di Giusi Fasano
Corriere della Sera, 25 agosto 2019
Eretta per Cristina Biagi. La famiglia: meglio il silenzio. Il sindaco leghista: "Siamo sempre stati vicini a loro, volevano illuminare l'opera e lo faremo. Non abbiamo sospetti". Magari ci riesce il silenzio. Se non è servito il messaggio, se non è bastato il ricordo, se è stato ignorato l'ideale che Sophia rappresenta, allora può darsi che amore e rispetto si possano trasmettere anche senza voce. Alessio ci ha pensato e ripensato e alla fine si è convinto che, sì, "credo che il vero segnale di rivoluzione, di rottura e cambiamento, sia proprio rimanere in silenzio".
larivieraonline.com, 25 agosto 2019
Intervista a Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale Osservatorio Carcere Ucpi. Si è svolta anche quest'anno l'iniziativa "Ferragosto in carcere", promossa in tutta Italia dal Partito Radicale e dall'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere Penali Italiane.
L'iniziativa ha lo scopo di incontrare i detenuti e il personale dell'Amministrazione penitenziaria e di polizia per conoscere meglio le condizioni di ogni struttura carceraria.
di Dario Di Vico
Corriere della Sera, 25 agosto 2019
Quante probabilità di successo ha l'Opa che la Lega ha avviato sull'elettorato che frequenta le parrocchie e su quello non praticante? Il meeting di Comunione e Liberazione si è chiuso - con un rinnovato successo - mentre la crisi di governo è ancora aperta e di conseguenza viene facile porsi domande di connessione. A cominciare da questa: quante probabilità di successo ha l'Opa (ostile?) che Matteo Salvini ha avviato da tempo sull'elettorato cattolico?
Prendendo i dati di una ricerca Ipsos sul voto europeo sappiamo che i consensi per la Lega sono stati del 30,1% tra i "cattolici praticanti ed impegnati" ma crescono via via che cala la frequentazione di parrocchie e riti fino a lambire il 40% tra i non praticanti. Per avere un termine di raffronto tra i praticanti/impegnati il Pd è al 28,1% ma tra i non praticanti arriva solo al 18%. Il dato ancor più interessante riguarda la penetrazione della narrazione salviniana in tema di migranti: la linea intransigente dei porti chiusi è condivisa dal 51% dei cattolici, praticanti o meno. Ho ricordato questo dato a un dirigente di Cl e mi ha confessato che avrebbe sospettato una cifra più elevata. Ma come è possibile che ciò avvenga quando il Papa in prima persona non perde occasione per contrastare la linea sovranista in materia di sbarchi?
La risposta c'è: il conflitto con Salvini è una scelta del Vaticano che non si trasmette in automatico alle strutture sul territorio. L'episodio del parroco di Sora che nell'omelia di pochi giorni fa attacca i migranti fa il paio con un altro episodio di un parroco del lecchese che sosteneva invece le ragioni umanitarie ed è stato contestato dai fedeli che hanno abbandonato la messa. A Salvini è riuscito un colpo da biliardo: far passare la contrapposizione tra gli ultimi e i penultimi.
Una significativa fetta del popolo cattolico non si indigna per l'uso strumentale del rosario ma contesta la priorità assegnata dalla Chiesa ai migranti a scapito di una maggiore attenzione al disagio del ceto medio italiano. Da qui un'adesione all'Opa leghista con doppia valenza: Salvini è visto come un sindacalista dei penultimi e aderendo al suo storytellingsi fa sapere al Vaticano di non condividere quella gerarchia dei problemi. Naturalmente il leader leghista ha dalla sua anche altri vantaggi (ereditati): agli occhi dei cattolici si presenta come il difensore della famiglia tradizionale e delle culle piene contro la sinistra delle unioni civili, dell'ideologia gender e dei gay pride. Che poi Salvini non abbia varato policy per la famiglia/demografia conta poco.
I ciellini che hanno affollato i dibattiti del meeting vivono anch'essi con queste contraddizioni ma gli organizzatori hanno scelto di non farle venire allo scoperto. Del resto da sempre il format riminese evita di istruire dibattiti in contraddittorio, la dirigenza non crede alla dialettica degli opposti (giudicata tardo-illuminista) ma pensa che sia più utile procedere per testimonianze ed esempi. Nell'attesa che il metodo possa venir riconsiderato le larghe platee dei dibattiti mostrano un evidente invecchiamento anagrafico.
