di Lorenzo Maria Alvaro
Vita, 27 agosto 2019
La prima mondiale del disco "Venezuela. Il popolo, il canto, il lavoro" prodotto dall'associazione "Trabajo y persona" si è tenuta nel carcere patavino grazie a Cooperativa Giotto. "Un'altra tappa molto importante del nostro rapporto di amicizia che da alcuni anni accompagna le nostre due realtà sociali. Ci aiuta a riflettere su quello che facciamo per affrontare difficoltà diverse con lo stesso obiettivo: attraverso il lavoro crescere insieme per ritrovare se stessi e recuperare la propria dignità"
Un concerto speciale in un luogo particolare, quello del carcere di Padova. Così si preannunciava alla vigilia l'evento organizzato grazie alla collaborazione tra la cooperativa sociale Giotto e l'associazione venezuelana Trabajo y persona. E le aspettative non sono andate deluse, anzi. Come spesso accade, la realtà supera l'immaginazione, ma occorre almeno una condizione: che al centro ci sia la persona, in questo caso un gruppo di persone, che di fronte a una situazione politica ma soprattutto socioeconomica che sta portando allo stremo l'intero popolo venezuelano, non si perdono d'animo, prendono in mano la loro vita e provano a rispondere alle difficoltà col lavoro e la bellezza.
Questo sta all'origine del disco e del concerto "Venezuela. Il popolo, il canto, il lavoro". "È molto difficile lavorare in Venezuela ma il lavoro è libertà: da noi manca tutto, dalle medicine ai generi di prima necessità, ma quando si trova, il lavoro diventa un'opportunità formidabile per risvegliarsi alla vita", afferma Alejandro Marius, presidente di Trabajo y Persona, da cui è nato il progetto. "Ma della nostra situazione preferiamo vedere le positività, perché la durissima realtà quotidiana ci sfida continuamente a riconoscere ed affermare il senso della vita".
Per questo è nato il disco, per questo è nato il concerto, per testimoniare come la bellezza scalda il cuore e apre la mente, proprio quello di cui c'è bisogno per rimettersi al lavoro. Il produttore Francisco Sànchez e il direttore artistico Aquiles Baez, il compositore e chitarrista più famoso del paese, mettendo insieme una trentina di musicisti di diversa provenienza culturale, sono riusciti a fare un piccolo capolavoro: rivitalizzare con arrangiamenti moderni tutta una serie canti legati al lavoro della tradizione popolare, come quello della mungitura, delle lavandaie o della raccolta del caffè e del cacao. Brani bellissimi, che con freschezza autentica e ritmo travolgente sanno esprimere in profondità l'anima irriducibile del popolo venezuelano, che da sempre ha costruito la propria dignità sul lavoro.
I detenuti, che occupavano in ogni ordine di posti l'auditorium del carcere se ne sono accorti subito e hanno risposto con tanta commozione e con grande entusiasmo. "Noi siamo rimasti colpiti da questo dono", commenta Nicola Boscoletto, presidente della Giotto, "perché, dopo la prima mondiale al Meeting di Rimini, non pensavamo che venissero fin qui in carcere. Sicuramente è stata un'altra tappa molto importante del nostro rapporto di amicizia che da alcuni anni accompagna le nostre due realtà sociali. Ci aiuta a riflettere su quello che facciamo per affrontare difficoltà diverse, ma che al fondo contengono lo stesso obiettivo: attraverso il lavoro crescere insieme non per scappare dalla condizione in cui ti trovi, ma ritrovare se stessi e recuperare la propria dignità. In questo senso colpisce che gente come questa, che più di altri avrebbe la possibilità di lasciare il Venezuela come hanno già fatto quattro milioni di persone, ha scelto di rimanere per costruire risposte concrete per il popolo". Gli fa eco Aquiles Baez: "Noi abbiamo voluto venire in carcere semplicemente perché la musica è libertà e il concerto è l'occasione per fare un po' di esperienza di essa".
Il direttore della Casa di Reclusione di Padova Claudio Mazzeo, che all'inizio del concerto ha letto un bello e profondo messaggio del Vice Capo dell'Amministrazione penitenziaria Lina Di Domenico a testimonianza della portata dell'iniziativa, commenta soddisfatto: "Portare un pezzetto del Meeting di Rimini in carcere è molto significativo, perché il Meeting è per l'amicizia fra i popoli e noi qui dentro abbiamo un popolo con i suoi bisogni a cui dobbiamo rispondere. Una bella iniziativa di integrazione che collega la musica al lavoro".
