di Alessio Scandurra*
Il Riformista, 14 dicembre 2019
Il ministro Lamorgese annuncia pene ancora più aspre per gli spacciatori. Ma la repressione non fa diminuire i consumi, ingolfa i tribunali e fa scoppiare le carceri: per infliggere un colpo alle mafie pensiamo piuttosto a legalizzare.
Quando siamo arrabbiati a volte alziamo la voce. Talvolta battiamo pure i pugni sul tavolo e di norma la lucidità della nostra argomentazione non ne guadagna. Nei fatti, se la discussione non ne risente, alla fine, quando avremo analizzato tutti gli argomenti sul tavolo, quelli gridati a voce più alta non risulteranno solo per quello i migliori. e in effetti non era per quello che avevamo alzato la voce. L'abbiamo fatto per la tensione, per paura di non essere ascoltati.
Per debolezza. È paradossale ma il diritto penale ha una vita simile alle nostre arrabbiature. Questo delicato meccanismo pensato per affrontare nel modo più accorto possibile i fatti più gravi, le controversie che riguardano i temi più delicati per le nostre comunità. viene invocato a gran voce ogni volta che abbiamo una crisi che non sappiamo come affrontare.
Di fronte a problemi complessi, che richiedono soluzioni articolate ed equilibrate, è invece facile invocare pene sempre più alte per chi individuiamo come responsabile. La domanda di diritto penale in questi casi è segno di debolezza, del non sapere affrontare un problema al livello della sua stessa complessità. E questa è la storia della lotta alla droga.
Stiamo parlando di una delle più importanti industrie del pianeta, sostenuta da attori economici, prevalentemente criminali, che in quanto tali non sono sottoposti a nessuna regola e a nessuno scrupolo in questo particolare mercato. Un fenomeno globale e opaco che condiziona governi e intere economie, ma di cui tutti vediamo soprattutto l'anello finale, lo spacciatore di strada che contratta con il suo cliente.
La nostra ansia e incapacità di affrontare quel fenomeno globale, la nostra debolezza, è la misura della severità con cui ci vorremmo abbattere sul suo anello finale. In questa chiave va letta la richiesta di pene sempre più severe per gli spacciatori e in questo quadro è da inquadrare anche la recente dichiarazione del ministro dell'Interno Lamorgese: "Nel prossimo Consiglio dei ministri porrò la questione dell'inasprimento della pena per chi reitera il reato di spaccio".
Dobbiamo essere onesti. Decenni di politiche proibizioniste ci consentono di prevedere, ormai senza più margine di errore, che la cosa non servirà assolutamente a nulla. Non calerà il traffico. non caleranno i consumi, non migliorerà l'aspetto delle nostre strade, non andrà via la nostra paura. Smetteranno di accusarci di essere lassisti con gli spacciatori?
Probabilmente nemmeno questo, visto che l'accusa non ha nessun fondamento di realtà e dunque può sempre essere reiterata. In Italia, dati alla mano uno dei Paesi più sicuri d'Europa, secondo un'indagine Istat per il 38.2% degli italiani la paura della criminalità influenza molto o abbastanza le nostre abitudini, ed il 46.4% dei cittadini sono poco o per niente soddisfatti del lavoro svolto dalle forze dell'ordine. Tutto questo lo sappiamo perfettamente, eppure la richiesta di pene più severe per gli spacciatori, e non solo per loro, torna periodicamente ad affacciarsi.
Eppure oggi in Italia oltre un terzo dei detenuti, più di 20mila persone, è in carcere per violazione della legge sulle droghe e quasi 180mila sono in attesa di un giudizio per la stessa ragione, ingolfando i tribunali e il lavoro della polizia. Una spesa colossale e totalmente inutile visto l'andamento dei consumi, che resta indifferente alle politiche penali anche più severe. Ma c'è un'altra cosa che in fondo sappiamo perfettamente.
Sappiamo che solo la legalizzazione restituirebbe più sicurezza ai cittadini. eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa colpire il narcotraffico, sfoltire il carico di lavoro dei tribunali e quello delle forze di polizia. Significa togliere introiti alla criminalità organizzata e assicurarne all'erario, risparmiando peraltro le cifre colossali attualmente destinate alla repressione.
