di Paolo Petroni
Ansa, 11 marzo 2015
Romanzo forte, nitido, credibile in prima persona di ergastolano. Maurizio Torchio, "Cattivi" (Einaudi, pp. 184, 19 euro). Cattivi, ovvero pessimi soggetti e, assieme, dal latino, prigionieri, è in questa doppia veste, in questo rimando lo spazio dell'esplorazione di Maurizio Torchio, che raccontando la vita all'interno di un carcere, narrata da un ergastolano imprigionato per un rapimento e poi condannato per aver ucciso una guardia in prigione, non è esplicita denunzia della situazione del sistema penitenziario, non è cronaca e sociologia, ma appunto scavo nell'umanità di chi vive quella doppia condizione.
Un libro forte, naturalmente, potente per il punto di vista e una sorta di oggettività della scrittura, sorvegliata, attenta, incisiva pur nel presentarsi molto soggettiva, essendo quella dell'io narrante che racconta, si racconta riuscendo sempre credibile nella sua situazione estrema, sospeso in una realtà senza tempo come può essere una cella d'isolamento, e riferisce, senza pentimenti o vere denunce, anche se di alcuni aspetti dei nostri carceri rivela impietosamente sadismi e meccanismi.
Alla fine, ma alla fine, il romanzo è anche questo, ma come una conseguenza. La prigione, così vissuta, nello scorrere dei giorni senza veri accadimenti, diventa anche una sorta di seconda pelle, di protezione, di luogo che "mentre dormi, trattiene il fiato per ascoltare il tuo respiro". Ha ventisette anni, ventiquattro passati libero, sette mesi "nel fianco della montagna con la principessa del caffè". Tre mesi poi nuovamente fuori, quindi due anni e due mesi in cella d'isolamento, da cui viene fatto uscire cercando di fargli ricadere addosso un'accusa d'infamia. "Puoi aver fatto qualsiasi cosa, fuori.... le guardie ti puniscono davvero solo se hai toccato uno dei loro".
Un romanzo che alle spalle ha uno studio e raccolta di documentazione, che riesce a sciogliere nell'intensità e varietà della narrazione, tra piccole curiosità e momenti di vita, tra fisicità e astrazione dei pensieri. Un romanzo avvincente nella sua apparente immobilità e nella sua intima avventurosità. L'unica cosa che conta, dentro, è avere il rispetto degli altri, che il protagonista si guadagna solo dopo aver ucciso un secondino.
Piscio solo dopo che si è suicidato squarciandosi le vene a morsi, un giovane solo quando si taglia la gola per la vergogna di aver parlato nel sonno, rivelando cose compromettenti. I giochi e gli equilibri sono molto particolari: "picchiare il ragazzo ha fatto bene alle guardie e, in fondo, anche a noi. È una forma di rispetto: il ragazzo ha provocato, loro hanno reagito. Vuol dire che esistiamo. Comandante ha fatto massacrare il ragazzo non per cattiveria, e nemmeno per invidia". E Comandante è un po' l'altro protagonista, il direttore del carcere, anche lui essere umano con le sue debolezze, l'amore innanzitutto, e anche lui prigioniero di un ingranaggio. Perché alla fine, come è inevitabile, in questo ossessivo raccontare tutto, in questo analizzare i rapporti, tra rapitore e rapita, tra prigionieri e guardie e così via, si scopre che forse siamo sempre tutti un poco "cattivi", prigionieri in senso esistenziale e psicologico, immersi in una così grande "certezza" eppure in balia di uomini e avvenimenti: quel che ti è permesso oggi, che senti tuo, domani non lo è più.
di Grazia Zuffa
Il Manifesto, 11 marzo 2015
Nell'aprile 2016 si svolgerà a New York l'Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), ma già questa settimana, alla riunione annuale della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) cominceranno i preparativi. Per comprendere il contesto in cui si svolgerà Ungass 2016, bisogna risalire alla precedente Ungass del 1998.
L'Assemblea Generale del 1998 segnò il culmine della retorica della "lotta alla droga": con lo slogan: a drug free world, we can do it e con la Dichiarazione Politica finale che fissava come obiettivi la "eliminazione della coca, del papavero da oppio e della cannabis entro il 2008". La Dichiarazione Politica diede la spinta ad una nuova escalation della war on drugs: si vedano i famigerati Plan Colombia e Plan Dignidad del Cile, che hanno causato la militarizzazione dei territori e lo sfollamento forzato di migliaia e migliaia di contadini dai campi avvelenati dalle fumigazioni.
