghe pesanti in Italia miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, 38 in più dell'anno precedente. In media, una ogni 26 ore. Il 12,8% in più rispetto ai 296 dell'anno precedente, con una quota particolarmente rilevante (+92%) tra le donne over 40. La causa del decesso è stata attribuita in 154 casi all'eroina, in 64 alla cocaina, in 16 al metadone, in 2 alla metamfetamina, in 1 caso all'amfetamina, in 1 alla benzodiazepina, in 1 al furanilfentanil e 1 a psicofarmaci. In 94 casi (28,1%) la sostanza non è stata indicata. Mai, dunque, alla cannabis.
E non va meglio sul fronte delle persone "in trattamento" per l'uso di stupefacenti: un totale di 133.060 (88% uomini, dipendenti soprattutto da eroina e coca). Ma se i 568 servizi pubblici per le dipendenze e le 839 strutture socio-riabilitative censite (su 908 presenti) notano un "invecchiamento della propria utenza", sono i dati sui ricoveri a indicare come molti assuntori non siano consapevoli dei rischi. In un anno, infatti, sono state 7.452 persone finite in ospedale, più di 20 al giorno.
E "più della metà di tali diagnosi fa riferimento a sostanze miste o non conosciute", col sospetto che sia la punta dell'iceberg di una "popolazione insorgente di utilizzatori di sostanze sintetiche e Nps, in maggioranza giovani". E qui si apre un nuovo fronte. Attraverso il web, infatti, iniziano ad arrivare in Italia "Nuove Sostanze Psicoattive": cannabinoidi, catinoni e oppioidi sintetici, in genere ordinati su Internet e ricevuti per posta.
Sono "oltre 400", si legge ancora, i "siti/forum/account social molto usati soprattutto dai giovani", come "piattaforme di vendita online", per i quali sono state "avanzate al ministero della Salute, 17 proposte di oscuramento di siti": Le indagini hanno "portato al sequestro di quasi 80 kg e 27mila dosi di sostanze sintetiche".
Dati eloquenti, dunque, che lasciano intendere come la narrazione di una certa politica sia assolutamente errata. "Stiamo provando in tutti i modi pur di invertire la rotta - spiega a La Notizia l'onorevole Alessandra Mammì (M5S), da sempre impegnata sul fronte sociale - Abbiamo costruito un Intergruppo parlamentare composto da più di 100 deputati.
L'Intergruppo affronta in modo trasversale la tematica sostenendo la legalizzazione: ci servirà anche per fare convegni, trasmettere corrette informazioni. È veramente urgente, informare anche con campagne di sensibilizzazione perché non è pensabile pensare che chi fuma cannabis passi poi alle droghe pesanti, come la destra vuol far credere.
di Stefano Vecchio
Il Manifesto, 18 dicembre 2019
La Relazione sulle droghe 2019, è sostanzialmente una fotocopia di quella del 2018, con l'aggravante che non è firmata da alcun rappresentante del Governo. Preoccupa questa "rimozione" della politica dalle droghe ma ancor di più il vuoto politico che crea. Un vuoto politico che oggi tende ad essere riempito con le proposte di Salvini di inasprimento dell'art 73 del Dpr 309/90, prevalentemente volte a intensificare la criminalizzazione dei consumatori e, ancor peggio, con la presa di posizione sulle stesse corde repressive del Ministro dell'Interno. In questo quadro politico preoccupante si colloca la Relazione al Parlamento che fa risaltare i limiti delle rilevazioni e l'assenza di una analisi sugli effetti delle politiche adottate ormai da 30 anni.
La Relazione, pur presentando questi limiti ormai strutturali, presenta alcuni elementi che, per quanto "inconsciamente" autocritici, di fatto descrivono il fallimento delle politiche di stampo punitivo-repressivo della legge italiana, incentrate sulla patologizzazione dei comportamenti legati all'uso di droghe e alla diffusione di rappresentazioni stigmatizzanti delle persone che usano sostanze psicoattive. Emerge che negli ultimi anni vi è stato un sensibile ampliamento e differenziazione del mercato e delle sostanze circolanti, con l'immissione di droghe sintetiche, con la corrispondente diffusione di modelli di consumo differenziati.
Un ricercatore attento, e magari qualche esponente governativo, avrebbe dovuto trarne le conseguenze che le politiche costruite sul modello della guerra alla droga non hanno raggiunto gli effetti attesi. Se proprio si dovesse rappresentare un "allarme" dovrebbe essere rivolto ai danni sociali, economici e a carico della convivenza, di questo modello di politiche fallimentari.
Se incrociamo i dati dei consumi con l'utenza dei servizi uniformemente diffusi in Italia, i SerD e le Comunità Terapeutiche, la maggioranza (65%) degli utenti di questi servizi è rappresentata da un target che fa riferimento all'1% di utilizzatori di eroina e da una minoranza di assuntori di cocaina. Di persone che usano la cannabis, sostanza più diffusa, se ne contano pochissimi e prevalentemente per effetto delle sanzioni amministrative, cioè per effetto della legge.
Il sistema attuale dei servizi, per ammissione implicita della Relazione, non è cioè pensato per rispondere alle nuove realtà dei consumatori di sostanze psicoattive. Dietro le sbarre troviamo circa un terzo dei detenuti per effetto dell'art. 73 della legge sulle droghe, che conferma quanto da noi scritto nel decimo Libro Bianco sulle droghe.
