di Angela Lamboglia
www.euractiv.it, 10 marzo 2015
Nelle prossime raccomandazioni specifiche per Paese la Commissione europea richiamerà con forza l'Italia sul tema della lentezza dei procedimenti giudiziari. Lo ha anticipato la commissaria per la Giustizia Vera Jourova, commentando il rapporto 2015 sui sistemi giudiziari europei secondo cui in Italia sono necessari in media 608 giorni per chiudere una causa civile o commerciale.
di Simone Di Meo
Il Tempo, 10 marzo 2015
Dimenticate il detto giustizia lenta, ma inesorabile. Per ora è solo lenta. A certificarlo è lo "scoreboard" della Commissione europea, presentato ieri, che affibbia un bel terz'ultimo posto all'Italia per la lunghezza dei processi di prima istanza civili e commerciali per l'anno 2013. Un peggioramento costante nel tempo (erano 493 giorni nel 2010 e 590 nel 2012) che ci piazza appena sopra Cipro e Malta.
di Francesco Petrelli (Segretario Unione Camere Penali)
Il Garantista, 10 marzo 2015
Sulla questione della riforma della prescrizione l'Ucpi non ha mai avuto posizioni di contrasto di natura "ideologica". Si è piuttosto rappresentato come se ne volesse fare - così come è avvenuto anche in occasione di altre riforme del sistema penale - un uso simbolico, o di bandiera, che rispondesse più alla necessità di dare risposte ad una presunta aspettativa sociale maturata a seguito di alcuni casi giudiziari (che in verità con l'istituto della prescrizione in sé non avevano nulla a che a fare: vedi caso Eternit), piuttosto che ad una effettiva esigenza di razionalizzazione del sistema.
di Massimo Adinolfi
Il Mattino, 10 marzo 2015
La nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici, attesa da molti anni e finalmente approvata dal Parlamento, ha ispirato alcune delle parole che il presidente della Repubblica ha rivolto ai magistrati in tirocinio, ricevuti ieri al Quirinale alla presenza del ministro della giustizia Orlando, che quella riforma ha fortemente voluto. Parole pacate e piene di misura, prive di toni polemici, estranee ad allarmi e preoccupazioni ingiustificate, che pure si sono ascoltate da parte della magistratura organizzata ma che il Capo dello Stato non ha ritenuto
evidentemente di accogliere. Ai magistrati è affidato un compito difficile, ha detto infatti Mattarella: si tratta di assicurare "l'osservanza della legalità democratica", ma anche "il rispetto dei diritti e delle libertà individuali". Di questo rispetto fa parte la possibilità, per il cittadino che avesse patito un danno ingiusto, di rivolgersi allo Stato per essere risarcito.
di Marzio Breda
Il Corriere della Sera, 10 marzo 2015
La contrastata legge sulla responsabilità civile dei giudici Sergio Mattarella l'ha promulgata da giorni, e senza quelle riserve (a volte addirittura esplicitate per iscritto) che in altri casi della storia repubblicana abbiamo visto. Tuttavia, a pochi giorni dalla sua firma, sente il bisogno di avvertire che "andranno attentamente valutati gli effetti concreti" della sua applicazione. Di più: rivolgendosi ai 364 magistrati in tirocinio nominati un anno fa e ricevuti ieri al Quirinale, aggiunge: "Seguire il modello di magistrato ispirato all'attuazione dei valori etici ordinamentali vi aiuterà ad affrontare con serenità i compiti che vi aspettano e a non lasciarvi condizionare dal timore di subire le conseguenze di eventuali azioni di responsabilità".
Che cosa vorrà dire?, si è chiesto qualcuno. Magari che il presidente della Repubblica nutre dubbi o riserve sul provvedimento, considerato "punitivo" dai magistrati? E che l'ha avallato controvoglia? Non è così. Il capo dello Stato si limita a richiamare un annuncio del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, maturato su una prassi ormai normale nel modo di legiferare contemporaneo.
Quella di misurare le ricadute delle normative, anche quando maturano su un piano di principi sacrosanti, con un metodo che si potrebbe definire di sperimentalismo sociale. A tale proposito, nell'ordinamento anglosassone si parla di sunset law (legge con un tramonto, dunque potenzialmente a termine), per indicare una sorta di clausola di provvisorietà. Il che potrebbe significare, se si resta al controverso tema della responsabilità civile, mettere a raffronto il numero di cause che verranno presentate (ora siamo intorno al centinaio) con la loro ammissibilità, fondatezza o pretestuosità.
