di Marzio Breda
Il Corriere della Sera, 25 febbraio 2015
Chissà, forse pensa alla questione morale, riesplosa con gli scandali degli ultimi mesi. E di sicuro riflette anche sulla continua sovraesposizione mediatica di certe toghe, che rivendicano un improprio spirito missionario, o sugli alibi di altri colleghi che magari giustificano decisioni incomprensibili con il richiamo a una cavillosa e ottusa applicazione della legge (come se la legge non incidesse sull'esistenza concreta delle persone). Fatto sta che Sergio Mattarella, in risposta alle emergenze nel campo della giustizia, segnala alcune cose precise. Spiegando che, nonostante il coltivato cinismo e la pretesa assuefazione al peggio degli italiani, "il bisogno di legalità è fortemente avvertito nel Paese". E aggiungendo che, per rispondere con efficacia a quest'attesa, serve un impegno su tanti fronti, a partire da "un recupero di efficienza" della macchina giudiziaria.
di Errico Novi
Il Garantista, 25 febbraio 2015
Alla Scuola superiore della magistratura ci si arriva sempre a fatica. I poveri magistrati che la frequentano, durante i corsi, fanno una settantina di chilometri al giorno solo per la spola tra aule, albergo e ristorante.
di Dino Martirano
Il Corriere della Sera, 25 febbraio 2015
Dopo infinite polemiche e discussioni è giunta in porto la legge sulla responsabilità civile dei magistrati che l'Ue aveva sollecitato fin dal 2011 con la previsione di 50 milioni di euro di "multa" in caso di inadempienza. Il voto definitivo, ieri a tarda sera alla Camera, è arrivato al termine di un dibattito neanche troppo acceso: 265 sì, 51 no, 63 astenuti.
Alla fine la maggioranza si è presentata compatta e ha votato a favore, Fi, Sel e la Lega (tranne Gianluca Pini, che ha votato a favore) se la sono cavata con l'astensione mentre il M5S ha votato contro.
di Errico Novi
Il Garantista, 25 febbraio 2015
È il gran giorno. Alla Camera si accingono a pronunciare l'ultimo, fatale sì. E proprio mentre il "Comitato dei nove" della commissione Giustizia di Montecitorio cestina gli ultimi emendamenti e innesca countdown per il decollo della nuova responsabilità civile, l'ala più arrabbiata del sindacato delle toghe rilancia lo sciopero. Con un comunicato diffuso da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano, il gruppo di Magistratura indipendente chiede la convocazione dell'assemblea nazionale.
"Con tempi ridotti secondo quanto prevede lo statuto dell'Associazione magistrati". Quindi, nel giro di pochi giorni, si riuniscano i parlamentini sezionali e poi si vada in assemblea. "In tale sede, potranno e dovranno essere delineate e valutate iniziative finalmente efficaci da parte della magistratura associata, considerandosi anche la possibilità di una giornata di astensione dalle attività". È guerra totale. Non solo nei confronti del governo, ma anche con le correnti di maggioranza, Area e Unicost, che di sciopero non vogliono sentir parlare. D'altra parte questo tentativo proposto da Mi di
superare i tentennamenti del Comitato centrale e chiamare a decidere sullo sciopero direttamente la base potrebbe rivelarsi superato. In realtà i giudici di prima linea già preparano la vera risposta alla nuova disciplina della responsabilità civile: lo sciopero bianco. O più precisamente, un'autoriduzione dei carichi di lavoro. Spiega un magistrato di Caserta, che chiede di non essere citato: "Nella riforma che Montecitorio ha ormai messo in rampa di lancio viene eliminato il filtro
di ammissibilità per i ricorsi contro i nostri presunti errori. Bene, si tenga presente che in Tribunali come quello di Caserta e nella gran parte di quelli del Sud i magistrati giudicanti si portano in un'unica udienza anche quaranta fascicoli, per cercare di smaltire l'arretrato. Vorrà dire", spiega il giudice, "che ce ne porteremo al massimo una quindicina, così diminuirà anche il rischio di commettere errori". Ecco: autoriduzione dei carichi è la parola chiave dei questa vicenda. Una sorta di ammutinamento proposto dal cuore della macchina della giustizia, cioè dai magistrati di prima linea.