Al meeting manca quasi del tutto la generazione dei 35-40enni ma l'annotazione più interessante da un punto di vista antropologico-culturale riguarda proprio gli over 65: non sono molto differenti da quelli che 40 anni fa erano i loro avversari, gli ex giovani di sinistra che ancora oggi frequentano festival ed eventi del Pd o delle altre sigle. Coltivano la stessa tensione ad imparare, anche da anziani, e nutrono la comune volontà di trasmettere conoscenze e valori alle giovani generazioni.
Ma riuscirà questa tensione cognitiva e pedagogica a trasformarsi in una proposta politico-culturale capace di respingere l'Opa ostile? La risposta più intrigante ascoltata a Rimini è venuta sorprendentemente da Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario leghista di palazzo Chigi che però fa parte da anni dell'intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ai più Giorgetti è sembrato ancora legato alla cultura "varesina" del Carroccio (Salvini è milanese, non un leghista di territorio) che vedeva nelle autonomie, nel federalismo e nella sussidiarietà lo strumento per avvicinare politica e popolo. Ma proprio in virtù di questa sua posizione - eccentrica nella stagione della Bestia - ha sfidato i colleghi parlamentari: posso anche dire che sono con voi sui principi della buona politica, della società di mezzo e dei corpi intermedi ma sappiate che oggi sono armi spuntate. Non riescono più a fare da filtro "con la piazza". La partecipazione politica è stata sostituita dai social come i sacerdoti hanno ceduto il passo agli psicologi. O create e creiamo "qualche altro luogo" capace di reintermediare o tutti i discorsi che fate suoneranno come un disco rotto. Non si torna indietro, la democrazia si reinventa o si deteriora. Che un discorso così venga da uno dei principali collaboratori di Salvini è un'altra delle italiche bizzarrie che non riuscirei mai a spiegare a un collega straniero.
Il Messaggero, 25 agosto 2019
Le detenute raccontano la loro storia, si confidano davanti alla telecamera e fanno le riprese. Protagoniste e anche registe del docu-film "Donne in prigione si raccontano", diretto da Jo Squillo, che verrà presentato alla Mostra del cinema di Venezia giovedì 29. Barbara, Claudia, Elena, Elisa, Hasna, Josephine, il film parla di loro e delle altre detenute della sezione femminile del carcere di San Vittore, dove è stato interamente girato.
Il progetto si inserisce all'interno delle iniziative della Onlus Wall of Dolls a sostegno dei progetti culturali al femminile contro la violenza sulle donne e la violenza di genere. Il video-racconto, all'interno dell'istituto di pena, ripercorre il percorso di queste donne che hanno commesso un reato, sono cadute ma che affrontano la risalita.
Un percorso che le ha portate anche a imparare una professione, quella delle cine-operatrice. Perché sono state loro stesse, dopo un corso all'interno del carcere a filmare le loro interviste, a immortalare sensazioni e immagini, a diventare registe delle loro storie. Cosa ha portato le protagoniste del docufilm a tanta violenza? Quale trascorso di sofferenza portano con loro in quelle celle? Come può il carcere aiutarle a rinascere? Interrogativi ai quali "Donne in prigione" cerca di dare delle risposte, proprio tramite la voce delle detenute, che con coraggio e lealtà si sono messe in gioco, raccontando le loro vite.
di Roberto Saviano
L'Espresso, 25 agosto 2019
La propaganda di destra non lo dice, ma ci sono modelli diversi con cui gestire chi sbarca. Alcuni pessimi. Altri invece che fanno bene all'Italia.
Mi scrive Serena Romano mandandomi un suo interessante articolo su come funziona il sistema dell'accoglienza degli immigrati in Italia: "Ti segnalo questo mio articolo (riportato sulla mia pagina Facebook)": Ritengo che al di là della solidarietà, l'umanità e il rispetto della vita umana che ci dovrebbe spingere ad accogliere i migranti, c'è anche quello della convenienza per noi italiani, mai sottolineata, eppure ben più efficace per vincere resistenze e diffidenze alimentate ad arte". Serena Romano ha ragione, ci abbiamo provato a raccontare l'accoglienza come una prassi che non è solo giusta e umana, ma che ci conviene anche.