Insomma: nessuna obliqua bordata al governo, nessun retro pensiero malizioso. Solo un cenno al dovere di vigilanza del legislatore, inserito in una riflessione più vasta a uso delle nuove toghe (con il sigillo della sua garanzia). A loro, Mattarella raccomanda di coltivare alcune virtù. Quasi dei valori morali da connettere alla professione.
Cioè "coraggio, umiltà, giusto rispetto per la dignità della persona" e, insieme, "serenità e tranquillità di giudizio", anche ora che la legge Vassalli sulla responsabilità dei giudici è stata appunto modificata. Serenità, incalza, perché la possibilità di rivalsa si riferisce soltanto "a condotte soggettivamente qualificate in termini di dolo o negligenza inescusabile".
Ecco gli antidoti indicati dal presidente per chi ha quel difficile compito. Dopo aver ricordato che la società chiede giustizia, e "in tempi rapidi", insiste sull'urgenza della "lotta alla corruzione", e qui echeggia la questione morale riproposta dagli ininterrotti smascheramenti di alleanze politico-criminali in tutt'Italia. Problema cruciale, spiega, perché "il contributo alla continua costruzione dell'edificio della democrazia passa anche da qui". Così, per lui "non sarà mai abbastanza sottolineata l'alterazione grave che deriva alla vita pubblica e al sistema delle imprese, al soddisfacimento dei bisogni della comunità, dal dirottamento fraudolento di risorse verso il mondo parallelo della corruzione".
Una battaglia dura. Che richiede - e qui riprende il suo elenco - "imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio" e, ripete, "rispetto della dignità della persona, elemento essenziale della cittadinanza". Sembra un timore mirato alla tutela dei diritti umani di tutti, imputati o semplici sospettati, con l'invito a una maggior attenzione al ricorso alle manette. Eccessi visti più volte negli ultimi vent'anni, quando bastava un avviso di garanzia per distruggere una reputazione e quando alcuni magistrati scoprivano il gusto di stare sulla scena pubblica. Stavolta non ne parla, il capo dello Stato. Non sente il bisogno di ribadire l'avvertimento alle toghe malate di "burocrazia e protagonismo" di una settimana fa. Del resto, quella stessa espressione è appena stata usata dal suo vice al Csm, Giovanni Legnini: "Guardatevi dalle lusinghe dell'effimero protagonismo".
Il Garantista, 10 marzo 2015
Sì, certo, "andranno attentamente valutati gli effetti concreti dell'applicazione della nuova legge". Ma sulla responsabilità civile dei magistrati Sergio Mattarella pronuncia parole tranquillizzanti. E smonta così i propositi di rivolta dell'Anm, il "sindacato" delle toghe.
Che proprio in un suo severo richiamo sperava per mettere sui binari giusti il "tagliando" della nuova disciplina. Con le recenti modifiche, ricorda il presidente, resta "il principio della responsabilità diretta".
Era l'ultima speranza dei magistrati: il Quirinale. Era il baluardo a cui l'Anm aveva deciso di appellarsi per l'attacco sferrato all'autonomia e indipendenza dei magistrati con la responsabilità civile. Ma Sergio Mattarella dà una risposta che più chiara non potrebbe essere. Prima promulga la contestatissima (dai giudici) riforma della legge Vassalli.
Poi ricorda loro di non avere nulla da temere. Giacché, se seguiranno "il modello di magistrato ispirato all'attuazione dei valori etici ordinamentali", le toghe potranno "affrontare con serenità" i loro "compiti". E, soprattutto riusciranno a non lasciarsi "condizionare dal timore di subire le conseguenze di eventuali azioni di responsabilità, nella consapevolezza di essere soggetti", nell'applicazione delle loro funzioni, "unicamente alla legge".
Il Capo dello Stato dunque ridimensiona la riforma della responsabilità civile dei magistrati. Riconosce, sì, che "andranno attentamente valutati gli effetti concreti" della sua applicazione. Ma intanto ricorda che una simile "clausola di salvaguardia" è stata promessa dallo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando. E poi fa notare, più nel dettaglio, come la nuova disciplina abbia comunque dei limiti precisi, rispetto alla sindacabilità degli atti compiuti dalle toghe.