Il progetto della produzione del disco e del libro che lo accompagna ha uno scopo benefico: raccogliere liberamente dei fondi anche attraverso l'acquisto del disco-libro, come farà la cooperativa Giotto per i regali di Natale ai dipendenti. La raccolta fondi proseguirà fino a Pasqua, grazie alle azioni di fund-raising dell'Organizzazione di volontariato Amici della Giotto, tese a sostenere, oltre agli amici venezuelani, anche ragazzi, tra i 12 e i 17 anni, di un carcere minorile in Uganda. Al concerto, hanno assistito anche due magistrati di sorveglianza, Lara Fortuna e Linda Arata. Quest'ultima, intervenuta per ritirare un omaggio augurale per il nuovo incarico di presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, ha sottolineato l'importanza dell'evento, in particolare per la vicinanza con i tanti italo venezuelani implicati in questa difficile situazione di crisi.
di Filippo De Gaspari
Il Gazzettino, 27 agosto 2019
L'azienda rigenera i suoi distributori automatici di bevande grazie ai carcerati. All'aspetto ambientale si aggiunge così quello sociale. Succede alla Scattolin distribuzione di Noale, che da tempo ha fatto della sostenibilità ambientale un impegno e un marchio di fabbrica.
Adesso, per allungare la durata dei suoi distributori automatici, lancia la rigenerazione, un modo per protrarre il funzionamento dei distributori, rinviandone nel tempo la loro trasformazione in rifiuto. Un'attività che andava affidata a professionisti esperti, capaci di rimettere in sesto i macchinari sia nelle parti elettriche che in quelle meccaniche.
La Scattolin ha deciso di avvalersi di una cooperativa, la Bee4, che ha come mission quella di offrire una nuova occasione di vita a persone che hanno incontrato il carcere lungo il cammino della loro storia personale. La collaborazione prevede l'affidamento dei distributori automatici bisognosi di revisione alla Bee4, impresa sociale che ha sede a Milano e si occupa, oltre che di rigenerazione, anche di servizi aziendali e assemblaggio di componentistica.
"Nel percorso che stiamo portando avanti come azienda sostenibile e con una forte impronta etica spiegano i titolari Giorgia e Massimo Scattolin abbiamo incrociato questa bella realtà che ha per obiettivo quello di offrire una nuova occasione di vita a persone che si trovano in carcere. In questo modo contiamo sulla professionalità di un gruppo di esperti qualificati anche nel nostro settore e sulla voglia di impegno e riscatto di chi vuole ricostruirsi un'esistenza imparando un mestiere". In questi giorni i primi distributori automatici rimessi in sesto sono tornati da Milano nella sede dell'azienda di via Torricelli, a Noale, pronti per essere nuovamente operativi nei numerosi punti dove Scattolin è presente con i suoi apparecchi e servizi.
di Marco Mensurati
La Repubblica, 27 agosto 2019
L'Italia tarpa le ali alle vedette volanti. Da quasi un mese, Moonbird e Colibrì, i due aerei leggeri delle ong che sorvolano il Mediterraneo per avvistare i gommoni dei migranti, non possono decollare da Lampedusa né da altri scali del nostro Paese. "Le norme nazionali impongono che quei velivoli possano essere usati solo per attività ricreative e non professionali", sostiene infatti l'Enac, l'Ente nazionale per l'aviazione civile.
Qualche volo riescono ancora a farlo, ma con grande difficoltà, e partendo da aeroporti lontani, in altri Stati. Dopo la desertificazione del mare davanti alla Libia a colpi di decreti sicurezza, si rischia dunque la desertificazione del cielo. Chiunque abbia partecipato a missioni di Search and Rescue sulle navi delle ong (ieri la tedesca Lifeline ha soccorso un centinaio di migranti a 31 miglia dalla costa libica), sa quanto sia importante avere due occhi che scrutano dall'alto.
È il modo più efficace, talvolta l'unico, per individuare i gommoni e segnalarne tempestivamente la posizione ai soccorritori. Le coordinate sono trasmesse via radio dall'equipaggio di Moobird (un Cirrus Sr22 che vola per la no profit svizzera Humanitarian Pilote Initiative, in collaborazione con la ong tedesca Sea-Watch) e di Colibrì (un Mcr-4S a elica costato 130.000 giuro ai francesi di Pilotes Volontaires). Secondo un'inchiesta del Giornale, dal primo gennaio agli inizi di giugno Colibrì e Moonbird hanno accumulato 78 missioni, 54 delle quali partite da Lampedusa.