E significa migliorare la vita dei consumatori grazie alla presenza di sostanze controllate e al non ingresso nel circuito penale e penitenziario. Anche l'allora Procuratore nazionale antimafia. Franco Roberti, si era espresso a favore della legalizzazione della cannabis e nel 2015 la proposta di legge in materia presentata dall'intergruppo parlamentare guidato da Benedetto Della Vedova aveva raccolto l'adesione di ben 218 parlamentari.
Avevano firmato esponenti del Pd. del M5s, di Sel e del gruppo Misto. Sappiamo dunque esattamente cosa fare. ma non abbiamo la forza per farlo. Mentre la debolezza ci spinge di nuovo ad alzare la voce e a battere i pugni sul tavolo.
*Associazione Antigone
Il Messaggero, 14 dicembre 2019
Dalle urne delle boicottate elezioni presidenziali in Algeria, le prime del dopo Bouteflika, è uscito vincitore l'anziano Abdelmadjid Tebboune, il più vicino al passato regime e ai militari tra i cinque candidati in lizza, peraltro tutti contestati dalla piazza perché legati all'opaco e corrotto sistema di potere algerino che i giovani manifestanti volevano abbattere.
E subito la protesta ha risposto radunando una marea umana in un corteo ad Algeri e dando un'idea di quello che saranno i prossimi mesi per l'Algeria: "Non ci fermeremo", si leggeva su uno striscione. Tebboune, ex premier e più volte ministro, ha ottenuto il 58% dei voti delle elezioni svoltesi giovedì, distanziando Abdelkader Bengrina (17%) e gli altri tre concorrenti, ed evitando un ballottaggio.
L'affluenza alle urne nel Paese nordafricano è stata solo del 41% (o addirittura del 39%, considerando anche il voto all'estero): la più bassa per un'elezione a più candidati da quando l'Algeria ha conquistato l'indipendenza dalla Francia ne11962. Anche nel 2014, l'anno del contestato quarto mandato dell'allora presidente-autocrate Abdelaziz Bouteflika, dimessosi in aprile su pressione di piazza e militari, c'era stata un'affluenza maggiore (51%).
L'astensionismo è parso un effetto del boicottaggio proclamato dall'Hirak, il giovane movimento di protesta che ha spinto i generali a mollare Bouteflika e che non voleva solo elezioni ma anche un radicale cambio del "pouvoir", il sistema di potere che governa l'Algeria.
Pur con una bassa partecipazione, i militari sono però riusciti a far svolgere elezioni già rinviate due volte e ad avere ora un presidente al posto di Bouteflika. Il 74enne rappresentante della vecchia burocrazia algerina era stato il premier meno longevo della storia del Paese: durò meno di tre mesi nel 2017, quando fu prima umiliato in pubblico e poi silurato dal fratello di Bouteflika, Said, reggente di fatto da quando, nel 2013, il presidente era stato colpito da un ictus che gli impediva anche di parlare senza biascicare.
di Riccardo Noury*
Corriere della Sera, 13 dicembre 2019
In questi giorni montano gli attacchi di alcune organizzazioni sindacali di Polizia penitenziaria contro il Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale: attacchi contro la persona che ricopre questo ruolo, Mauro Palma, ma il cui obiettivo appare quello, più ampio, di sopprimere un ruolo fondamentale in tutti gli ordinamenti democratici.
di Paolo Conti
Sette del Corriere, 13 dicembre 2019
Lo scrittore Edoardo Albinati insegna ai detenuti: "Sensibili a Dante e Machiavelli". Ha cominciato le lezioni nel carcere di Rebibbia nel 1994 e oggi segue due classi di istituto tecnico industriale: "Ci sono insieme i 18enni e gli anziani, il rapinatore romano e lo spacciatore del Maghreb. Non avete idea di quanti lettori forti".
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 13 dicembre 2019
Sandra Berardi, presidente dell'Associazione Yairaiha, non è stata autorizzata a partecipare a una iniziativa giovedì scorso nel carcere romano. Da una parte un ex narcotrafficante che non solo si è riscattato nella vita, ma si è attivato per migliorala anche agli altri ed è stato da poco eletto dal sindaco Luigi De Magistris di Napoli, come garante locale dei detenuti.
di Simona Maggiorelli
Left, 13 dicembre 2019
Cappi e manette... e c'è anche chi evoca la ghigliottina! Avanza il partito trasversale dei giustizialisti capeggiato della destra leghista e illiberale alla continua ricerca di capri espiatori. Una destra che, "immemore" dei 49 milioni fatti sparire dal partito fondato da Bossi, vuole spedire nei lager libici i migranti "colpevoli" di non esser morti nel Mediterraneo e vuole richiudere, quelli che sono riusciti a salvarsi, nei centri di detenzione italiani per periodi sempre più lunghi.