E ci conviene davvero non perché, come dice qualcuno, da schiavisti potremmo usufruire di manodopera a basso costo alimentando un sistema criminale verso cui i governi che si susseguono si guardano bene dal prendere provvedimenti.
Ci conviene perché l'Italia e l'Europa stanno morendo. A morire sono le piccole città, i piccoli paesi, le aree rurali, quelle montane che si sono, negli ultimi decenni, drammaticamente spopolate e dove bastano poche famiglie di immigrati perché si ripristino i servizi essenziali che rendono un gruppo di persone che vivono in un territorio comunità.
Serena Romano sottolinea come gli ultimi governi non hanno affatto lavorato per rendere virtuoso il sistema dell'accoglienza migranti criminalizzando l'unico sano e in grado di avere un effetto positivo sia su chi viene accolto che su chi accoglie.
"La maggioranza degli italiani non sa che dietro una generica "accoglienza ai migranti", in realtà ci sono sigle - Sprar, Cas, Cpr - che rendono i tipi di accoglienza diversi come il giorno e la notte. Non sa", scrive Serena Romano, "che dietro sigle come Cas e Cpr ci sono i "centri di accoglienza" gestiti dai privati che lucrano sui migranti, dopo averli accatastati in luoghi inospitali, creando insicurezza e insofferenza nei territori dove sorgono: come rivelano gli scandali svelati dalla magistratura.
E che invece, sigle come Sprar, sono sinonimo di un'accoglienza diffusa gestita dall'ente pubblico, che conviene prima di tutto agli italiani perché, nei Comuni in cui viene applicata, produce sicurezza, ricchezza e nuovi posti di lavoro a spese dell'Europa". La criminalizzazione del sistema paese e di Minimo Lucano, vero e proprio pioniere, iniziata con Minniti e continuata con Salvini, serviva proprio a fare bassa propaganda, ad attaccare l'unico sistema di accoglienza che non portava ricchezza a privati ma al territorio, che difficilmente poteva essere infiltrato dalla criminalità a causa dei numeri limitati (e dei limitati guadagni) e del monitoraggio costante. L'unico sistema di accoglienza che, peraltro, utilizzava risorse europee: ma come, non è l'aiuto dell'Europa che costantemente populisti e sovranisti invocano?
"Di conseguenza, per colpa di una propaganda fatta di bugie e disinformazione, la maggioranza degli italiani ignora che c'è una accoglienza buona che "conviene" a tutti gli italiani, e c'è una accoglienza cattiva che Convieni solo a malavitosi e trafficanti di vite umane.
E la più grave conseguenza di questo castello di falce news è che la maggioranza dei cittadini non sa che il Decreto Sicurezza ha eliminato solo l'accoglienza buona gestita dagli enti pubblici con gli Sprar, mentre ha intensificato l'accoglienza cattiva gestita dai privati attraverso Cas e Cpr innescando nuove fonti di violenza, speculazione e conflitto sociale".
Sarebbe lecito domandarsi il perché, ma è chiaro che è più facile fare propaganda colpendo le persone, le storie, i percorsi. Facile colpire Minimo Lucano, difficile smantellare la rete di caporali che tra Puglia, Lazio, Campania e tutte le aree a vocazione agricola del nostro Paese hanno bisogno di manodopera a costo bassissimo e che sono disposti a votare per chi chiude non un occhio, ma tutti e due.
Occorre che manchino trasporti, che manchino luoghi d'accoglienza che rispettino standard minimi di decenza perché si possa avere su chi arriva potere di vitae di morte. Ma esiste un'altra Italia, un'Italia che guarda al futuro e non ai voti, che non fa propaganda ma lavora. Lavora per la sopravvivenza del nostro Paese e per la sua sicurezza e la rete di "Comuni Welcome".