"Colibrì - dice l'Enac - non è un aeromobile certificato secondo standard di sicurezza noti ed è in possesso di un permesso di volo speciale che non gode di un riconoscimento per condurre operazioni su alto mare. È stato inoltre oggetto di modifiche significative di cui non abbiamo tracciabilità". Moonbird presenta caratteristiche simili. I rilievi vengono respinti dalla Sea-Watch, forte del parere di uno studio legale di esperti di aviazione che smonta l'approccio dell'Enac.
"Ci viene da pensare che dietro a queste complicazioni burocratiche - dice Giorgia Linardi, responsabile di Sea-Watch Italia - ci sia la volontà politica di fermare le attività di ricognizione". La desertificazione del cielo completa un processo in corso da mesi nel Mediterraneo centrale. Ancora ieri i volontari a bordo della Mare Jonio hanno potuto documentare come nelle sole ultime 24 ore, a fronte di almeno sei casi conclamati di gommoni in avaria grave, la cosiddetta guardia costiera libica (coordinata, come noto, dalla Marina italiana) non abbia emesso nemmeno un allarme Navtext, come invece sarebbe prassi.
Una scelta perfettamente coerente con quanto da tempo fanno i comandi militari e i centri di coordinamento europei che non rilanciano le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà, come sarebbe invece loro dovere fare, ma interloquiscono direttamente ed esclusivamente con le autorità libiche.
di Francesco Casula
Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2019
Intervista a Claudio Petrone, legale della Flai Cgil: "La giustizia funziona, bisogna avere più coraggio". "Per ridurre lo sfruttamento che, troppo spesso sfocia nella riduzione in schiavitù, è necessario che tutti i soggetti coinvolti raccontino alle forze dell'ordine quanto accade". Così l'avvocato Claudio Petrone legale della Flai Cgil a Taranto, sintetizza il quadro della lotta al caporalato in una parte della Puglia.
Avvocato Petrone, la presenza dello Stato nei campi è arrivata?
La vicenda che ha coinvolto la povera Paola Clemente è servita ad aumentare l'attenzione su una problematica presente e che il sindacato della Flai Cgil denunciava da tempo. Purtroppo, come spesso accade, è stata necessaria la tragedia per far sì che l'opinione pubblica sapesse. Lo sfruttamento dei lavoratori è punito con pene severe dal codice penale e bisogna avere la forza di denunciare.
Chi sono coloro che non denunciano?
Può sembrare paradossale, ma il più delle volte chi trova coraggio di non cedere al ricatto occupazionale, sono in maggioranza cittadini stranieri. E, mi creda, non lo fanno per un tornaconto personale. Il più delle volte, infatti, il risarcimento dei danni subiti è di difficile ottenimento e certamente non immediato: i racconti di chi è sfruttato nei campi trova sempre riscontro nell'attività investigativa delle forze dell'ordine. Pensi che in una recente vicenda alcuni cittadini rumeni sono dovuti rientrare in Italia più volte e a loro spese, per poter testimoniare nel processo, ma lo hanno fatto per amore della giustizia.
Ma trovano davvero giustizia nelle aule dei tribunali?
Certamente e anche velocemente. Sono ormai anni che vengono effettuati numerosi arresti nella provincia di Taranto, soprattutto grazie alle competenze specifiche dei carabinieri del Nil e dei reparti territoriali. Alcuni processi sono in corso, ma in altre vicende gli imputati hanno subito scelto di patteggiare o sono stati condannati.
Eppure il fenomeno continua a essere imponente: cosa serve ancora?
Le ripeto: serve più forza per denunciare. I lavoratori, italiani e non, devono sapere di non essere soli, possono contare non solo sulle forze dell'ordine, ma anche sulle associazioni sindacali. La Flai Cgil fornisce consulenza legale, ma è presente con le sedi territoriali nei piccoli comuni e soprattutto nella campagne, proprio accanto ai lavoratori.
di Leone Grotti
Tempi, 27 agosto 2019
Il 18 agosto, il regime ha arrestato 80 cristiani. I 70 fedeli detenuti il 23 giugno sono stati portati in una prigione sotterranea. Cinque preti ortodossi sono stati imprigionati e a sei dipendenti del governo è stato imposto di "rinunciare a Cristo". Non si ferma la nuova ondata di persecuzione contro i cristiani in Eritrea. Dopo la chiusura di 21 ospedali cattolici, almeno 150 cristiani sono stati arrestati in soli due mesi in diverse città. Ad altri è stato chiesto davanti a un giudice di rinunciare alla fede cristiana. Il 18 agosto, come riportato da World Watch Monitor, 80 cristiani sono stati arrestati a Godayef, un'area vicina all'aeroporto della capitale Asmara. Sono stati portati alla vicina stazione di polizia e da allora sono scomparsi. Il 23 giugno altri 70 cristiani appartenenti alla Faith Mission Church of Christ erano stati arrestati a Keren, la seconda città più grande dell'Eritrea.