Più che la proclamazione di una giornata di sciopero, percepita da molte toghe come un rischiosissimo boomerang, rischia di essere questa appunto la vera risposta sindacale contro la riforma. Di fatto si profila un fenomeno analogo a quello a cui danno vita i medici del servizio sanitario nazionale: somministrano una maggiore quantità di farmaci e accertamenti clinici per abbassare il margine di errore e, soprattutto, cautelarsi rispetto a possibili azioni legali da parte degli assistiti. In Italia sta insomma per diffondersi la "giustizia difensiva".
Giudici e pm paiono tutt'altro che intenzionati a correre i rischi previsti dalla nuova disciplina della responsabilità civile. Non vogliono trovarsi a dover fare i conti con raffiche di azioni da parte dei cittadini-utenti, anche se si tratterebbe pur sempre di cause contro lo Stato, che eventualmente dovrà rivalersi nei loro confronti.
Tra le conseguenze più sgradite c'è il possibile innalzamento dei premi assicurativi. In caso di rivalsa da parte dell'amministrazione nei confronti del giudice dovrebbero scattare delle trattenute sullo stipendio. Ma la maggior parte dei magistrati preferisce accedere alla convenzione stipulata dall'Anni con una
società di brokeraggio. Si tratta della Marsh, che ha sede a Milano. E che però, interpellata dal Garantista, chiarisce come l'eventualità di un'impennata delle polizze sia per ora remota. "Il mercato assicurativo si aspetta da questa riforma della responsabilità civile dei magistrati un impatto molto contenuto", spiega il presidente della Marsh, Gianni Turci. "Attualmente il costo medio di una polizza, per un giudice o un pm, è inferiore ai 200 euro. Possiamo dire che le compagnie, di cui noi siamo intermediari, saranno senz'altro disponibili ad allargare le coperture con modesti aggiustamenti di premio".
Ad oggi il costo di un'assicurazione contro il risarcimento danni per responsabilità civile costa a giudici e pm cifre più o meno uguali per tutti. "È vero che l'eventuale trattenuta sullo stipendio è più alta se è maggiore la retribuzione del magistrato. Ma chi ha stipendi più elevati ricopre anche funzioni più alte e ha in genere una maggiore esperienza. Il che dal punto di vista delle assicurazioni tende a ridurre comunque il rischio di una condanna", dice ancora il presidente della Marsh. In gioco dunque c'è poco, in termini economici. Ma i magistrati non tollerano quell'ombra che rischia di stendersi su ogni loro singolo atto.
Redattore Sociale, 25 febbraio 2015
Partito lo sciopero della fame per rispettare la scadenza prevista dalla legge. È promosso da Stop Opg e sarà portato avanti da personalità come Don Ciotti, Corleone, Gonnella, Don Zappolini. Si chiede anche la nomina di un commissario ad hoc.
È partito un digiuno a staffetta per la chiusura degli Opg entro il 31 marzo, come previsto dalla legge. "La data per la chiusura degli Opg si avvicina - si legge nell'appello della campagna Stop Opg, promotrice del digiuno - Il 31 marzo 2015 è la scadenza fissata dalla legge. Vogliamo essere sicuri che sarà rispettata. E che al loro posto non si apriranno nuove strutture manicomiali. Perciò continua la mobilitazione per far chiudere gli Opg al 31 marzo 2015 senza proroghe e senza trucchi".
Nell'appello si chiede anche "la nomina di un Commissario per l'attuazione della legge 81/2014 sul superamento degli Opg"; lo stop ai "nuovi ingressi negli Opg e favorire le dimissioni, con buone pratiche per la salute mentale, una buona assistenza socio sanitaria nel territorio; e infine, si chiede di "evitare che al posto degli Opg crescano nuove strutture manicomiali (le cosiddette Rems: i "mini Opg" il cui numero può e deve essere invece drasticamente ridotto)".