Si tratta di un'assai deludente risposta, per l'Associazione nazionale magistrati. La quale probabilmente sperava in parole più gravi, in un messaggio più severo da parte di Mattarella nei confronti della riforma. Se il Colle si fosse schierato in modo molto critico sul testo appena varato in Parlamento, si sarebbero create le premesse per il pur difficile ricorso alla Corte costituzionale. E comunque un giudizio negativo di Mattarella avrebbe almeno accelerato i tempi del "tagliando" previsto dallo stesso guardasigilli.
Invece il presidente fa ragionamenti pacati, quasi sdrammatizza. Lo fa per giunta con il tono un po' paterno che si conviene all'occasione, il "battesimo" al Quirinale dei 346 magistrati in tirocinio di ultima nomina (in servizio dal 20 febbraio 2014).
Ed è pure significativo che il discorso sia pronunciato al cospetto dell'intero Csm e dello stesso ministro della Giustizia. Mattarella ricorda come con la recente riforma si sia mantenuto "il principio della responsabilità indiretta del magistrato". E che sì, "la disciplina della rivalsa statuale" è diventata "più stringente", ma è pur sempre riferita ai casi estremi di "dolo o negligenza inescusabile".
Il Capo dello Stato rassicura poi sul fatto che, anche nella sua veste di presidente del Csm, sarà sempre "attento custode dell'autonomia e dell'indipendenza" della funzione giudiziaria, "valori costituzionali decisivi per la democrazia". Ricorda peraltro che i giovani magistrati convenuti al Quirinale dovranno "contribuire all'efficienza del sistema giustizia".
Impresa difficile, considerate le ultime statistiche della Commissione europea. Che nel "Justice scoreboard" classifica il Belpaese agli ultimi posti quanto a velocità delle cause civili e commerciali. Ora è esattamente alla pari con Cipro: peggio sta solo Malta. Si è passati dai 493 giorni necessari nel 2010 per arrivare a una sentenza di primo grado ai 608 del 2013 (in Germania sono 192, in Francia 308). Vero che nel frattempo c'è stato il decreto sulla negoziazione assistita e il rafforzamento dell'arbitrato. Ma certo non si può dire che la macchina pilotata dai giudici sia destinata a vincere il gran premio.
di Wanda Marra
Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2015
L'attacco frontale a Renzi di Sergio Mattarella arriva meno di un mese e mezzo dopo la sua elezione. La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati? "Andranno valutati i suoi effetti". E la corruzione, sulla quale il nuovo provvedimento è ancora in fieri? "Va combattuta per costruire la democrazia".
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sceglie la visita ai 346 magistrati in tirocinio per fare quello che è il primo "affondo" vero e proprio dalla sua elezione. I toni sono sobri ma il giudizio è netto, su un tema tanto caldo, quanto delicato: la giustizia. Prima di tutto, Mattarella si esprime chiaramente sulla responsabilità civile dei magistrati. "Non fatevi intimidire", dice ai giovani presenti. Le toghe (che avevano già richiesto un suo intervento mentre la legge veniva approvata) sono preoccupate dagli effetti che potrà avere la nuova normativa.
All'esortazione ("Seguire il modello di magistrato ispirato all'attuazione dei valori etici ordinamentali vi aiuterà ad affrontare con serenità i compiti che vi aspettano e a non lasciarvi condizionare dal timore di subire le conseguenze di eventuali azioni di responsabilità"), Mattarella fa seguire alcune precisazioni. Che evidentemente riguardano chi la legge l'ha fatta e chi deve applicarla. Prima di tutto sottolinea "il principio della responsabilità indiretta del magistrato" e il fatto che a essere in esame sono "con - dotte soggettivamente qualificate in termini di dolo o negligenza inescusabile".
Niente esagerazioni, insomma. Di più, ribadisce: il Consiglio superiore della magistratura è "organo di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giudiziaria". E lui, "nella duplice veste di presidente della Repubblica e di presidente del Csm", sarà sempre "attento custode" di questi valori. Il Presidente la legge l'ha firmata, ma i paletti li pone. Certo a posteriori, ma senza mezzi termini. Tanto più che lui stesso ricorda che anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando (presente all'iniziativa di ieri), ha detto che gli effetti del provvedimento andranno valutati. Un asse in piena regola, quello tra il Quirinale e via Arenula. Mentre a Palazzo Chigi la posizione è più radicale. "Siamo pronti a correggere i punti critici", aveva detto il Guardasigilli, lo stesso giorno dell'approvazione. Un segnale più che chiaro che il provvedimento è una forzatura, voluta in prima persona dal premier.