Tutti e 70, tra i quali 35 donne e 10 bambini, sono stati trasferiti nella prigione di Ashufera. Questa non è altro che un insieme di tunnel sotterranei, la cui entrata si trova a 30 minuti di distanza a piedi dalla città. Come riportato da una fonte locale a World Watch Monitor, "le condizioni di vita all'interno sono dure. I detenuti sono costretti a scavare nuovi tunnel ogni volta che i funzionari del regime portano dentro nuovi prigionieri". La chiesa della Faith Mission Church of Christ era l'ultima rimasta aperta nella città di Keren. La congregazione, che esiste in Eritrea da 60 anni, aveva chiesto nel 2002 di essere registrata ufficialmente ma non ha mai ricevuto risposta. Dopo l'arresto dei cristiani, anche la scuola gestita dalla comunità è stata chiusa.
Il 16 agosto, sei cristiani dipendenti del governo sono stati arrestati e portati davanti a un tribunale ad Asmara. Qui il giudice ha preteso che gli impiegati rinunciassero alla loro fede, ma questi hanno risposto che "non siamo disposti a negoziare la nostra fede in Gesù". Tutti e sei sono stati rilasciati per il momento in attesa del verdetto. L'8 luglio anche l'ultimo ospedale gestito dalla Chiesa cattolica è stato confiscato dal regime. La chiusura forzata delle strutture, che offrono assistenza gratuita a 170 mila persone all'anno, era cominciata a giugno. La Chiesa ha protestato spiegando che "privarci di queste istituzioni mina la nostra stessa esistenza ed espone i nostri dipendenti, religiosi e laici, alla persecuzione". Lo Stato ha requisito le cliniche alla Chiesa per vendicarsi delle critiche rivolte dai vescovi al governo del dittatore Isaias Afewerki, che continua a rimandare le riforme democratiche promesse, nonostante il conflitto militare con l'Etiopia sia ormai concluso. Il regime vorrebbe essere il solo fornitore di cure mediche, ma la gente preferisce affidarsi alla Chiesa, che ha strutture migliori e professionisti più dedicati.
La persecuzione non riguarda solo cattolici e protestanti: il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi che risiedevano nell'antico monastero di Debrè Bizen. I religiosi sarebbero colpevoli di aver sostenuto il patriarca della Chiesa ortodossa, Abune Antonios, agli arresti domiciliari dal 2007, da quando cioè si è opposto all'interferenza del regime nella vita della Chiesa ortodossa. La Costituzione eritrea del 1997 garantisce il rispetto di tutti i diritti umani, ma non è mai stata realizzata. Dopo anni di promesse, finalmente nel 2002 lo Stato ha ammesso quattro confessioni religiose: Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica, Chiesa evangelica luterana e islam sunnita. I loro fedeli hanno una limitatissima libertà di culto, tutti gli altri neppure quella. Ancora oggi, nelle oltre 300 carceri, ufficiali e non, sparse per il paese languono più di 10 mila prigionieri politici e di coscienza in condizioni spaventose. I cristiani incarcerati per la loro fede sono "migliaia", il dato più credibile si aggira intorno alle tremila unità e si può essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia.
Iraq. Pena di morte per 8mila detenuti. Cosa sarà dei cittadini Ue accusati di combattere con l'Isis
di Riccardo Noury*
Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2019
La scorsa settimana l'Alta commissione irachena per i diritti umani ha reso noti i risultati di una sua ricerca sull'uso della pena di morte dall'inizio dell'anno. Anche se il governo non ha mai reso pubbliche informazioni sull'argomento, la fonte della ricerca è ufficiale: il ministero della Giustizia di Baghdad. Da gennaio sono stati messi a morte oltre 100 prigionieri e altri 8022 attendono l'esecuzione nei bracci della morte. Al ritmo attuale, comunque terrificante, e in assenza di nuove condanne a morte (un evento inimmaginabile) ci vorrebbero 40 anni per svuotarli tutti. Un'accelerazione c'è comunque già stata rispetto allo scorso anno, quando in tutto le esecuzioni erano state 52. La maggior parte delle esecuzioni si è basata sulle leggi speciali antiterrorismo e ha avuto luogo al termine di processi sommari, fondati su confessioni estorte con la tortura o su presunte dichiarazioni di persone mai comparse in tribunale.