Salvini ha fatto un post sul Palio di Siena decantando la bellezza dell'Italia "delle tradizioni e dei campanili"; ebbene a difendere "tradizioni e campanili" che muoiono di emigrazione (e non di immigrazione, che paradosso, no?), non c'è lui, Ministro della Mala Vita attaccato al potere e alla poltrona, ma chi sul territorio lotta perché vi sia umanità e quindi integrazione e quindi sicurezza e quindi vita. Diffidate da chi urla più forte, in genere è quello che meno ha voglia di fare.
di Fausta Chiesa
Corriere della Sera, 25 agosto 2019
Il suo omicidio commosse l'Italia e spinse il governo a emanare i primi provvedimenti per i migranti. Oggi alle 17 l'omaggio alla sua tomba con la Comunità di Sant'Egidio. Esattamente 30 anni fa moriva ucciso nella baracca dove abitava Jerry Essan Masslo, il profugo sudafricano arrivato in Italia per fuggire alla violenza dell'Apartheid che fu ucciso per rapina nel casertano, dove si trovava per la raccolta dei pomodori.
La sua morte allora non passò nell'indifferenza generale, anzi. Commosse l'Italia e diede il via alle prime grandi manifestazioni antirazziste nazionali e all'approvazione di leggi sulla protezione dei rifugiati e al riconoscimento e alla tutela dei diritti dei lavoratori stranieri. La Comunità di Sant'Egidio che lo accolse a Roma ha invitto a ricordare degnamente Masslo. Oggi, sabato 24 agosto alle 17, al cimitero di Villa Literno è in programma un omaggio alla sua tomba.
Jerry Masslo era fuggito dal Sudafrica lasciando due figli vivi dopo che gli avevano ucciso il padre e un figlio di 7 anni. Arrivato a Fiumicino il 20 marzo 1988 chiede asilo, ma in quel periodo l'Italia riconosce lo status di rifugiato solo a chi arriva dall'Europa dell'Est. Jerry chiede aiuto ad Amnesty International e dopo quattro settimane passate in aeroporto ottiene il permesso di entrare in Italia. Amnesty International contatta la Comunità di Sant'Egidio e Jerry è accolto nella Tenda di Abramo, la prima casa di accoglienza della Comunità a Roma.
Jerry vuole lavorare e con altri quattro compagni va nl casertano e alloggia in una baracca. Ogni mattina all'alba è nella "rotonda degli schiavi" ad aspettare la chiamata. La notte tra il 24 e il 25 agosto arrivano in quattro con lo scooter per rubare ai neri i soldi della misera paga. Jerry e i suoi amici sono aggrediti da alcuni giovani del luogo che volevano rubargli i soldi. Jerry si oppone e gli sparano: avrebbe dovuto compiere 30 anni in dicembre.
La sua morte sconvolge l'Italia. Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie è presente anche il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. "Grazie" alla morte di Jerry Masslo nacque la legge Martelli, che eliminò la clausola geografica: da quel momento in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Allo stesso tempo si regolarizzarono i lavoratori stranieri presenti, da cui emersero dalla clandestinità circa 220mila immigrati, quasi tutti africani. In suo nome nacquero in Italia e soprattutto in Campania varie associazioni.
di Chiara Cruciati
Il Manifesto, 25 agosto 2019
La denuncia di Amnesty: un detenuto ucciso dopo un mese di isolamento nel famigerato carcere di massima sicurezza per prigionieri politici. Lì è detenuto da due mesi anche Ramy Shaath, esponente della sinistra egiziana ed ex consigliere di Arafat. Ma il mondo resta in silenzio: Macron invita al-Sisi come special guest al G7.
Il carcere egiziano di massima sicurezza di Tora è un buco nero. Chi varca la soglia, sparisce. "È stata designata di modo che chi ci entra dentro non ne esce che da morto", così un ex guardia carceraria descrisse a Human Rights Watch la sezione Scorpion, o al-Aqrab, struttura di Tora dedicata all'isolamento. Il destino di Hossam Hamed: anche lui, da quel buco nero, ne è uscito da morto.
A denunciarne il decesso è stata Amnesty International: il giovane egiziano era in isolamento dal 3 agosto scorso e sarebbe stato torturato. Come migliaia di prigionieri prima di lui: la tortura allo Scorpion è pratica usuale, quotidiana. Da decenni Tora cancella le persone dal mondo esterno: nessuna visita della famiglia o dei legali per mesi, a volte anni, assenza pressoché totale di cure mediche e condizioni igieniche basilari, senza materassi per dormire ma tante botte che tengono svegli. Come quelle che, dice Amnesty, ha preso Hossam, picchiato fino a morirne. Ora l'organizzazione internazionale chiede alle autorità egiziane un'inchiesta veloce e indipendente, sulla base di tre diverse testimonianze che raccontano di pestaggi mentre Hamed si trovava nella cosiddetta "cella di disciplina". Lo si sentiva urlare, dicono le fonti, battere alla porta. Ha un certo punto è calato il silenzio. La cella è stata aperta, il prigioniero era morto.