Inoltre, dalla fine degli anni novanta al 2006, esplode l'incarcerazione per reati di droga in Usa, la gran parte per semplice possesso. Nel 2009, alla Cnd che aveva il compito di valutare i risultati della strategia uscita da New York dieci anni prima, la Dichiarazione Politica, lungi dal prendere atto di aver fallito l'obiettivo di "eliminare le droghe", usò l'escamotage di rinnovarlo fino al 2019.
Ancora nella stessa Dichiarazione, il termine "riduzione del danno" fu censurato e sostituito dall'ambiguo termine "servizi di supporto": tanto che sedici stati membri (per lo più europei, ma non solo) firmarono una dichiarazione a margine chiarendo che i "servizi di supporto" erano da tradursi in "misure di riduzione del danno". Questa semplice postilla segnava però un punto di svolta, decretando la fine dell'unanimismo.
Dalla seconda decade del 2000, si assiste ad una forte accelerazione nella riforma della politica delle droghe. Il regime internazionale è contestato apertamente nei paesi che più ne sopportano il peso: tanto che nel 2012, la risoluzione finale della Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che raccoglie gli stati sia del Sud che del Nord America, nella riunione annuale di Cartagena, rilasciò una dichiarazione finale critica della war on drugs (vedi in questa rubrica Amira Armenta, 20/6/2012). E l'anno successivo la stessa Oas pubblicò un rapporto (Scenarios for the drug problem in the Americas 2013-2025) che invitava a valutare opzioni alternative alla proibizione. Ancora più importante, forme alternative di regolamentazione delle droghe sono già in via di sperimentazione in varie parti del mondo. La Bolivia ha legalizzato l'uso tradizionale della foglia di coca, riconfermando l'adesione alle Convenzioni con questa importante riserva.
Negli Usa, quattro stati hanno legalizzato la marijuana a scopo ricreativo: a questi, probabilmente si aggiungerà la California, il più importante fra gli stati, nei prossimi mesi. Ma il cambiamento è anche a livello di amministrazione, se è vero che Obama ha deciso di non far valere la competenza federale e ha lasciato autonomia alle sperimentazioni dei singoli stati.
Ancora, nel dicembre 2013, il parlamento uruguayano ha approvato la legalizzazione della cannabis.
In Europa, sulla base della decriminalizzazione del consumo personale nella gran parte dei paesi, si diffondono a macchia d'olio i Cannabis Social Club, dalla Spagna, al Belgio, alla Svizzera e altri. Dunque il cambiamento c'è già, il problema è come si ripercuoterà a livello internazionale. Sarà un dibattito vero, dove finalmente si confronteranno opzioni diverse di politica delle droghe? Oppure prevarrà il conservatorismo degli stati che neppure vogliono sentire le parole "cambiamento" e "confronto"?
di Sara Gandolfi
Corriere della Sera, 11 marzo 2015
Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po' stinti che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. "Voglio fare il soldato". Non sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo, di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa combatterà.
Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i carichi d'acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non ti aspetti di vedere così tanti sorrisi.
Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Daràa, in Siria, l'11 marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all'ingresso, molti se ne sono andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d'affitto - l'80% degli oltre 600.000 profughi in Giordania vive di stenti nelle "host communities" - o pagando a caro prezzo la traversata del Mediterraneo. Altri, alla spicciolata, stanno tornando in Siria, perché non sopportano più l'esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigionati nel limbo. E Zaatari ha sbarrato le porte.
Gli ultimi arrivati - pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo - finiscono nel nuovo campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con permessi giornalieri difficili da conquistare. Perché i siriani, in Giordania, non possono lavorare ("il Paese ha già troppi disoccupati" spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure meglio che non si facciano vedere tanto in giro.
"Io non voglio restare" assicura Muhammad, 34 anni, che s'è appena trasferito in una delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. "Possono anche metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra". Viene da Al Tadamu, quello che era un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. "Assad ha bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la moglie". Lei non parla né si fa fotografare. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di quella casa di lamiera, lo sguardo implorante.
Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall'organizzazione internazionale non governativa Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall'altra quelli per le donne. Quattordici latrine per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma non solo. "In Siria avevano il bagno in casa, l'acqua corrente, la tv satellitare, il wifi. Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo" spiega Andy Bosco, responsabile Oxfam al campo. "Si attaccavano alle tubature comuni e portavano l'acqua ai container. Ora costruiremo una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno dei camion cisterna". Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già una città stabile che ha bisogno di infrastrutture.
Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le "abitazioni" messe a disposizione dall'Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliare consolidato, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantiscono la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull'Isis.
Circolano troppi uomini giovani, nullafacenti e dalle facce scure. E molte donne, spesso sole, a volte maltrattate perché "quando c'è solo tempo libero e noia, la violenza aumenta", avverte la responsabile dell'oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un profugo su due ha meno di diciassette anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola. Mamma l'ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L'ordine è non stare in giro troppo, da sola. "Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono" dice la preside di una delle sei scuole gestite dall'Unicef con i fondi dell'Unione europea.
Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo anno, quello del Tawjihi, la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo, l'insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni, è una delle allieve più promettenti. "Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato".Vuoi continuare? "Akeed...Tabàan, certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatica. Ma l'università costa, ci sono pochissime borse di studio". Ti manca la Siria? "Là c'era il verde, qua è solo deserto".
I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non fanno trent'anni in tre, "in Siria ci andavamo, ma qui...". Si arrabattano a tirar su qualche soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d'oro in un negozio di Champs Elisée. È la lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall'entrata dove pascolano le pecore alla fine del distretto 12. È il bazar all'aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d'affari da 10 milioni al mese.
C'è pure la "boutique" di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettiere, mutandine velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, "ma fuori lo paghi 15". Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di Sòad che prende 7 dinari per taglio e meche. Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni.
Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplicati, per la dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più al sicuro. Lo ammette fra i denti l'imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle. Celebra 15-20 matrimoni a settimana, "ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li autorizzano". Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e i suoi figli saranno illegittimi.
Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco chimico. "Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere assediato, ho partorito mentre bombardavano. Io sono fuggita in auto. Lui, che era ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria". Samar non ha potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta figlia di suo fratello. Ti risposerai? "No, sarebbe un tradimento. Lo amavo".
Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati. Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la sua piccola. "Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui" sussurra.
Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi che ridono. La prima racconta: "Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarlo, aiutateci". Perché non può? "Ha quasi 15 anni".
Aki, 11 marzo 2015
Il Pakistan avrebbe deciso la revoca totale della moratoria sulle condanne a morte in vigore da sette anni. Il Pakistan, scrive il sito web della Bbc, sta per riprendere le esecuzioni in tutti i casi di condanna previsti dal codice penale. Nei mesi scorsi il governo di Islamabad aveva deciso la revoca della moratoria sulle condanne a morte per reati di terrorismo dopo il sanguinoso attacco di dicembre alla scuola di Peshawar in cui sono rimaste uccise 150 persone, per la maggior parte bambini.
Secondo funzionari citati dalla Bbc, ora tutti i detenuti che hanno esaurito i possibili ricorsi per una commutazione della pena rischiano che venga eseguita la condanna loro comminata. Oltre ottomila persone, si legge sul sito web della Bbc, sono rinchiuse nel braccio della morte di diverse prigioni del Pakistan. Dall'attacco dello scorso dicembre nel Paese sono state eseguite per impiccagione 24 condanne a morte, secondo dati ufficiali diffusi oggi dall'agenzia di stampa pakistana App. Il gruppo Justice Project Pakistan, tramite il direttore Sarah Belal, ha denunciato una decisione "irresponsabile" in un Paese in cui si assiste spesso a "processi ingiusti".
Da Natale eseguite 24 condanne a morte
Il Pakistan ha messo a morte per impiccagione da Natale, quando è stata sospesa la moratoria per la pena capitale riguardante gli atti di terrorismo, a domenica scorsa, 24 "criminali" mentre le forze dell'ordine hanno proceduto all'arresto di 25.896 persone. Lo riferisce oggi l'agenzia di stampa pachistana App. Questo mentre nelle ultime ore circolano sempre più insistenti voci ad Islamabad, attribuite a portavoce del ministero dell'Interno, secondo cui il governo pachistano ha deciso la revoca totale della moratoria sulle condanne a morte in vigore dal 2008.
In un rapporto presentato al premier Nawaz Sharif si fa il punto sui risultati ottenuti da quando è entrato in funzione il Piano di azione nazionale (Pan) mirante negli auspici delle autorità pachistane a liberare il Paese dell'estremismo e del terrorismo. Le condanne a morte sono state eseguite nelle province di Punjab (14), Sindh (7), Khyber Pkhtunkhwa (1) e nel Kashmir amministrato dal Pakistan (2). Se la sospensione totale della moratoria fosse confermata, molti degli 8.000 detenuti attualmente nel 'braccio della mortè di molte prigioni potrebbero essere messi a morte avendo esaurito negativamente i possibili ricorsi per una commutazione della pena.
Askanews, 11 marzo 2015
L'ex poliziotto ceceno che ha ammesso di aver partecipato all'omicidio dell'attivista dell'opposizione russa Boris Nemtsov "ha probabilmente confessato sotto tortura". Lo ha dichiarato un componente del Consiglio per i diritti umani presso il Cremlino. "Ci sono ragioni che ci inducono a credere che Zaur Dadayev abbia confessato sotto tortura", ha dichiarato Andrei Babushkin, che ha aggiunto di aver visto "numerose ferite" sul corpo del principale sospetto nell'omicidio durante una visita alla sua cella in carcere.