Le persone messe a morte erano prevalentemente combattenti dello Stato islamico, o sospetti tali, catturati nella battaglia di Mosul o consegnati alle autorità irachene dalle Forze democratiche siriane, a guida curda, restie al trasferimento ma, come si capirà meglio più avanti, senza altra scelta. Sempre secondo l'Alta commissione per i diritti umani, complessivamente nelle 36 prigioni irachene si trovano, condannati o in attesa di giudizio, 37.113 prigionieri: la metà - 18.306 - sono detenuti per reati di terrorismo e, come ricordato, più di 8mila sono in attesa di esecuzione.
Come ho già scritto in un post alcune settimane fa, molti detenuti sono cittadini stranieri arruolatisi nello Stato islamico: presumibilmente 4mila, più di un decimo dei quali di nazionalità francese. Il Kosovo, primo paese europeo in termini relativi, ossia in proporzione alla popolazione, per numero di foreign fighters è tra i pochi ad aver organizzato il rientro di parte dei suoi cittadini: 110, soprattutto donne e bambini. L'hanno fatto anche alcune ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, ma presumibilmente per sbarazzarsene a modo loro coi metodi tipici di quelle dittature.
Resta aperta la questione di cosa fare dei cittadini dell'Unione europea. La posizione irachena non è chiara: c'è chi negozia con gli Stati europei perché se li riprendano e chi, magari in cambio di aiuti economici, propende per svolgere i processi in Iraq difendendo la scelta della pena di morte. Nei giorni scorsi l'esperta delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, Agnès Callamard, ha sollecitato Parigi a rimpatriare sette jihadisti francesi condannati a morte senza aver avuto la minima assistenza consolare. Nella sua nota Callamard ha messo in luce l'incongruenza di fondo di questa vicenda: la Francia è contraria alla pena di morte (e, col resto dei paesi dell'Unione europea, porta avanti una politica globale abolizionista), ma non al fatto che suoi cittadini siano processati in un paese che applica la pena di morte su scala industriale.
Si è persa nel silenzio generale la proposta delle Forze democratiche siriane di processare i terroristi dello Stato islamico istituendo nei loro territori, nel nord-est della Siria, un tribunale internazionale. Non gli ha risposto nessuno: l'amministrazione curda non è riconosciuta a livello internazionale. Eppure sarebbe l'unica soluzione in grado di assicurare due obiettivi: la non impunità per gli imputati riconosciuti colpevoli di gravissime violazioni dei diritti umani e, allo stesso tempo, il rispetto dei loro diritti di fronte alla giustizia penale. Troppo idealistica e velleitaria, vero? Più semplice affidare tutto al boia iracheno.
*Portavoce di Amnesty International Italia
di Michele Giorgio
Il Manifesto, 27 agosto 2019
Forti reazioni arabe dopo l'ondata di attacchi aerei che Israele ha messo a segno nel giro di poche ore in Siria, Libano, Iraq e Gaza. Netanyahu lancia nuovi avvertimenti a Tehran e guarda con sospetto a un possibile dialogo tra Trump e Rohani. La prova di forza e di capacità strategica offerta da Israele negli ultimi giorni potrebbe essere solo l'inizio di qualcosa di più grosso e pericoloso per il Medio oriente. Ieri, mentre nella regione si accendevano le proteste di leader di Stato e di governo e di organizzazioni militanti riconducibili all'Iran per i bombardamenti che l'aviazione israeliana ha compiuto in Siria, Iraq, Libano, e nella Striscia di Gaza, Benyamin Netanyahu ha convocato il leader dell'opposizione ed ex capo di stato maggiore, Benny Gantz, e attraverso i suoi consiglieri lo ha informato sulla situazione. Un segnale inequivocabile. I primi ministri di solito informano il capo dell'opposizione su questioni di sicurezza nazionale in caso di una guerra imminente o molto probabile.
Qualcuno ridimensiona il rischio di un conflitto diretto tra Israele e Iran. Spiega l'escalation in corso con Netanyahu che, a tre settimane dal voto, vuole apparire agli occhi degli elettori come "Mr. Sicurezza", colui "che le suona ad arabi, palestinesi e iraniani". Il quadro però è più complesso.
Nella notte tra sabato e domenica, dopo l'attacco israeliano contro una presunta base nei pressi di Damasco della Brigata al Quds della Guardia rivoluzionaria iraniana - Tehran smentisce e il movimento sciita libanese Hezbollah sostiene che si trattava di una sua struttura - Netanyahu è uscito allo scoperto. In pubblico, come di rado fa Israele, ha rivendicato il raid sostenendo di averlo ordinato allo scopo di prevenire un "attacco imminente" dell'Iran con droni contro il nord della Galilea che, a detta del primo ministro, avrebbe avuto gravi conseguenze.