In Egitto il trattamento disumano dei detenuti, soprattutto se politici, è il segreto di pulcinella. Nel mondo arabo il mukhabarat egiziano, i servizi segreti, sono noti per la loro ferocia. L'Italia lo ha scoperto con l'omicidio di Giulio Regeni, ucciso dalla violenza di Stato. Eppure era proprio qui, al Cairo, che l'Onu aveva pensato di tenere la sua conferenza sulla tortura, per poi cambiare idea qualche giorno fa sulla scia di proteste globali e locali. "Le forze di sicurezza egiziane hanno una spaventosa storia di scioccante brutalità e totale impunità", dice Magdalena Mughrabi, vice direttrice di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa. Impunità condivisa con i vertici politici che, a fronte del più violento regime della storia recente egiziana, restano pienamente parte del consesso internazionale. Hossam non è il solo: sono tre i prigionieri morti in custodia da luglio, l'ultimo Omar Adel dopo soli cinque giorni di detenzione. Sparito nel buco nero di Tora.
Ed è a Tora che da quasi due mesi è detenuto Ramy Shaath. Ieri la procura ha chiesto altri 15 giorni di detenzione. È stato arrestato con altri noti esponenti della sinistra egiziana (giornalisti, avvocati, ex deputati) nelle retate che hanno decapitato il neonato movimento Speranza. Per Il Cairo - è così che l'ha spacciato - una rete di sostegno economico ai Fratelli musulmani. Ma i suoi riferimenti politici sono opposti: un movimento laico, di sinistra e ispirazione nasseriana. Tra loro c'era anche Ramy Shaath, portato via in un violento raid il 5 luglio scorso. Palestinese-egiziano, 48 anni, figlio di Nabil, ex ministro dell'Olp, Ramy è stato consigliere di Arafat. Si dedica da decenni della promozione del diritto all'autodeterminazione palestinese e nel 2011 ha aderito alla rivoluzione di Tahrir, prendendo parte alla creazione del partito el-Dostour. Fondatore del Bds Egitto, la campagna per il boicottaggio di Israele, non può che rappresentare una minaccia alle politiche del presidente al-Sisi. Laico, di sinistra, denuncia i rapporti costanti e acritici del Cairo con Tel Aviv come la repressione istituzionalizzata del regime.
Pochi giorni fa la famiglia ha lanciato un appello: racconta della brutalità dell'arresto, della deportazione della moglie Celine, francese, della detenzione con altri 30 prigionieri in una cella di 30 metri quadrati. "Fino al rilascio di Ramy riterremo le autorità egiziane responsabili della sua incolumità", scrive la famiglia. Ma la sua voce rimbalza sul muro di cemento intorno Tora e su quello di gomma della comunità internazionale: mentre Celine è tenuta lontana dal marito, il presidente francese Macron ha invitato al-Sisi al G7 che si apre oggi a Biarrit come special guest. Il buco nero di al-Aqrab fa sparire le persone e la dignità del mondo.
di Vivian Yee
La Repubblica, 25 agosto 2019
Camminando attraverso le macerie di Douma, un piccolo centro alla periferia di Damasco, ci siamo accorti che mancava qualcosa. Intorno a noi, donne portavano la spesa, vecchi scorrazzavano su motociclette e bimbi emaciati trascinavano brocche piene d'acqua, ma c'erano pochissimi giovani uomini: la ragione è che la maggior parte dei giovani siriani sono morti in guerra, sono rinchiusi in carcere o vivono ormai lontano dai confini siriani.
A fare le spese della loro assenza sono i sopravvissuti come Umm Khalil, 59 anni: tre dei suoi figli sono morti in guerra. Un altro è stato torturato in una prigione dei ribelli e di un quinto non si hanno più notizie da quando è sparito nelle carceri governative. Le nuore hanno dovuto trovare un lavoro, mentre lei - vedova dopo un bombardamento aereo - deve tirar su cinque nipoti. "Mi chiedo come sia potuto accadere - dice - la vita era normale, ma all'improvviso ho perso i miei figli. Avevo un marito e ho perso anche lui.