L'unica legge veramente significativa in tema di giustizia è sotto esame da prima di nascere. C'è la questione dell'intimidazione, che evidenzia Mattarella: quanti magistrati avranno paura nel fare condanne scomode, magari nei confronti dei grandi gruppi economici?
E poi, c'è anche un altro risvolto imprevedibile: se le cause contro i magistrati saranno troppe, si rischia di paralizzare ulteriormente la giustizia. Sono gli stessi fedelissimi del premier che parlano di una fase di monitoraggio. Le parole contro la corruzione sono ancora più forti. Mattarella l'aveva condannata già nel discorso del giuramento davanti alle Camere. Ma la legge che viene annunciata da mesi ancora non c'è.
Sul falso in bilancio si sono alzate le barricate di FI, di Ncd e anche del ministro per lo Sviluppo, Guidi, in nome degli interessi di Confindustria. Risultato, un testo annacquato e l'ennesimo rinvio. Arriverà in Aula al Senato il 17 marzo. Mattarella ieri ha usato parole forti: "Il rapporto fra giustizia e sviluppo, tra equità e finanza pubblica, in una parola il contributo alla costruzione dell'edificio della democrazia, passa da un particolare impegno diretto alla lotta alla corruzione. Non sarà mai abbastanza sottolineata l'alterazione grave che deriva alla vita pubblica, al sistema della imprese, al soddisfacimento dei bisogni della comunità, dal dirottamento fraudolento di risorse verso il mondo parallelo della corruzione". Sotto testo: è il caso di fare rapidamente questa legge.
di Giovanni Maria Jacobazzi
Il Garantista, 10 marzo 2015
L'anno scorso, come si ricorderà, il governo Renzi si era presentato agli italiani con una ammiccante e seducente conferenza stampa. Il programma di governo aveva un titolo rivoluzionario: "Mille giorni per cambiare l'Italia: passo dopo passo", e prevedeva riforme mirabolanti. Nulla di mai visto in precedenza.
"Mille giorni sono il tempo che ci diamo per rendere l'Italia più semplice, più coraggiosa, più competitiva. Dunque, più bella. Rendere l'Italia più bella? Impossibile, si potrebbe pensare. È già il Paese più bello del mondo. Vero. Ma noi pensiamo che in questi anni l'Italia abbia spesso vissuto di rendita. Non è stata solo colpa della politica, ma della classe dirigente intesa in senso ampio. Tuttavia, il tempo della rendita è finito.
Chi si illude di poter continuare a ignorare questo elemento condanna il Paese all'irrilevanza. Ecco perché quelle che vengono chiamate riforme strutturali devono essere fatte. Non perché ce lo chiede l'Europa. Ma perché sono l'unica possibilità per l'Italia". Come non essere d'accordo?
Applausi a scena aperta. La slide sulle riforme "strutturali" in tema di giustizia, ancora presente sul sito del governo, fra i tanti temi che potevano essere affrontati (separazione delle carriere, fine dell'obbligatorietà dell'azione penale, divieto di appellare le sentenze di assoluzione da parte dell'ufficio del pubblico ministero, ecc.) era tutta incentrata sul "taglio" delle ferie ai magistrati. Come dire, stiamo ancora costruendo le fondamenta della casa ma intanto compro le tende per le finestre.
Le ferie delle toghe, oltre ad essere troppe, per il premier erano la causa principale dei ritardi e delle inefficienze dell'italica giustizia. "Siamo il Paese del diritto, non delle ferie dei magistrati", rispose sprezzante Matteo Renzi a chi lo criticava.
Con un salto mortale senza rete, il premier riuscì nell'impresa di far passare il messaggio "Meno ferie ai magistrati: giustizia più veloce". E poi "5.2 milioni di cause pendenti, 945 giorni medi per una sentenza civile di primo grado. Francia 350, Germania 300 giorni. Il governo riduce le ferie ai magistrati. Da 45 giorni a max 30 giorni. Tribunali chiusi dal 6 agosto al 31".
Complimenti al ghost writer di Palazzo Chigi. Ma poi? Le polemiche si scatenarono da subito. A parte che non è tagliando le ferie ai magistrati che si risolvono i problemi della giustizia in Italia, il motivo era molto semplice.