Il Dipartimento Politiche Antidroga rifiuta il confronto con le prospettive delle ricerche internazionali e italiane (condotte da Forum Droghe) che, sulla scorta del modello di Zinberg "droga set e setting", avrebbero consentito di comprendere le specificità dei modelli di consumo diversificati rilevati e evidentemente non compresi in quanto ingabbiati attraverso le discutibili categorie patologizzanti di rischio e alto rischio.
Nonostante vi sia un paragrafo per gli interventi di Riduzione del Danno, come per il 2018, non compare una analisi puntuale che avrebbe fatto emergere che sono questi i servizi che incontrano i consumatori che non si rivolgono ai servizi ordinari. E ricordiamo che la Riduzione del Danno, inserita nei LEA dal 2017, attende ancora la sua completa declinazione a livello nazionale e rimane a tutt'oggi un diritto "sospeso".
In assenza della politica, la Rete della società civile, degli operatori e delle persone che usano sostanze si incontrerà a Milano (28-29 febbraio) per rendere pubbliche le proposte per un cambio di rotta delle politiche sulle droghe per un governo del fenomeno dei consumi di sostanze psicoattive radicalmente alternativo al modello penale e patologico etichettante del Dpr 309/90.
di Francesca Paci
La Stampa, 18 dicembre 2019
Il ministro degli Esteri al premier libico: Ankara non deve intervenire militarmente. L'Italia rilancia l'iniziativa europea. A breve l'uomo forte della Cirenaica a Roma.
"Nei prossimi giorni l'Italia nominerà un inviato speciale per la Libia, una figura di alto profilo che rappresenterà il nostro Paese e risponderà direttamente alla Farnesina". Il ministro degli esteri Luigi Di Maio atterra a Ciampino dopo la visita lampo a Tripoli, Bengasi e Tobruk con l'annuncio di un rilancio diplomatico a tutto campo.
"È stata una giornata densa di appuntamenti, l'Italia ha indubbiamente perso terreno il Libia ma è il momento che recuperi il suo ruolo naturale e dia una mano in un Paese amico, vicino, a rischio terrorismo e nel pieno di una grave crisi umanitaria", spiega Di Maio. Nel giro di poche ore l'ha ripetuto come suggello di un impegno personale ai suoi due interlocutori principali, il premier Fayez al Sarraj e l'avversario irriducibile Khalifa Haftar, il primo da risentire al telefono stamattina stessa e il secondo atteso a Roma già nelle prossime settimane.
La missione del ministro degli Esteri nasce dall'urgenza imposta alla partita dall'entrata a gamba tesa della Turchia, pronta a intervenire militarmente al fianco del Governo di accordo nazionale (Gna). A Tripoli Di Maio è andato per porgere la mano ai fini di "una soluzione negoziale" ma soprattutto per fare pressione affinché al Sarraj congeli il patto con Erdogan ("sono accordi critici a partire dai confini marittimi", dice) e tenga lontani i suoi soldati. Le parole di Di Maio ai leader del Gna su questo sarebbero state molto nette: la Turchia non deve intervenire militarmente, non potete farli entrare. Una preoccupazione che, al netto di tante differenze, accomuna Roma a Parigi e Berlino.
Dall'entourage del premier libico riferiscono di aver apprezzato, ha apprezzato anche Misurata, la potente città-Stato il cui sostegno al Gna, al netto del recente malumore di alcune milizie per il ritardo nel pagamento degli stipendi, non è mai venuto meno. Però, con la pressione dei bombardamenti alla periferia della capitale, hanno messo i loro paletti fermi, ribadendo che prima di qualsiasi potenziale negoziato Haftar deve rinunciare all'offensiva e tornare da dove è venuto, ossia a Bengasi.
L'Italia gioca di rimessa. A seguito di mesi di assenza il nostro Paese torna a mettere nelle mani nella conflittuale eredità post Gheddafi e lo fa cercando d'inserirsi tra i tanti giocatori in campo. Dopo aver incontrato al Sarraj, Haftar ma anche il vice premier Maitig, il ministro degli Esteri Siala, il presidente della camera dei rappresentanti Aguila Saleh, Di Maio vuole allargare il tavolo: "Parlerò con il segretario di Stato americano Mike Pompeo, con il ministro degli Esteri turco e con quello russo, ci sono molti attori in Libia, qualsiasi interferenza non è una buona notizia per la pace e per questo dobbiamo essere in contatto con diversi Paesi e spingere sul ruolo dell'Italia e dell'Unione EUropea".
Roma, sottolinea più volte, "appoggia gli sforzi dell'inviato delle Nazioni Unite Salamé" e la piattaforma da cui partire è la conferenza di Berlino, pianificata per fine gennaio. Le carte in mano non sono buone. Con Haftar Di Maio ha insistito sul nuovo approccio, vale a dire basta con le foto di summit inconcludenti e lavorare agli interessi comuni.
Nelle ore in cui dialogava con Sarraj a Tripoli, un C-130 prelevava a Bengasi 5 bambini con gravi malattie per trasportarli al Bambin Gesù di Roma, una missione umanitaria a sfondo diplomatico. Haftar, ci riferiscono, è soddisfatto. Tripoli anche. In sottofondo però si continua a sparare, sempre più vicino.
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