Una recente sentenza del tribunale civile di Roma (che ha accolto il ricorso dell'Asgi e di Amnesty) ha stabilito che i respingimenti sono illegali e chi li subisce ha diritto a vedersi risarcire il danno, ma soprattutto ha il diritto di presentare domanda di protezione internazionale nel Paese da cui è stato respinto. E ancora, a proposito di illegalità, nel solco della legge Bossi-Fini (che ha sdoganato l'equazione xenofoba "immigrato = delinquente"), i decreti legge Salvini su sicurezza e immigrazione, violano l'articolo 10 della Costituzione sull'asilo, i trattati internazionali a partire dalla Convenzione di Ginevra sui diritti umani, nonché storiche leggi del mare.
Ma ancora si attende dal Conte II quel segnale di discontinuità che era stato promesso con l'accordo di governo fra Pd e M5s. È trascorsa anche la Giornata internazionale dei diritti dell'uomo 2019 e nulla è stato fatto né detto di positivo in questo senso da esponenti di governo e dal premier stesso che, mesi addietro, conveniva che si dovessero almeno recepire i rilievi del Capo dello Stato sui provvedimenti firmati da Salvini e divenuti legge.
Ed è tutto un tintinnar di manette nella retorica grillina che accompagna il varo della riforma della prescrizione, che entrerà in vigore il prossimo gennaio, in coda alla cosiddetta legge spazza-corrotti. Che cosa comporta? In pratica al termine del primo grado di giudizio il meccanismo della prescrizione non funziona più.
"In presenza di una sentenza di primo grado non vi è più scadenza alla durata del processo", denuncia il costituzionalista Giovanni Russo Spena. Si dilatano così a dismisura i tempi dei processi, che già in Italia hanno durata pari al doppio della media europea. E se è vero che proprio grazie all'istituto della prescrizione possiamo solo scrivere che Andreotti trattò con la mafia fino al 1980, è altrettanto vero che "la durata ragionevole del processo è u principio costituzionale. E dunque "il fine processo mai" è incostituzionale".
Sulla riduzione della durata dei processi la riforma Bonafede non dice nulla di chiaro e di definito. Chi è imputato rischia di esserlo a vita e sarà più difficile per le vittime essere risarcite, come spiega Cesare Antetomaso (Giuristi democratici) in questo sfoglio particolarmente ricco di contributi autorevoli. Come quello dell'avvocato Felice Besostri che insieme a Maurizio Turco, segretario del Partito radicale sta preparando un'azione giudiziaria in favore della durata ragionevole dei processi. Turco sta anche portando avanti una iniziativa per un referendum sul taglio dei parlamentari, passato lo scorso ottobre (anche con il sì del Pd) con gran tripudio dei grillini che per l'occasione hanno rispolverato tutta la loro retorica anti casta.
Ma ben vedere c'è poco di cui essere contenti visto che, a fronte di un piccolo risparmio (che si sarebbe potuto ottenere tagliando gli stipendi dei Parlamentari) questa riforma costituzionale riduce gravemente la rappresentanza. Inoltre, ad un mese dalla scadenza dei termini, non si parla di referendum confermativo (previsto dalla Costituzione quando è in ballo una legge di riforma della Carta). Perciò con la tesoriera Irene Testa, il segretario del Partito radicale ha deciso di scrivere al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per chiedergli "di intervenire con estrema urgenza, per ripristinare il diritto sottratto ai cittadini della Repubblica ad essere informati".
Colpisce che tutto questo non abbia fin qui suscitato una discussione pubblica ampia e adeguata, dal momento che parliamo di norme che mettono in discussione principi cardine sanciti dalla Costituzione antifascista, come la durata ragionevole del processo, appunto, e che toccano anche la funzione della detenzione che deve essere rieducativa, volta al recupero della persona e non vendetta.