Il comma 2 dell'articolo 16 del decreto 132 del 2014, ossia il famoso decreto sul processo civile convertito in legge il 10 novembre 2014, introduceva alla legge sull'Ordinamento giudiziario 2 aprile 1979 numero 97, dopo l'articolo 8 ("i magistrati che esercitano funzioni giudiziarie hanno un periodo di ferie di 45 giorni"), l'articolo 8 bis rubricato "Ferie dei magistrati" secondo cui "...i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché gli avvocati e procuratori dello Stato hanno un periodo annuale di ferie di trenta giorni". Lasciando, quindi, intendere che il taglio delle ferie si applicasse solo ai cosiddetti "fuori ruolo".
L'ufficio Studi e documentazione del Csm venne interessato sia dalla Quarta commissione, quella che si occupa delle valutazioni di professionalità, circa le possibili ricadute sull'organizzazione del lavoro, e sia dalla Settima, quella per l'organizzazione degli uffici giudiziari, per una ricostruzione normativa fra gli articoli 8 e 8bis, per la definizione di giorni lavorativi e per i riflessi sui termini di deposito dei provvedimenti, sia con riferimento al lavoro del giudice che del pubblico ministero. La conclusione a cui giunse fu che pur essendo legittimi i dubbi interpretativi insorti l'intento del legislatore era chiaro: taglio delle ferie.
La Settima commissione, dopo aver preso atto del documento, non si ritenne però soddisfatta e richiese un intervento chiarificatore al legislatore. Ponendo anche in votazione due proposte. La prima, relatore Ardituro, fu per l'interpretazione che restavano 45 giorni di ferie, la seconda, presentata e votata dal laico Zaccaria, per il taglio a 30 giorni.
E l'Anm? Concentrata sul tema della modifica della responsabilità civile ed in attesa dell'intervento chiarificatore del Parlamento, dopo un iniziale momento di "riflessione" sembra stia valutando ora la possibilità di presentare un ricorso per impugnare il decreto del ministro della Giustizia del 13 gennaio 2015. Decreto che fissa il periodo feriale per l'anno in corso dal 27 luglio al 2 settembre. Un eventuale accoglimento, va detto, avrebbe effetti erga omnes. Nel frattempo, a dispetto della slide di Renzi e approfittando della approssimazione con cui la norma è stata scritta, i magistrati italiani continuano ad avere 45 giorni di ferie.
di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2015
Di "giallo" è forse (ancora) improprio scrivere. Di certo però neppure oggi il ministero della Giustizia depositerà l'emendamento sul falso in bilancio. Uno slittamento dovuto, si fa sapere a via Arenula, per attendere il via libera definitiva che il consiglio dei ministri dovrà dare al decreto sulla tenuità del fatto.
Se si tratti di tattica è tutto da vedere, però un rischio è certo: l'allungamento dei tempi di approvazione di un provvedimento, quello con la disciplina anticorruzione, nel quale deve essere inserita anche la nuova disciplina del falso in bilancio. Il provvedimento è già stato calendarizzato per l'Aula nella prossima settimana e si tratta oltretutto di uno slittamento di una decina di giorni rispetto a quanto era stato previsto in un primo tempo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando si era già speso per assicurare un'approvazione in tempi rapidi, ma a questo punto il rischio è che tutto torni in alto mare.
Già alla commissione Giustizia del Senato, dove il disegno di legge è in discussione, l'ostruzionismo di Forza Italia sta rallentando i lavori. Ufficialmente proprio per l'inerzia prima e il ritardo ora del Governo nello scoprire le carte su un testo che dalla scorsa settimana è stato oltretutto ampiamente diffuso. Situazione paradossale forse, ma che ieri sera alimentava le voci su un possibile cambiamento del testo.
Finora, comunque, sono stati approvati pochi ma significativi emendamenti al testo originale del disegno di legge Grasso. Tra questi l'innalzamento di 2 anni sia nel minimo sia nel massimo delle sanzioni per l'ipotesi base di corruzione, facendo lievitare la pena sino a 10 anni, con conseguenze immediate di allungamento della prescrizione, anche al netto delle nuove regole che giovedì saranno oggetto alla Camera di un ultimo passaggio con il mandato al relatore prima dell'approdo in Aula, anch'esso previsto per la prossima settimana.