Quindi ha lanciato un nuovo avvertimento. "L'Iran non ha alcuna immunità. Le nostre forze operano in ogni settore" ha detto per sottolineare le capacità strategiche e di intelligence delle forze armate ai suoi ordini. A inizio settimana della scorsa settimana a mezza bocca Netanyahu aveva indicato un possibile coinvolgimento di Israele nei recenti attacchi avvenuti in Iraq contro organizzazioni legate a Tehran. Coinvolgimento poi confermato da un funzionario governativo statunitense al New York Times. E mentre rivendicava l'attacco in Siria, prontamente giustificato come "autodifesa" dagli Stati uniti, il premier israeliano ha innescato una escalation di attacchi in mezzo Medio oriente.
In Libano due droni israeliani sono caduti in circostanze poco chiare a sud di Beirut, la roccaforte di Hezbollah. Poi nelle ore successive aerei, forse ancora droni, hanno preso di mira, nella Valle della Bekaa, una caserma del Fronte popolare-comando generale (partito palestinese vicino alla Siria). Quindi è giunto l'attacco in Iraq - è stato ucciso un importante comandante militare -, nella provincia di al Anbar, a qualche chilometro dal valico di Qaim con la Siria, contro un convoglio della Brigata 45 delle Hashd al Shaabi, le Forze sciite di mobilitazione popolare prese di mira da Israele quattro volte nell'ultimo mese. Infine è stata colpita Gaza, in risposta al lancio di tre razzi di cui Hamas nega la responsabilità sua o di altre organizzazioni palestinesi. Israele ha annunciato che farà entrare a Gaza solo metà della quantità necessaria di carburante.
Attacchi a ripetizione che stanno incendiando la regione. Domenica il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha avvertito che "È finito il tempo in cui Israele bombardava il Libano rimanendo poi al sicuro" e ha annunciato che la sua organizzazione abbatterà i droni israeliani che entreranno nello spazio aereo libanese. I suoi commenti hanno ricevuto l'appoggio prima del capo di governo, il sunnita Saad Hariri, e poi del presidente, il cristiano Michel Aoun, che ha definito l'attacco israeliano una "dichiarazione di guerra". Uguali le parole delle Hashd al Shaabi che hanno annunciato: "ci riserviamo il diritto di rispondere" a Israele.
L'Iraq rischia di trasformarsi in un campo di battaglia a causa di questi attacchi. Le conseguenze potrebbero travolgere il premier Abdul Mahdi impegnato a consolidare il suo fragile potere e a colpire le fazioni delle Hashd al Shaabi che operano ancora al di fuori dell'autorità del suo governo. I raid israeliani umiliano l'Iraq, ne evidenziano la debole sovranità e rafforzano i critici di Abdul Mahdi che mantiene ottimi rapporti con gli Stati uniti alleati di Israele. In queste ore si levano più forti nuove e vecchie voci che chiedono l'uscita dei militari Usa dal paese.
Sullo sfondo di questa ondata di attacchi israeliani, c'è il G7. Non pare un caso che i raid siano scattati proprio mentre il presidente francese Macron accoglieva Donald Trump e i leader degli altri paesi membri e a Biarritz arrivava "a sorpresa" il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. In casa israeliana si guarda con sospetto all'iniziativa di Macron per un allentamento della tensione tra Usa e Iran. Donald Trump senza alcun dubbio è un alleato strettissimo di Netanyahu e lo ha dimostrato più di una volta. Però è anche imprevedibile e potrebbe cercare il dialogo con Tehran che oggi appare impossibile. Intanto Trump ha fatto al premier israeliano un regalo elettorale. A Biarritz ha annunciato che con ogni probabilità gli Usa presenteranno il loro piano (Accordo del Secolo) prima del voto in Israele il 17 settembre.
di Alberto Negri
Il Manifesto, 27 agosto 2019
G7. A Biarritz si chiude il teatrino dei Grandi della Terra. E mentre Trump finge di discutere con Teheran, il suo principale alleato in Medio Oriente parla con le armi. Gli ingredienti per la rappresentazione di Macron c'erano tutti: Biarritz ha fornito la scenografia vacanziera e il palco del napoleonico Hotel du Palais per la messa in scena dei Grandi della Terra. Soprattutto si doveva soddisfare il primo attore, Donald Trump, un "pericoloso e petulante narcisista" come lo definisce sul Financial Times il suo ex consigliere Anthony Scaramucci: una star bizzosa, da trattare con i guanti.