Come scrive la penalista Valentina Angeli su questo numero di Left, "i costituenti sapevano che il fascismo si può annidare in ogni espressione ed esercizio del potere pubblico, di cui il potere giudiziario è massima espressione, poiché, attraverso il processo penale, può legittimamente comprimere quegli stessi diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, principalmente quello alla libertà personale".
Di più. L'avvocato Angeli suggerisce con questa sua lettura profonda dei principi costituzionali che nella nostra Carta si può leggere in filigrana un'idea del cittadino come persona a tutto tondo, scevra dall'ideologia religiosa che ci vorrebbe tutti irrimediabilmente segnati dal male, in quanto figli di Caino. La violenza non è innata nell'essere umano e i costituenti, che pure avevano vissuto il fascismo, con grande spessore umano e intelligenza, l'avevano compreso.
di Salvatore Torre*
Il Foglio, 13 dicembre 2019
Quando sono nato mio padre era in carcere, quando è nata mia sorella era in carcere, e quando è nato mio fratello, otto anni dopo, mio padre era ancora in carcere. Ogni volta che lo arrestavano spaccavo qualcosa in casa. Era uno sconosciuto, ma per me era dio.
Mio padre era sempre in carcere e quando non era in carcere era latitante e, quando non era latitante, era con qualcuna delle sue femmine, e quando non era con queste era con i suoi compari. Insomma, mio padre lo si vedeva poco a casa e solo perché la legge gli imponeva di rientrare ogni sera (un'imposizione che lui mal gradiva, pertanto, il più delle volte si dileguava).
Era poco presente nelle nostre vite e non ho molti ricordi di lui, quelli che ho non sono belli e qualcuno, raro, riconduce anch'esso a un senso di tristezza e di delusione.
Un giorno che mi trovavo nella piccola piazza del paese, lo vidi spuntare a bordo di una motoretta. Lo guardai con aria implorante, credo, visto che dopo avermi superato si fermò e con un cenno della testa mi invitò a montare in sella. Feci uno scatto, con il cuore gonfio di gioia gli allacciai le braccia intorno ai fianchi e mi strinsi a lui. Non potevo credere che fosse vero! Infatti, un centinaio di metri più in là, mio padre si fermò di nuovo, si girò verso di me e mi disse: "Scendi".
Solo questo. Sperai che ci ripensasse e che tornasse indietro, ma non lo fece, né allora né mai. Quel papà era inarrivabile. Eppure, era un dio, per me. Per questo ogni volta che lo arrestavano spaccavo qualcosa in casa, una porta, un armadio, un tavolo, intanto spaccavo anche le nocche delle mie mani. E poi piangevo. Piangevo e odiavo ferocemente quegli sbirri che lo avevano arrestato, anche se quando era libero lo vedevo meno di quando si trovava in carcere.
Ho visitato le carceri di mezza Italia per andare a trovarlo. Più tardi ne avrei conosciute e ancora ne sto conoscendo altre, perché a mia volta detenuto. I miei primi ricordi sono legati al carcere di Messina. Mia madre e io, sempre insieme. Il tragitto sul treno fino a Messina, poi un altro autobus e ancora un pezzo di strada a piedi, spediti verso il nostro uomo.
L'attesa nella sala d'ingresso del carcere era noiosa, a volte esasperante, dipendeva dal mio stato d'animo e dalla presenza o meno di altri bambini. E poi tutti quegli sbirri, che detestavo... il loro pronunciare i nostri nomi quasi gridando, le loro chiavi che sbattevano di continuo aprendo e chiudendo porte; i loro imperativi mentre attraversavamo i corridoi e i cancelli che ci portavano alla sala colloquio, uno stanzone diviso a metà da una lastra di marmo, che quando mi ci sedevo sopra, mi congelava il sedere.
All'interno solo degli sgabelli, null'altro. Con mamma prendevamo sempre posto all'angolo della sala. Immagino che volesse proteggere in qualche modo quel nostro momento d'intimità familiare. Tutti rimanevano in silenzio sino all'arrivo dei nostri familiari detenuti. Allora, la sala diventava un vociare confuso e incomprensibile. Mio padre arrivava sempre per ultimo, pareva lo facesse a posta a farmi aspettare più di tutti.
A me che non vedevo l'ora di vederlo. Ciononostante, non ricordo un suo abbraccio. Un abbraccio vero voglio dire, solo quelli formali, con la stretta di mano e i baci sulle guance, prima di sedersi, l'uno di fronte all'altro, divisi da quel bancone di marmo.