E ieri la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti ha rivendicato la scelta di aumentare i termini per alcuni dei principali reati contro la pubblica amministrazione (corruzione propria e impropria e in atti giudiziari), votata la scorsa settimana con il dissenso di Ncd e Udc: "non è più tempo di rinvii, la politica si assuma le sue responsabilità. Fondamentale è la credibilità dello Stato che viene compromessa se non riesce ad accertare un reato così grave perché è mancato il tempo".
Nel merito, la bozza dell'emendamento sinora nota prevede una tripartizione delle sanzioni. Nel caso delle società quotate la pena arriverà a un massimo di 8 anni e partirà da un minimo di 3; mentre nelle società non quotate dovrebbe restare il tetto di 5 anni con un minimo di 1. Limite di 5 anni che è cruciale per poter applicare l'archiviazione per tenuità del fatto che il Consiglio dei ministri potrebbe approvare già giovedì in via definitiva e in attesa della quale sarebbe slittato l'emendamento stesso.
In questo modo non sarebbero più punibili le false comunicazioni sociali, verificatesi in società non quotate, e caratterizzati da condotta non abituale e a limitata portata offensiva. In ogni caso, per i fatti di lieve entità è anche prevista, sempre nelle non quotate, l'applicazione di sanzioni ridotte, fra 6 mesi e 3 anni. Sanzioni elevate ma non troppo (certo non fino agli 8 anni dell'emendamento del governo), procedibilità d'ufficio, irrilevanza del danno, limite ai soggetti attivi.
A un confronto allargato sulle principali legislazioni straniere in materia di falso in bilancio, emergono alcuni spunti di riflessione da tenere magari presenti anche in una prospettiva di riforma, come quella in cui si sta muovendo il Senato. E allora, riferendoci soprattutto al perimetro delle società quotate (ma in molti ordinamenti non è riconosciuta una specificità), va messo in evidenza che a sanzionare in maniera più severa le condotte di falsificazione delle comunicazioni sociali sono i Paesi di common law, Gran Bretagna e Usa, sede non a caso dei principali mercati finanziari.
Così, se in Gran Bretagna la pena massima è fissata a 7 anni, negli Stati Uniti il carcere può arrivare a 20 anni, quando il reato è stato commesso con piena consapevolezza o con l'intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni. Più ridotte le sanzioni in Spagna e Germania, 3 anni al massimo di reclusione, con la via di mezzo della Francia che pone l'asticella a 5 anni. Negli Stati Uniti sono assai rilevanti anche le misure pecuniarie che possono toccare i 5 milioni di dollari nei casi più gravi.
Per quanto riguarda la natura del reato, questo è pressoché unanimemente considerato di pericolo e la procedibilità a querela, attualmente inserita nella legislazione italiana ma non per le quotate, non esiste all'estero dove la magistratura può sempre intervenire d'ufficio. I soggetti attivi sono generalmente gli amministratori e i direttori finanziari, compresi gli amministratoti di fatto, mentre in nessun ordinamento sono comunque previste delle soglie di esenzione dalla punibilità.
di Filippo Sgubbi (Ordinario di diritto penale all'Università di Bologna)
Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2015
Ogni norma penale deve essere costruita nel rispetto del principio di tassatività sancito dalla Costituzione, come ripetutamente ha sottolineato la Consulta. In particolare, nelle materie riguardanti le attività economiche, le norme penali devono essere certe al massimo grado.
Chi opera in tale settore deve essere posto in condizione di valutare e prevedere con alta approssimazione quali siano le conseguenze della propria condotta: ciò, al fine di potere prendere le proprie decisioni - già esposte ai rischi, talvolta imponderabili, del mercato - sulla base di un contesto di sicurezza giuridica.
Se si vanifica la certezza del diritto per l'attività imprenditoriale, il risultato che si ottiene è non soltanto dissennato, ma controproducente: infatti, nell'incertezza del diritto sopravvive più facilmente chi opera ai margini della legalità rispetto a chi lavora con la volontà di rispettare le regole dell'ordinamento giuridico, ma senza riuscire mai a sapere se è in regola o no. L'emendamento del Governo in materia di riforma del "falso in bilancio", almeno nella versione sinora circolata, evidenzia un alto coefficiente di indeterminatezza. Il che preoccupa. Invero, proprio in materia di "falso in bilancio" la cura da parte del legislatore in ordine alla certezza del confine fra lecito e illecito dovrebbe essere massima.