L'Appello è promosso per stop Opg da varie personalità, che digiuneranno suddivisi per giorni: Stefano Cecconi (Cgil nazionale), don Luigi Ciotti (Gruppo Abele) Franco Corleone (Garante diritti dei detenuti Toscana), Adriano Amadei (Cittadinanzattiva referente salute mentale), Denise Amerini (Fp-Cgil), Stefano Anastasia (Società della Ragione), Cesare Bondioli (Psichiatria Democratica), Antonella Calcaterra (Camera Penale di Milano), Enzo Costa (Auser nazionale), Vito D'Anza, Peppe Dell'Acqua (Forum Salute Mentale), Giovanna Del Giudice (Conferenza Permanente Salute Mentale nel Mondo), Maria Grazia Giannichedda (Fondazione Basaglia), Patrizio Gonnella (Antigone), Fabio Gui (Forum Salute e Carcere), don Giuseppe Insana (Ass. Casa di Barcellona Pozzo di Gotto, Elisabetta Laganà (Presidente Conf. Naz. Volontariato Giustizia), Aldo Mazza (Edizioni Alphabeta Verlag), Anna Poma (coop. Con.Tatto), Alessandro Sirolli (Associazione180Amici Aq), Gabriella Stramaccioni (Libera) Gisella Trincas (Unasam), don Armando Zappolini (Cnca).
Redattore Sociale, 25 febbraio 2015
Almeno 4 giovani immigrati cacciati dall'Italia nelle ultime settimane per opinioni espresse in rete. Le loro storie e i commenti di Amedeo Ricucci, Lorenzo Declich, Mohamed Shain. Guido Savio (Asgi): "Provvedimenti politici che lo Stato può fare anche senza aver nulla di concreto".
Un operaio pakistano che prestava servizio volontario in Croce verde. E che nel tempo libero avrebbe cliccato qualche "like" di troppo su contenuti Facebook riconducibili al jihad. Un saldatore marocchino-brianzolo, adorato da amici e colleghi; il cui legame col terrorismo internazionale si sarebbe invece palesato su twitter, dove esaltava le pretese virtù di giustizia sociale dello Stato islamico e dileggiava i combattenti curdi con l'appellativo di "peshmerda". Uno studente turco della Normale di Pisa, ragazzo prodigio della fisica dei buchi neri con qualche evidente squilibrio psichico: tra un'equazione differenziale e l'altra, inviava missive ai governi d'Italia e Stati Uniti, minacciando di farsi esplodere e definendosi "jihadista pagano, alla maniera di Nietzsche".
Ci sono anche loro nell'elenco dei sospetti terroristi espulsi dall'Italia. Che si sia trattato d'isteria o ragion di stato toccherà alla giustizia italiana stabilirlo; ma è certo che il confine tra le due tende ad assottigliarsi quando in ballo c'è la sicurezza nazionale. E se lo studente era considerato quantomeno eccentrico, gli altri due provvedimenti sono stati fulmini a ciel sereno per amici e familiari. Che da un mese ripetono che quei ragazzi sono finiti al centro di un clamoroso equivoco. Se non proprio di un'ingiustizia.
A Civitanova Marche, Faqir Ghani ci è arrivato con la famiglia nel 2003, a 14 anni. Nella cittadina maceratese ha stretto amicizie, lavorato in un calzaturificio e si è dedicato al volontariato. I colleghi della Croce verde raccontano che quel ragazzo, che aveva amici di ogni confessione, era diventato un punto di riferimento per loro. "Per i volontari più giovani - ha dichiarato la segretaria Annarita Badalini all'indomani del rimpatrio - era un fratello maggiore: uno di loro è stato qui poco fa e se n'è andato in lacrime. O non abbiamo capito nulla noi o si è trattato di un grosso errore".
Non la pensavano così al ministero degli Interni, dove il 19 gennaio è stato firmato il decreto d'espulsione. "La polizia lo ha prelevato al lavoro - ricorda l'avvocato Maurizio Nardozza - e in meno di 24 ore era già in Pakistan. Gli atti sono secretati, quindi non sappiamo di cosa sia accusato: da una nota ministeriale sembra che avrebbe condiviso su Facebook materiale legato al terrorismo islamico. Faqir non ha smentito, ma ha respinto ogni simpatia jihadista. È stato un duro colpo per la famiglia, non li ha nemmeno potuti salutare".