(...) Mio padre. Quest'uomo parlava con gli occhi, parlava a tutti con quegli occhi penetranti e freddi, anche con me. Bastava un'occhiata per capire se dovevamo parlare o stare zitti, se muoverci o stare fermi. Io cercavo in questo, come in tutto, di emularlo, lo facevo con i miei compagni di gioco, poi con quelli di strada e più tardi con quelli di malavita.
Volevo però, più di tutto, il suo rispetto. Ma da lui sembrava non fosse possibile avere nulla, neanche questo. Era talmente irrigidito e imprigionato dentro quella sua figura di malavitoso tutto d'un pezzo, che non poteva permettersi alcuna attenzione per gli altri, neppure per i figli.
(...) Una volta, mio padre, dopo avere sorbito il caffè assieme a due malavitosi, mi posò una mano sulla spalla, tenendomi seduto sulla poltrona al suo fianco. A me diceva, senza dire una sola parola, che dovevo imparare ad ascoltare e a capire restando in silenzio; a quegli altri, di guardare bene che aveva un figlio e che questo stava crescendo.
In quel frattempo Mimì, un giovane disadattato della mia contrada, e io, ci accorgevamo l'uno dell'altro. Due solitudini che s'incontravano: lui ventenne ed eroinomane, io dodicenne e figlio di un malavitoso, ci saremmo compensati di quell'affetto che ci mancava, restando amici fino alla morte. Io sarei stato carcerato a vita, lui assassinato, per vendetta contro di me, due anni dopo il mio arresto. La verità è che avevamo poche possibilità di essere altro da ciò che eravamo, di finire diversamente: era scritto nella storia del nostro ambiente sociale.
*Ergastolano, autore del libro "Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri" (Libreria Editrice Vaticana, 174 pp., 10 euro), dal quale è estratto il testo.
di Alessandro Parrotta*
Left, 13 dicembre 2019
È chiaro che l'esigenza di una modifica strutturale delle norme che regolano il sistema giudiziario italiano è priorità da chiunque abbia avuto l'occasione di approcciarsi, anche in maniera occasionale, col sistema giustizia. Ed infatti, sia nell'ambito civile che in quello penale, i problemi sono numerosi e - nella maggior parte dei casi - i medesimi: i tempi, la carenza del personale, la mancanza di strumenti idonei ed all'avanguardia e la commistione della politica nelle scelte dell'organo di autogoverno della magistratura, solo per dirne alcuni.
In questo senso, il provvedimento che presenta una serie di preoccupanti elementi di allarme e lacune è rinvenibile nella cosiddetta Legge Spazza-corrotti, che, certamente da un lato ha il merito di aver innalzato le pene per i corruttori, senza tuttavia, dall'altro lato, risolvere nulla sul lungo periodo, anzi.
Il passaggio da censurare in questa Legge è senza dubbio quello concernente la sospensione della prescrizione: in particolare, l'art. 1, lett. d), e), f) prescrive sul punto che il corso della prescrizione rimanga sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado (non solo di condanna ma addirittura di assoluzione) o del decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna. È evidente come una soluzione del genere - che dispiegherà i propri effetti dal 1 gennaio 2020 - sia assolutamente inadeguata ed inadatta a diminuire i tempi dei processi e, anzi, pregiudichi irrimediabilmente la posizione giuridica della persona sottoposta a processo penale.
Le manifestazioni contrarie sono molteplici ed arrivano da più fronti: la maratona oratoria dell'Ucp (Unione camere penali) di fronte alla Cassazione, presso la quale - tra le tante forze - si è recata una delegazione di Italia Viva, Forza Italia, della Lega e del Pd, oltre all'apprezzabile presenza della senatrice Emma Bonino. Ed ancora la manifestazione promossa da Italia Stato di diritto e dal prof. Marcello Gallo avanti al Palagiustizia di Torino, coi penalisti in toga per dire "no" a quella che più che un passo avanti pare una controriforma.
I penalisti, presieduti dall'avvocato Caiazza, hanno anche incontrato l'onorevole Andrea Orlando - vice segretario del Partito democratico - e la senatrice Dem Pinotti, componente della segreteria del Pd per conoscere "i concreti intendimenti del Partito Democratico per impedire che dal primo gennaio 2020 diventi operativa la regola del processo infinito", come si legge in una nota e nelle agenzie di stampa.