Ciò per una precisa ragione tecnica. In altre figure di falso punito presenti nell'ordinamento, vi è un dato della realtà storica e materiale con cui confrontare il concetto di vero/falso. In materia di falso in bilancio, no. È quindi lo stesso nucleo del reato a non essere facilmente identificabile in sé: la nozione di non rispondente al vero in materia di bilancio e di comunicazioni sociali è nozione che può essere ricostruita soltanto attraverso altre disposizioni, diverse dalla norma incriminatrice, e suscettibili anch'esse di diverse interpretazioni.
Non esiste infatti un dato di bilancio che sia vero o falso in assoluto: si parla infatti di verità legale, ricostruibile e accertabile soltanto attraverso le norme del codice civile dedicate al bilancio nonché attraverso le regole disposte dai principi contabili internazionali. Pertanto, considerato che il vero/falso contabile non è generalmente (salvo casi clamorosi) di immediato e sicuro accertamento, è necessario che la norma penale che punisce la non corrispondenza al vero sia dotata di altri e ulteriori elementi costitutivi del fatto punito, soggettivi e oggettivi, che possano produrre certezza selezionando il fatto tipico. L'emendamento governativo, purtroppo, pare indirizzato in senso contrario rispetto a tale esigenza. Alcuni esempi.
L'eliminazione delle soglie di punibilità ci riporta al vecchio testo dell'articolo 2621 del Codice civile, sotto la cui vigenza anche il più marginale discostarsi dal vero legale costituiva reato: violando con ciò la primaria regola della effettiva lesività. Certo, nell'emendamento viene prevista la concreta idoneità all'inganno: ma mentre la fissazione di una soglia quantitativa o percentuale seleziona ex ante le condotte punite, operando sulla tipicità del fatto, l'idoneità costituisce un fattore che si accerta ex post, nel processo.
Con la soppressione del richiamo al dolo intenzionale si rende possibile la punizione del fatto sulla base del mero dolo eventuale: cioè, anche nel caso in cui l'autore non voglia direttamente il falso, ma accetti l'eventualità concreta che il bilancio contenga poste non rispondenti al vero. Questa soluzione è molto gravosa in vari casi.
Per gli amministratori della capogruppo, innanzi tutto: nel processo sarà facile affermare che coloro che hanno il compito di redigere il bilancio consolidato di gruppo hanno accettato l'eventualità che il bilancio di una società controllata sia non rispondente al vero. Analogamente per gli amministratori senza deleghe di una qualunque società e anche per i sindaci. Il veicolo della falsità può essere qualunque comunicazione: quindi anche comunicazioni non previste dalla legge.
Anche una semplice intervista può quindi rientrare in tale categoria. Indeterminatezza accentuata dal fatto che il falso ha a oggetto, genericamente, "informazioni". Pregiudicano la certezza anche le norme dei progettati articoli 2621 bis e 2621 ter, norme costruite in modo generico e affidate alla più assoluta discrezionalità del Magistrato.
Non solo: l'emendamento limita l'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità alle società "non fallibili". Se ne deduce che la causa di non punibilità generale di cui all'articolo 131 bis Codice penale dovrebbe essere esclusa per le altre società. In sintesi. Il fatto di reato è costruito in modo incerto e indeterminato.
E anche gli elementi costitutivi della fattispecie che vengono previsti non delimitano a priori il fatto punito, ma operano a posteriori, soltanto a seguito dell'accertamento giudiziale (come il requisito dell'idoneità o l'attenuante o la causa di non punibilità).
Tale soluzione è perniciosa in termini di certezza. Oggi il processo penale si gioca soprattutto nelle primissime fasi. È all'inizio del procedimento, sulla base della sola iscrizione nel registro degli indagati dell'ipotesi d'accusa affacciata dal Pm, che possono applicarsi i provvedimenti cautelari altrimenti non consentiti se la tipicità fosse selezionata dalle soglie quantitative o da condizioni di procedibilità: mi riferisco alle misure cautelari personali, alle varie forme di sequestro, anche per equivalente, sui beni degli amministratori e dei sindaci nonché sugli assets societari, fino all'applicazione delle figure di "commissariamento" ai sensi del decreto 231/2001 o del decreto 90/2014 (c.d. anticorruzione). Con gli effetti dirompenti - spesso irreparabili - sulla vita aziendale, effetti che ben si conoscono.
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