"Reporter di seconda generazione". Diverso è il caso di Oussama Kachia, marocchino 34enne che da 21 anni viveva e lavorava a Brunello, piccolo centro del Varesotto. A quanto pare l'uomo era molto benvoluto in paese: la mattina del 6 febbraio, il suo datore di lavoro si è precipitato in questura in lacrime, chiedendo lumi sul provvedimento.
Agli agenti che lo rimpatriavano, Kachia non ha negato le sue simpatie per l'Is: su twitter ne esaltava le virtù con una veemenza quasi naif, ma più che un militante si è definito "un reporter di seconda generazione". Per la questura di Varese, al contrario, si tratterebbe di un individuo "potenzialmente plagiabile da soggetti intenzionati ad arrecare pericolo allo Stato Italiano".
Sia Ghani che Kachia hanno già annunciato ricorso contro i provvedimenti: "se necessario - ha dichiarato il legale del primo - ci rivolgeremo alla Corte di giustizia europea". Ma le cose potrebbero non essere così semplici. Secondo Guido Savio, avvocato dell'Associazione studi giuridici sull'immigrazione, lo Stato avrebbe agito nel pieno delle sue prerogative: "L'articolo 13 del testo unico sull'immigrazione e il decreto legge del 2005 per la prevenzione del terrorismo internazionale - spiega - danno al Ministro dell'Interno la facoltà di espellere uno straniero qualora sussistano ragioni di sicurezza.
Si tratta di un atto politico, generalmente utilizzato quando qualcuno viene trovato 'con le mani nella marmellatà, senza che lo stato abbia però nulla di concreto contro di lui: perché, se le prove ci fossero, va da sé che non lo manderebbero a casa, ma in carcere. Tanto è vero che il ministero, avendo facoltà di secretare gli atti, non è tenuto a produrre prove o capi di imputazione. Un esempio potrebbe essere l'imam che si lancia in sermoni particolarmente virulenti e, pur non avendo infranto la legge, viene rimpatriato".
"Gli dicevo di non scrivere quelle cose". Secondo Savio, provvedimenti di questo genere vengono adottati, in media, "tra le cinque e le dieci volte l'anno". Solo tra dicembre e febbraio, però, almeno 11 stranieri sono stati espulsi con la stessa procedura: si tratta di asiatici, nordafricani o balcanici che, secondo il ministero, cercavano di raccogliere denaro, proseliti o contatti per il fronte siriano. Ma che, in qualche caso, si sarebbero "limitati" all'attività sui social network: come Usman Rayen Khanein, 22enne pakistano-bolzanino che avrebbe attirato l'attenzione degli inquirenti perché, sul suo profilo Facebook, campeggiava una bandiera dello Stato islamico.
O lo stesso Kachia, che le sue filippiche contro i Curdi di Kobane le scriveva in un perfetto italiano. Non esattamente ciò che ci si aspetterebbe da agenti del terrore in incognito. "Oussama è un testone - sospira A., sorella di Kachia - ma non ha mai pensato di far male a nessuno. Perfino il sindaco ne ha parlato bene ai giornali e di certo non è mai stato un integralista: ha una moglie in Svizzera che non ha mai messo il velo, vivevano come occidentali. Io gli ho detto mille volte di non scrivere quelle cose su internet, ma lui rispondeva che informarsi ed esprimere opinioni era suo diritto. Era in contatto anche con giornalisti e scrittori italiani".
Tra i contatti Facebook di Kachia c'era anche Lorenzo Declich, scrittore, docente universitario e apprezzato studioso del mondo islamico. Che della questione dà una lettura diversa: "Il punto - spiega - è che si rischia di dare una risposta di tipo esclusivamente securitario a un problema che è molto più complesso. L'Isis richiama questi ragazzi a un mito delle origini che in Italia rischia di non trovare un vero punto di rottura, viste le evidenti carenze della legge sulla cittadinanza e delle nostre politiche di integrazione. In altre parole, finché non offriamo loro una vera alternativa, l'estremismo avrà gioco facile nel cercare la frattura tra la società europea e fasce di popolazione più o meno ampie, alle quali non è stata offerta una vera opportunità di integrarsi".