Non si dimentichi l'appello rivolto ai Senatori, ai Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia, dai 120 professori universitari di Diritto Costituzionale, di Diritto Penale, di Diritto processuale penale col quale, assieme alla Giunta dell'Unione delle Camere penali italiane, si è chiesto tecnicamente il blocco della nuova prescrizione.
Forse non ci si rende conto: per una lunga fase, la "nuova non prescrizione" dovrà convivere con la disciplina sulla prescrizione introdotta nel 2017 dalla "legge Orlando", così determinandosi nel sistema la contemporanea operatività di almeno tre diversi regimi sostanziali. Ma ancora di più: dare un "fine processo mai" è sinonimo di assenza di ragionevolezza.
Possibile che sia così complicato ipotizzare regole per rendere effettiva la funzione di filtro dell'udienza preliminare (oggi totalmente disattesa, come tale) oppure un rilancio dei riti alternativi con l'innalzamento dei limiti edittali che consentono l'operatività del patteggiamento, estendendone l'operatività; favorire l'accesso al giudizio abbreviato condizionato in modo più snello. Anzi, ridurre i termini di prescrizione piuttosto che eliminarli e sanzionare chi non si allinea ad una "ragionevole durata del processo".
L'assunto logico è semplice: la diminuzione della durata dei processi passa necessariamente attraverso la riduzione del numero degli stessi. E allora, risulta chiaro come una soluzione in questo senso possa essere identificata - in ambito penale - nell'anticipazione della lotta dei fenomeni criminali, soprattutto quelli relativi ai reati societari, nel terreno della prevenzione, al posto di quello della repressione. Un dato è certo: la riforma non è più rimandabile e la prescrizione, come un diamante, va incastonata in una montatura complessa ed uniforme per garantire la sua esatta collocazione.
*L'avvocato Alessandro Parrotta è direttore Ispeg, Istituto degli studi politici economici giuridici
di Giulio Cavalli
Left, 13 dicembre 2019
È la goduria del tintinnare delle manette. Un minus "atavico", lucido, incorreggibile di chi solo con la vendetta riesce ad avere la sensazione di sfiorare la soddisfazione. Nei ruoli mischiati della politica di questi ultimi anni, qui dove tutto è diventato confuso perché piatto, senza valori e senza contenuti la destra con la bava alla bocca (quella che si definiva garantista e almeno su questo punto sembrava irremovibile) ha tentato di riportare il concetto di giustizia indietro di secoli.
E in qualche modo ha fatto breccia. Sia chiaro, è un lavoro che parte da lontano e che ha parecchie colpe anche dalla parte del centrosinistra: dopo Tangentopoli è rimasta nel Paese una scia di veleno che hanno raccolto in molti, per farne materiale infiammabile da propaganda elettorale e il muro del garantismo (che ormai mica per niente è diventata un'offesa, quasi indicibile) sembra definitivamente abbattuto.
In principio fu Travaglio che provò a convincere ampie fette di popolazione che la corruzione, il malaffare e le mafie fossero solo materie per Procure e che la politica dovesse sdraiarsi emettendo solo irretita indignazione: il direttore de Il Fatto quotidiano insiste nel provare a convincerci che la soluzione sia arrestare tutti i corrotti, tutti i corruttori, tutti i mafiosi e chiudere tutto in un bel sacchetto dell'indifferenziata da buttare nel cassonetto.
Quando qualcuno ha provato a controbattere proponendo letture più sociali e storiche dei fenomeni criminali è stato bollato come un difensore dei cattivi. Punto. Fine. Sciò. Antonino Di Pietro (che ultimamente in molte interviste si dice pentito di avere piegato la politica alla semplice attività della magistratura) ha incarnato perfettamente il ruolo dell'angelo vendicatore in difesa degli italiani: come non poteva essere credibile l'uomo che aveva tenuto alto il nome del pool di Mani Pulite? E senza accorgersi, mentre la folla plaudente godeva delle sevizie ai presunti criminali, abbiamo cominciato a perdere diritti un po' tutti e l'alfabetizzazione del carcere come luogo rieducativo e di reinserimento nella società è diventato roba da anteguerra, fisime da buonisti.