In primo piano nel canovaccio francese il disastro mondiale dell'Amazzonia, le disuguaglianze economiche e sociali, l'Iran, la Cina, le guerre commerciali. Ma niente di questi temi così seri doveva prendere un tono drammatico, come era avvenuto al summit dell'anno scorso in Canada, ma virare verso la pochade ottocentesca, un intreccio caratterizzato da equivoci e doppi sensi da interpretare. E così è stato: il regista Macron ha puntualmente sorpreso il pubblico con i colpi di scena di al Sisi e Zarif senza mai scivolare in una tediosa, e pericolosa, serietà.
Questa del G-7 doveva restare una commedia brillante, un puro divertimento senza neppure l'ombra inquietante di una vera notizia. Un'elegante fake news per distrarre il pubblico internazionale dalla prossima e temuta recessione economica.
Ci sono le chiacchiere e poi c'è la realtà, al G-7 come in qualunque consesso umano. Il vertice di Biarritz non è stato esattamente come lo descrivono le cronache. Con il colpo di teatro dell'arrivo del ministro degli Esteri iraniano Macron ha annunciato alle tv che era stata raggiunta un'intesa per inviare un messaggio comune a Teheran. Trump poco dopo lo ha smentito, anche se ha aggiunto di non avere niente da obiettare agli sforzi francesi di mediazione. "Siamo aperti al negoziato - è la posizione ufficiale Usa - ma non ci sono le condizioni per avviarlo". Stop.
In realtà Trump ha lasciato fare a Macron le sue evoluzioni mentre Israele bombardava in quattro Paesi del Medio Oriente facendo la sua guerra all'Iran. Gli israeliani hanno colpito in Iraq le milizie sciite affiliate a Teheran, poi ha cercato di bersagliare gli Hezbollah filo-iraniani a Beirut, preso di mira i Pasdaran degli ayatollah in Siria e bombardato Gaza. In poche parole mentre a Biarritz si faceva finta di discutere, il maggior alleato Usa nella regione faceva parlare le armi. Nei campi di battaglia se ne fregano del G-7.
Per il presidente americano questi vertici internazionali sono di una noia assoluta, l'unica cosa che poteva interessarlo era riammettere Putin espulso nel 2014 per l'annessione della Crimea ma gli europei si oppongono e la questione è stata per il momento archiviata.
La stessa cosa vale per i dazi, una guerra commerciale che sta trascinando al ribasso l'intera economia mondiale. Trump non solo vuole imporli ai cinesi ma anche agli europei: è consapevole che questo può portare a una vasta crisi economica mondiale ma è disposto a pagarne il prezzo, almeno fino al punto che questo non incida sulla sua rielezione, visto che ormai è entrato in piena campagna elettorale.
Anche la Brexit nella pochade di Biarritz è apparsa meno drammatica ma persino il prossimo amicone di Trump, il premier Boris Johnson, ha ribadito che il libero commercio è un pilastro della politica britannica da 200 anni. Per ora il patto transatlantico non si vede e Trump, per non perdere troppo tempo, ha vestito per un momento anche i panni del piazzista vendendo il suo grano ai giapponesi. Tokyo ha specificato che acquisterà solo le quote di grano Usa che non saranno vendute in Cina.
Quanto all'Italia questo G-7 era soltanto una passerella per il premier dimissionario Giuseppe Conte che, contrariamente alla Lega di Salvini, sostenendo la candidatura della tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea, si è guadagnato l'appoggio dell'establishment dell'Unione, secondo il copione dettato dal presidente Mattarella. Conte è apparso così sicuro da dichiarare che "dopo un anno di governo è in grado di indicare le soluzioni per risolvere i problemi del Paese". Neppure Andreotti aveva mai detto una cosa simile dopo mezzo secolo ai vertici della repubblica.
di Paolo Fallai
Corriere della Sera, 27 agosto 2019
L'assassinio nelle campagne di Villa Literno del giovane fuggito dal Sudafrica segna ogni riflessione sul tema dell'immigrazione. Persi in un eterno presente, ci siamo resi conto in questi giorni che sono passati trent'anni dall'omicidio di Jerry Essan Masslo, fuggito dal Sud Africa dell'apartheid e trucidato da una banda di assassini il 24 agosto 1989, nelle campagne di Villa Literno, in provincia di Caserta. Fu quell'omicidio a far scoprire il razzismo all'Italia. Masslo non aveva 30 anni ed era arrivato in Italia solo un anno prima. Appena sceso dall'aereo a Fiumicino chiese asilo politico, ma l'Italia non aveva uno strumento legislativo per concederglielo, nonostante il fatto che nelle manifestazioni anti apartheid avesse perso il padre e una figlia di 7 anni. Nonostante il fatto che la moglie e un'altra figlia fossero fuggite in Canada, dove lui tenterà inutilmente di raggiungerle.