Ossessionato dalle ingiustizie. Le parole di Declich, appena qualche giorno dopo, sembrano trovare conferma nell'ultimo video propagandistico diffuso da Al Hayat, media center dello Stato islamico, durante il quale due combattenti si rivolgono direttamente ai musulmani delle banlieue francesi: "Loro se ne fregano di voi - tuonano i due - vi umiliano ogni giorno, chiedete la carità, supplicate la disoccupazione e il salario minimo: allora perché seguite i loro costumi?".
È la stessa sorella di Kachia, in effetti, a raccontare che la parabola conflittuale di Oussama sarebbe iniziata quattro anni fa, "quando nostra sorella - ricorda - venne pestata brutalmente da due teppisti per il solo fatto di portare il velo. Da allora, Oussama ha iniziato a diventare sempre più arrabbiato, ossessionato dalle ingiustizie di cui i musulmani sarebbero vittime. Ha raccolto centinaia di foto di bambini e civili morti nei bombardamenti in Siria".
L'Olocausto musulmano. A farle eco c'è Mohamed Shain, imam di una delle più antiche moschee d'Italia, quella del quartiere torinese di San Salvario. "Quello che voi non sembrate capire - spiega - è che per i musulmani sunniti ormai la guerra in Siria rappresenta qualcosa di simile all'Olocausto ebraico. Molti fedeli - dice, mostrando immagini di corpi dilaniati da un bombardamento - oggi hanno foto come queste nel cellulare".
Che la Siria sia "la madre di tutti i problemi" lo ripete da tempo anche il giornalista Amedeo Ricucci, lunga carriera da inviato della Rai, che alla nascita dell'Isis ha idealmente assistito nell'aprile del 2013, durante la sua prigionia nel nord del paese, quando la brigata qaedista che lo teneva in ostaggio passò sotto il vessillo della nuova organizzazione.
"Per tre anni - spiega - i media e la società italiana si sono ampiamente disinteressati di quanto accadeva in Siria: poco o nulla si è detto dei bombardamenti di regime o dei siriani che tornavano in patria per combattere contro Assad, non diversamente da quanto accadeva in Spagna nel '36. Il risultato è che, ad esempio, oggi siamo incapaci di distinguere il concetto di terrorista da quello di foreign fighter e non abbiamo gli strumenti per inquadrare il contesto da cui il nuovo terrorismo emerge. Di fatto, l'arrivo del jihad a casa nostra ci ha colti largamente impreparati; e il rischio ora, soprattutto da parte dei media, è di alimentare un clima di isteria che non aiuta, in primo luogo, l'azione delle forze di sicurezza".
di Dimitri Buffa
L'Opinione, 25 febbraio 2015
Formare la polizia penitenziaria all'uso dei social network? Ma che vuol dire? E a che serve? Se uno vuole usarli per insultare la gente sarà un corso di formazione a fargli cambiare idea? Alcuni agenti di un sindacato minoritario della polizia penitenziaria, come è noto, nei giorni scorsi hanno provocato un grande scandalo.
Condendo questo concentrato di aria fritta con queste testuali parole: "Tra le iniziative del Dap ce n'è una che prevede questo tipo di formazione; non si tratta di limitare la libertà di espressione, ma gli agenti devono essere consapevoli delle insidie che si nascondono nell'uso di questi mezzi, anche se questi fatti non sono in alcun modo derubricabili a disattenzione".
Già, non sono "derubricabili". Ma l'eufemizzazione del suddetto comportamento scellerato sta nella dichiarata volontà buonista del ministro. Anche le armi si possono usare per legittima difesa: o per sport al poligono o, al contrario, per fare una rapina.
Detto ciò, se un agente penitenziario in un raptus di follia e disperazione uccide con la pistola di ordinanza la moglie e si suicida, oppure si unisce ad una banda di criminali che rapinano le banche a mano armata, un ministro che fa? Promuove un corso di formazione per l'uso corretto delle armi leggere? Ma "ci facci il piacere", come avrebbe detto Totò.
Purtroppo queste assurdità lessicali e logiche accadono quando i politici (e soprattutto chi ha anche responsabilità di governo) fanno fatica a chiamare le cose e gli eventi con il loro nome. Il gesto di chi ha commentato su Facebook in quella maniera il suicidio del detenuto romeno non va esorcizzato con un corso professionale di rieducazione all'uso di Facebook, Twitter o Google plus. Ma semplicemente sanzionando pesantemente il responsabile o i responsabili. E se il comportamento asociale e bullista dovesse dilagare, la soluzione diventa ancora più semplice: si proibisce l'uso dei social network durante l'orario di lavoro. Punto.