Dadayev smentisce di aver confessato delitto
Zaur Dadayev, uno dei cinque sospetti per l'omicidio di Boris Nemtsov, ha smentito di aver confessato il delitto: lo scrive il tabloid Moskovski Komsomolets riferendo di una visita, nel carcere Lefortovo di Mosca, a lui e ai suoi cugini Anzor e Shagid Gubashev (anche loro indagati) da parte della commissione pubblica di controllo dei diritti umani dei detenuti, di cui fa parte un giornalista del quotidiano. Anzor non ha parlato, mentre Shagid racconta che chi lo ha catturato lo ha picchiato e intimato di dichiararsi colpevole.
Aki, 11 marzo 2015
Un tribunale penale speciale di Riad, in Arabia Saudita, ha condannato a 10 anni di carcere il fondatore di un'Ong per i diritti umani, Mohammad al-Bajadi. Lo ha riferito in una nota il Centro per i Diritti Umani del Golfo, un'organizzazione che ha sede a Beirut e Copenaghen, precisando che il tribunale che ha emesso la sentenza ha giurisdizione su casi di "terrorismo".
Bajadi è il fondatore dell'Associazione per i Diritti Politici e Civili (Acpra). "Il tribunale ha ordinato (ad al-Bajadi, ndr) di scontare cinque anni di prigione e la sospensione del resto della pena", si legge nel comunicato, nel quale è sottolineato che l'attivista è stato processato "senza preavviso né ha potuto consultarsi con i suoi avvocati". Bajadi è stato processato per vari reati, tra i quali l'aver acquistato libri vietati, organizzato una protesta con i familiari di alcuni detenuti e pubblicato materiale in grado di "compromettere l'ordine pubblico".
Nova, 11 marzo 2015
Le forze di sicurezza del Bahrein hanno fatto ricorso ai gas lacrimogeni per sedare i disordini scoppiati in una prigione durante le visite dei familiari, ferendo alcuni detenuti. Nader al-Salatna, presidente ad interim dell'Associazione per i diritti umani del Barhein, ha detto che i disordini nel carcere sono nati quando alcune guardie di sicurezza hanno attaccato i familiari che cercavano di visitare i loro parenti detenuti presso la struttura, che si trova a sud della capitale Manama. "Durante gli scontri tra i detenuti e le forze di polizia sono stati utilizzati proiettili di gomma e candelotti lacrimogeni", ha riferito Salatna.
Corriere della Sera, 11 marzo 2015
Pene più severe in Brasile per il femminicidio: la presidente Dilma Rousseff ha firmato ieri una legge che inserisce questo reato nella lista dei "crimes hediondos" (reati odiosi, come lo stupro) punibili con condanne dai 12 ai 30 anni di carcere. La normativa, approvata la scorsa settimana dalla Camera dei deputati verde-oro e a dicembre dal Senato, stabilisce che la pena può aggravarsi ulteriormente se la donna vittima è incinta, ha meno di 14 anni, più di 60 anni o è disabile. Al momento della firma, la Rousseff ha osservato che nel Paese vengono assassinate in media 15 donne al giorno. Secondo il Centro Brasiliano di studi latinoamericani il Brasile è il settimo Paese al mondo per casi di femminicidio (dato 2012). Secondo uno studio dell'Istituto di ricerca economica applicata (Ipea), le donne più colpite in Brasile sarebbero quelle di colore(61%).
Reuters, 11 marzo 2015
Circa 95 detenuti sono scappati da una prigione controllata dal gruppo Stato islamico nel nord della Siria. Tra i prigionieri scappati ci sono anche circa 30 miliziani curdi. L'evasione, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, è avvenuta nel carcere di al Bab, a trenta chilometri dal confine tra Siria e Turchia.
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 10 marzo 2015
È di nuovo allarme per il numero di persone presenti nei penitenziari, i fatti smentiscono il Ministro Orlando. Continua nuovamente a crescere il numero dei detenuti nei nostri penitenziari. Un aumento che riguarda, in maniera significativa, il carcere viterbese.
- Giustizia: Unione Europea; Italia terzultima per durata processi peggio solo Malta e Cipro
- Giustizia: la Commissione Ue boccia l'Italia "608 giorni per una sentenza di primo grado"
- Giustizia: sulla prescrizione una legge sbagliata, addio alla logica del dialogo
- Giustizia: la responsabilità civile dei magistrati e la giusta misura delle parole
- Giustizia: Mattarella; responsabilità civile dei magistrati "valutarne gli effetti concreti"