Non ho risposte. Dio perdoni chi è responsabile di tutto questo". Le macerie e la ricostruzione Dopo otto anni di guerra civile, il governo controlla buona parte del Paese e sta conducendo un'offensiva per Idlib, ultimo territorio in mano ai ribelli. Che il presidente Bashar al-Assad abbia vinto la guerra non è da tempo in discussione: siamo venuti in Siria per raccontare che aspetto ha questa vittoria. Abbiamo visitato per 8 giorni 5 città e cittadine sotto il controllo del governo e abbiamo scoperto che la sofferenza e il dolore non sono stati distribuiti in modo equo, ma hanno colpito maggiormente le aree più arretrate del Paese e quelle che erano in mano ai ribelli. E che anche la ricostruzione ha tempi diversi in località diverse.
A Damasco, la capitale, in uno scintillante centro commerciale costato 310 milioni di dollari e costruito durante la guerra risuona il ticchettio di chi va a fare acquisti con i tacchi alti. Nella vicina Douma, rimasta sotto il controllo dei ribelli, non c'è acqua corrente. Nella roccaforte governativa di Latakia, sulla costa del Mediterraneo, le madri piangono accanto alle foto dei figli morti combattendo per Assad. Non sono soltanto le infrastrutture a dover essere ricostruite. La Siria che abbiamo visto è priva di ceto medio.
Chi faceva parte della classe media è scappato o è sceso nella piramide economica: oggi in Siria 8 abitanti su 10 vivono in povertà. Quando poco alla volta tornano, i giovani uomini sono ancora costretti a entrare nell'esercito mentre i dissidenti, o chi è collegato a loro, scompaiono nelle carceri del governo. La popolazione continua a fuggire, anche se meno rispetto al passato. Senza aiuti per la ricostruzione da donatori internazionali, i siriani che abbiamo incontrato hanno fatto tutto il possibile per chiudere i buchi lasciati dai proiettili, sfamare i figli e trovare un lavoro.
Con così tanti giovani scomparsi, spesso il compito di portare a casa il pane ricade sugli anziani o sui giovanissimi, e soprattutto sulle donne, comprese quelle appartenenti a famiglie conservatrici che prima non avevano mai lavorato. "Non avevo mai pensato che avrei lavorato, ma è sempre meglio che chiedere l'elemosina", dice Umm Akil, una signora di 40 anni di Aleppo Est. Per le strade di tutta la Siria sono appesi striscioni con il volto di Assad.
I funzionari siriani impediscono l'accesso ai giornalisti che, secondo loro, ha dato una copertura troppo critica della guerra. Noi abbiamo impiegato sei mesi per avere il visto per entrare in Siria. E comunque questo non significa avere libertà di movimento. Ovunque andassimo, eravamo accompagnati da rappresentanti del governo, soldati, agenti segreti in borghese. Parlare con i siriani è stato difficile per noi e pericoloso per loro.
I funzionari governativi erano impazienti di mostrarci che la vita in Siria sta tornando alla normalità. A Damasco era facile da notare perché la capitale ha evitato i danni più gravi. A soli due minuti di macchina da Damasco, sulla strada per Douma, invece, il paesaggio cambia radicalmente: le ceneri della guerra sono sparse per chilometri e chilometri.
A distanza di più di un anno da quando il governo ha sconfitto i ribelli con un assedio che ha costretto la popolazione a nutrirsi di erba, buona parte della città resta inabitabile. Un bambino ci ha presentato i nonni, Ali Hamoud Tohme e sua moglie Umm Fares. La coppia ha fatto ritorno nel suo appartamento di Douma a maggio, trovandolo saccheggiato e dato alle fiamme e ha scoperto che venti parenti erano morti. Ora deve tirare su 11 nipoti rimasti orfani.
parstoday.com, 25 agosto 2019
L'attenzione verso i dissidenti è probabilmente aumentata dopo l'omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul. Il regime saudita ha un problema con gli emigrati, con chi cioè lascia il paese per andare a vivere altrove. Nel 2016, il Consiglio della Shura (una sorta di Parlamento con funzioni esclusivamente consultive) aveva avvertito che un milione di sauditi vivevano all'estero. Tra di loro, anche i dissidenti del regime, gli oppositori della famiglia Al Saud, quella che governa Riad da quasi un secolo.