Corriere della Sera, 25 febbraio 2015
Contro i provvedimenti presi per i baschi azzurri che avevano commentato il suicidio di un detenuto, il sindacato di polizia penitenziaria lancia l'hashtag #iosonolapagliuzza. Dopo i messaggi su Facebook, l'hashtag su Twitter. La nuova iniziativa del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria non contribuisce a gettare acqua sul fuoco delle polemiche nate dopo i messaggi choc postati su Fb da alcuni agenti di polizia penitenziaria commentavano ("Uno di meno", uno dei post più "civili") il suicidio di un recluso avvenuto nel carcere di Opera, alle porte di Milano, il 15 febbraio
Il Sappe ora lancia l'hashtag #iosonolapagliuzza "contro gli esagerati e sproporzionati provvedimenti adottati dall'Amministrazione Penitenziaria contro gli autori dei post che, ad avviso dell'Organizzazione sindacale, vogliono solamente distrarre l'attenzione dal vero problema delle carceri italiane e di chi le amministra".
Prosegue il sindacato dei Baschi Azzurri: "L'hashtag #iosonolapagliuzza vuole evidenziare come si stia tentando di far ricadere solo su sedici poliziotti penitenziari la colpa dello sfacelo del sistema penitenziario italiano, approfittando di una sciocchezza - sia pur ingiustificabile - commessa su Facebook. L'hashtag #iosonolapagliuzza vuole denunciare l'ipocrisia di un sistema che si indigna esageratamente per quattro sciagurati commenti ignorando le vere tragedie delle carceri italiane: solo per riferirsi agli ultimi dodici mesi del 2014, 43 suicidi di detenuti, 11 di poliziotti penitenziari, 933 tentati suicidi in carcere sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria, 6.919 episodi di autolesionismo, 966 ferimenti e 3.575 colluttazioni. L'hashtag #iosonolapagliuzza vuole testimoniare che se è giusto perseguire disciplinarmente chi ha commesso una, pur grave, sciocchezza questo non significa infierire ed accanirsi oltre ogni limite".
Ansa, 25 febbraio 2015
Salvatore Riina "versa in gravissime condizioni di salute. La situazione è precipitata nell'ultimo periodo. I medici disperano di salvarlo e dovrà subire presto un difficilissimo intervento chirurgico". Così l'avvocato Luca Cianferoni, legale di Totò Riina, parlando con alcuni cronisti a margine di una delle udienze del processo per la strage del rapido 904, nel quale il boss mafioso è l'unico imputato. "Riina - ha precisato - non ha avuto alcuna ischemia, ma soffre di gravi patologie. È costretto in sedia a rotelle e si muove a fatica". Considerate le gravi condizioni di salute di Riina, la Corte, accogliendo una richiesta della difesa, consentirà a Riina di seguire il processo da una speciale cabina del carcere di Parma, attrezzata per persone non deambulanti, diversa da quella da dove si collegava al momento.
"L'imputato Riina è una persona capace dal punto intellettivo, ma la questione è se sia in grado dal punto di vista materiale di seguire il processo" ha detto l'avvocato Cianferoni. La nuova postazione richiesta, ha aggiunto, è dotata di un telefono predisposto per persone in sedia a rotelle, che consentirà a Riina di poter parlare riservatamente col suo legale nel corso dell'udienza. "Il prigioniero è sacro - ha detto Cianferoni - altrimenti lo Stato diventa peggio di chi persegue".
Adnkronos, 25 febbraio 2015
È in calendario per oggi l'udienza in Cassazione in merito al ricorso presentato dalla difesa per la scarcerazione di Massimo Giuseppe Bossetti, dietro le sbarre dal 16 giugno scorso con l'accusa di aver ucciso con crudeltà la 13enne Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo) e trovata senza vita in un campo di Chignolo d'Isola, a tre mesi esatti di distanza. Dopo il no del gip di Bergamo Vincenza Maccora e la bocciatura dei giudici del Riesame di Brescia, il difensore Claudio Salvagni si è rivolto alla Cassazione per un nuovo parere. Una scelta che arriva dopo il secondo no del gip di Bergamo (già presentata una nuova istanza al Riesame) e dopo i nuovi sviluppi di un'inchiesta che, a breve, verrà chiusa dalla procura.