La legge Martelli venne approvata in pochi mesi sull'onda emotiva di quell'omicidio, dopo una imponente manifestazione anti razzista a Roma, e servirà proprio a ridefinire e ampliare le norme per il riconoscimento dello status di rifugiato. In quel 1988 a Masslo era stato consentito di rimanere in Italia ma senza alcuna protezione, se non l'assistenza fornita dalla Comunità di Sant'Egidio. Finì a raccogliere pomodori nelle campagne di Villa Literno per mille lire (50 centesimi) ogni cassetta da 25 chili. È morto perché una banda di balordi voleva rubare i soldi a questi "schiavi", nella baracca dove dormivano in trenta.
Sono passati tre decenni da quella morte che segna ogni riflessione seria sul tema immigrazione. Lo storico del Cnr Michele Colucci apre con la vicenda di Masslo la sua "Storia dell'immigrazione straniera in Italia" (Carocci). Ci sono voluti anni di denunce e inchieste, come quelle preziose che ci ha lasciato Alessandro Leogrande, perché l'Italia si dotasse, solo nel 2016, di una legge contro la mafia del caporalato. Il razzismo è entrato nel nostro eterno presente. Anche per questo Jerry Essan Masslo non merita di essere dimenticato.
di Gianfranco Lattai*
Corriere della Sera, 27 agosto 2019
Secondo Laozi: "Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce". Coloro che si occupano di cooperazione internazionale constatano ogni giorno il senso di questa massima. Più facilmente si comunicano gli interventi per le emergenze umanitarie e le calamità naturali piuttosto che il costante impegno nello sviluppare posti di lavoro per i giovani, nel garantire una sanità di base, nell'assicurare l'alfabetizzazione e la scolarizzazione a bambine e bambini delle famiglie più vulnerabili, nel promuovere progetti di autosufficienza alimentare, di sviluppo umano, di crescita economica e sociale dei territori.
L'attuale fase storica rimuove ciò, sostenendo che le ong siano sono solo quelle nel Mediterraneo. Un'accezione distorta e limitativa. Se poi fosse provata la collusione con gli scafisti sarebbe ancor più grave e dovremmo auspicare l'intervento della magistratura. Tuttavia le procure di Catania e Trapani, che hanno sollevato sospetti sulle legittimità delle azioni di queste navi, non hanno emesso finora alcun provvedimento giudiziario. L'opinione pubblica è disorientata.
Non comprende come nella sola Libia ci siano 800mila uomini, donne, bambini nei campi di detenzione ove neppure l'Onu accede. Un vero inferno e un vero affare per i trafficanti di uomini. Per capire questo infernale business basterebbe analizzare il sofisticato mercato illegale degli organi. Coloro che lasciano i loro Paesi e le loro famiglie lo sanno prima di partire.
Eppure decidono di cercare un futuro possibile. Sono consapevoli dei rischi mortali e che spenderanno almeno dieci volte di più dell'acquisto di un biglietto aereo per l'Europa, ma per loro sono chiusi gli aeroporti. Gli scafisti sono solo l'epilogo di storie partite mesi o anni prima. I trafficanti lucrano sulle persone comunque, a prescindere dalla sopravvivenza di queste ultime.
È inumano fare la politica dei rimpatri in Libia sapendo che in questo Paese non possiamo assicurare, neanche come ong d'intesa con le Agenzie Onu, quei servizi che molti dei nostri organismi offrono nei campi sfollati e rifugiati in tante parti del mondo. È inumano che l'Europa non trovi una soluzione per l'accoglienza. Tuttavia siamo grati del fatto che, nel discorso di insediamento come nuovo Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli abbia accennato alla revisione del Trattato di Dublino. Bene che ci siano navi di Ong o della Marina Militare Italiana che salvino la dignità di un Paese, l'Italia, e di una comunità, non condannando a morte tante persone nel Mediterraneo.
Forse a noi delle Ong italiane è mancato il coraggio di mettere in mare una nostra nave. Tuttavia non è mai troppo tardi. Il problema non sono le Ong che per definizione operano in carenza di diritti, ma quei diritti negati che rischiano di diventare pietre angolari di una cultura priva di qualsiasi dignità. Cultura che contraddice l'articolo 2 della Legge 125.14, la quale riconosce la centralità della persona umana, nella sua dimensione individuale e comunitaria. Legge democraticamente ratificata dai rappresentanti del popolo italiano.
*Presidente Focsiv