Secondo il Financial Times (FT), che ha dedicato un lungo articolo al tema, la questione preoccupa il regime saudita al punto da convincere Riad a commissionare uno studio per valutare la portata del fenomeno. Sembra che il numero di richiedenti asilo politico sauditi raggiungerà i 50.000 entro il 2030. Cinquantamila persone è un numero considerevole, soprattutto considerato che le domande, nel 2017, erano state 815, un dato comunque in notevole crescita rispetto ai poco più di duecento casi registrati nel 2012. L'attenzione verso i dissidenti è probabilmente aumentata dopo l'omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia lo scorso autunno, una morte per la quale anche l'Onu nutre forti sospetti verso il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman.
La Repubblica, 25 agosto 2019
Primi provvedimenti del presidente che definisce la foresta "parte essenziale della storia del Brasile". Trump: "Gli Stati Uniti pronti ad aiutare". I vescovi brasiliani: "alzare la voce per fermare le depredazion. La pressione internazionale su Jair Bolsonaro per spingere il presidente brasiliano a prendere provvedimenti seri sugli incendi della foresta amazzonica sta avendo i primi effetti. Bolsonaro ha deciso di inviare l'esercito nella regione ed ha detto in diretta televisiva, che "la foresta amazzonica è parte essenziale della storia del Brasile". Bolsonaro, oltre ad una comunità internazionale preoccupata, deve dare risposte anche a molti cittadini brasiliani che durante il suo discorso televisivo hanno protestato in piazza contro la politica ambientale del governo. Ed ora anche i vescovi brasiliani alzano la voce per chiedere lo stop dei roghi e la protezione della foresta.
Quello di cui ha paura il presidente brasiliano sono eventuali sanzioni visto che il problema sarà affrontato, per volere del presidente francese Emmanuel Macron, dal G7 che si riunisce oggi in Francia. "Gli incendi forestali avvengono in tutto il mondo - ha osservato il presidente brasiliano - e non possono essere utilizzati come pretesto per sanzioni internazionali". Bolsonaro ha dunque dichiarato che la foresta amazzonica "è parte essenziale" della storia del Brasile e che proteggerla è un dovere. "Ne siamo consapevoli e stiamo agendo per combattere la deforestazione illegale", ha affermato, dopo aver autorizzato il dispiegamento delle forze armate contro gli incendi. "Siamo un governo di tolleranza zero contro la criminalità e il settore ambientale - ha ammonito - non è differente".
Vescovi brasiliani: "In corso criminose depredazioni, servono provvedimenti seri" - "Alzare la voce per l'Amazzonia è ormai indispensabile". La Conferenza episcopale brasiliana scende in campo per l'Amazzonia in fiamme e, rivolgendosi ai governi, lancia un accorato appello affinché vengano messe in campo azioni concrete: "È urgente che i Governi dei Paesi amazzonici, specialmente il Brasile, adottino provvedimenti seri per salvare una regione determinante per l'equilibrio ecologico del pianeta, l'Amazzonia appunto". I vescovi brasiliani si rivolgono anche al presidente Bolsonaro, avvertendo che non è il momento di "deliri e debacle nei giudizi e nei discorsi".
Intanto, di fronte al dramma ambientale, il presidente boliviano Evo Morales ha chiesto ieri una riunione urgente dei ministri degli Esteri dei Paesi che integrano l'Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica (Otca), la cui convocazione sembra però essere difficile perché alcuni dei membri si rifiutano di partecipare per non trovarsi accanto ai rappresentanti del governo del Venezuela. Mentre il capo indigeno Raoni ha chiesto aiuto alla comunità internazionale per "far andar via Bolsonaro il più presto possibile".
In aiuto al leader brasiliano arriva Donald Trump pronto ad aiutare il collega. "Ho appena parlato con il presidente Jair Bolsonaro - ha twittato il capo della Casa Bianca - Le nostre prospettive commerciali sono entusiasmanti e il nostro legame è forte, forse più di sempre. Gli ho detto che se gli Usa possono aiutare il Brasile con gli incendi dell'Amazzonia, siamo pronti ad assisterli".
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