Se la Suprema Corte non deve entrare nel merito di un'inchiesta che supera le 10mila pagine per il solo Bossetti e decidere solo sulle esigenze cautelare nei confronti dell'indagato, il processo si giocherà su una serie di elementi, a partire da quella che è la considerata la 'prova reginà dell'accusa, ossia la traccia biologica. A portare dietro le sbarre Bossetti sono sostanzialmente quattro elementi: la polvere di calce trovata nei polmoni di Yara, l'analisi delle celle telefoniche, la testimonianza del fratello minore.
Il primo elemento non può essere considerato univoco della presenza del 44enne muratore, il secondo mostra che il giorno della scomparsa il cellulare di Yara aggancia oltre un'ora prima la stessa cella di Bossetti, la descrizione fornita da Natan non corrisponde a quella del presunto killer, sentenziano i giudici del Riesame che riducono sostanzialmente alla traccia biologica l'indizio che costringe in carcere l'indagato. E dall'architrave dell'indagine bisogna partire per capire tutti gli elementi dell'inchiesta.
Il Dna. La traccia mista (Yara - Ignoto 1) trovata sui leggings della 13enne dice che il Dna nucleare corrisponde con quello di Bossetti, ma non il Dna mitocondriale. Un "manifesto, acclarato e determinante dubbio" che per l'avvocato Salvagni è sufficiente per scarcerare Bossetti. Un dato a favore dell'indagato da aggiungere "all'assenza di peli e capelli dell'indagato sul corpo della 13enne, all'assenza di elementi della vittima sul furgone del 44enne muratore". Sotto la felpa della vittima ci sono due capelli sconosciuti di cui si conosce solo il Dna mitocondriale, un altro elemento su cui punta la difesa.
Il furgone. Il furgone di Bossetti sarebbe stato ripreso dalle telecamere della zona mentre si aggirava intorno alla palestra di Brembate - frequentata dalla giovane ginnasta - fino a un'ora prima della scomparsa di Yara e secondo l'ultima relazione, consegnata dai Ris alla procura, sui leggings della 13enne sarebbero stati ritrovati fili del sedile del camioncino del suo presunto assassino. Secondo la difesa questo tipo di materiale è presente su diverti tipi di mezzi, anche pullman, inoltre l'analisi degli esperti non è stata svolta davanti ai consulenti della difesa.
La testimonianza. Una donna riferisce di aver visto Bossetti, tra agosto e settembre 2010, in auto in compagnia di una ragazzina che assomigliava a Yara. Una testimonianza resa agli inquirenti nel novembre scorso e che per la difesa dell'indagato risulta essere tardiva e la cui veridicità resta da dimostrare.
Le ricerche via web. Per l'accusa il movente del delitto viene svelato dalle ricerche via web e per quell'ossessione per le ragazzine o le "tredicenne" digitate più volte nei motori di ricerca. Dalla consulenza della procura "si evince - secondo gli esperti del pool difensivo - come sia una ricerca automatizzata più che una digitazione fatta da una persone, visto che le parole sono distanziate da un trattino".
Per l'accusa è Bossetti a far le ricerche online lo scorso 29 maggio - non era a lavoro quel giorno - ma gli inquirenti non spiegano chi fa ricerche simili il 7 maggio quando invece è al cantiere. "Ancora una volta - per la difesa - nei documenti della procura viene presentato un elemento come indiziario fingendo di non vederne uno identico tale da azzerare il primo".
Le intercettazioni. Nei giorni scorsi diventa pubblica un'intercettazione: "Rischierò l'ergastolo, ma non confesso per la mia famiglia", il senso delle conversazioni tra Bossetti e gli altri detenuti del carcere di Bergamo. Affermazioni acquisite dal pm Letizia Ruggeri perché ritenute interessanti. "Non confessa, perché non ha fatto nulla. Non crolla, perché vuole dimostrare la sua innocenza", la replica dell'avvocato Salvagni.
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