"In galera!" è l'urlo della gente che abbaia per sputare una vendetta travestita da giustizia e "in galera!" è stato l'urlo liberatorio per chi si era convinto di avere trovato una soluzione rapida, efficace e indolore per riparare tutti i mali del Paese. Su quell'urlo il Movimento 5 stelle (che da Travaglio in fondo nasce, raccogliendone le tesi in materia di giustizia) ha spinto ancora di più sull'acceleratore: mentre urlavano "onestà!".
In fondo stavano semplicemente promettendo di punire dolorosamente i colpevoli. Fino a che, ovviamente, i colpevoli sono diventati loro. A quel punto è cambiato tutto e, come al solito, sono diventati garantisti. Eh sì, perché tutti i colpevoli sono garantisti ma la civiltà di un Paese si misura sul trattenersi dal randello da parte degli innocenti.
Proprio così: se è vero che Berlusconi ha usato un finto garantismo per proteggersi da tutti i suoi processi è altresì vero che nessuno a sinistra ha mai avuto la forza e il coraggio di alzare la voce per aprire un dibattito sereno sulla bassezza della vendetta come agire politico. Schierarsi contro l'idea del carcere come castigo, come ritorsione, in palese violazione dell'articolo 27 della nostra Costituzione, dovrebbe essere un principio politico per tutti quelli che hanno a cuore i diritti ma il consenso elettorale è troppo allettante per alzare la voce.
Provate a contare quante volte vi capita di sentire un politico di primo piano (e mica solo Salvini) che si augura "il carcere e buttare via le chiavi" frugando in qualche notizia di cronaca. Provate a chiedere che venga rispettata l'idea originaria della detenzione così come pensata dai nostri padri costituenti: vi diranno che siete amici dei criminali, che difendete il malaffare, che odiate gli italiani e altre cose così. Il pensiero diffuso (tutto rancore e punizione) è un muro difficile anche solo da scalfire.
Poi, negli ultimi anni, hanno preso piede anche gli odiatori di destra (capeggiati, ca va sans dire, da Salvini e Meloni) che hanno trovato nel carcere (sempre inteso come punizione finanche corporale) il metodo legittimo per vomitare razzismo ed esasperazione: in carcere qualcuno che ruba una mela (soprattutto se è straniero), in carcere chi tocca i bambini, senza prove senza aspettare il processo, in carcere i ladri di polli (perché vengono a casa nostra) e così via.
Carcere come soluzione definitiva e onnicomprensiva. Carcere per tutti. Un giustizialismo che non è nient'altro che un metodo per tenere alto l'odio che serve per riempire i propri partiti di voti: un continuo instillare paura (anche se non reale e semplicemente percepita) che chiede un pugno sempre più duro, un pugno sempre più forte. l'allarme sociale utilizzato come spinterogeno propagandistico vuole inevitabilmente che la vendetta venga legalizzata e addirittura allenata: ogni vittima passata sotto ai denti della destra è diventata una miccia per sdoganare violenza.
E non è un caso che a Macerata Traini abbia pensato di farsi giustizia da solo ritenendo perfino la galera un mezzo troppo tiepido per punire i (presunti criminali). Ma la giustizia vista come vendetta è un mostro che non si sfama mai e così oggi siamo arrivati al tribunale del popolo che ritiene colpevole qualcuno perché si vede dalla faccia o perché la sua etnia e il suo credo religioso sono oggettivamente sospetti; ci si augura che i nemici politici vengano arrestati (mica sconfitti, no, arrestati) per avere giustizia e addirittura si invoca un tribunale in grado di punire gli atteggiamenti ritenuti non patriottici e anti italiani. Il cerchio si chiude: si è partiti da Tangentopoli e si è arrivati a sospettare e diffidare di tutto e di tutti. Come quello Zanni del Mistero Buffi) di Dario Fo che vittima della propria fame finisce per mangiarsi. Ma sai che soddisfazione punire, perfino con il rischio di punirsi come vittime collaterali.
Ansa, 13 dicembre 2019
Il percorso penitenziario non basta, servirebbero task force. "È certo che la sola osservazione penitenziaria di per se non potrà mai essere considerata elemento indicativo della rieducazione perché occorre qualcosa in più che ci faccia pensare alla risocializzazione.