di Rita Bernardini (Segretario di Radicali Italiani)
Il Tempo, 27 febbraio 2015
Hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011. "Il pianto frutta": nessuno meglio dei magistrati italiani sa mettere in pratica questo antico modo di dire della saggezza popolare. Frignano per poi piangere fino a singhiozzare perché con la legge appena approvata sulla responsabilità civile, le toghe nostrane ritengono di non essere più indipendenti, di essere sottoposte a continui ricatti e costrette ad auto-contenersi per il timore di essere chiamate in causa.
di Piero Sansonetti
Il Garantista, 27 febbraio 2015
Anm furiosa per le nuove norme sulla responsabilità civile, carbone e sabelli: "è la normalizzazione della magistratura". Libererebbe forse l'Italia da un sovrappeso "feudale" che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono - temo in buona fede - che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere "società etica" (successivamente si passa all'idea dello "Stato Etico") non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri ("aristoi") i quali siano in grado di "sapere" la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla.
Non è questa una funzione - pensano - che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l'eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere " corretta", o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di "certamente morale": e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza.
E mettere in discussione l'indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica.
L'autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell'equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società "morale" deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa "immorale" e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è "il male" , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col Bene.
Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell'Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l'unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece - ha spiegato - vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l'estensione dei poteri speciali "antimafia" anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell'imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell'Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell'equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell'imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri.
Sabelli ha anche annunciato che l'Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell'incontro c'è un elemento di scavalcamento dell'idea (puramente platonica in Italia) dell'indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L'associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura.
Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L'unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent'anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici).
Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell'ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto?
La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l'esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta.
Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. È questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della "Divina Giustizia". No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. È sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.
di Claudio Cerasa
Il Foglio, 27 febbraio 2015
Minimizzare la portata del disegno di legge appena approvato sulla responsabilità civile dei magistrati sarebbe errato. Non fosse altro perché siamo pur sempre di fronte al legittimo tentativo di un governo di rispondere, con 27 anni di ritardo, a un'esigenza che i cittadini italiani allora dimostrarono di avere ben chiara in sede referendaria. Tuttavia non sarebbe nemmeno utile concedere spazio alle sole critiche distruttive del nuovo regime di responsabilità dei giudici, come quelle che arrivano da Anm e corifei vari. Piuttosto merita una riflessione l'intervista concessa ieri al Messaggero dal procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio.
Quest'ultimo mette in guardia dalla "possibilità" che in una prima fase ci siano "valanghe di ricorsi" da parte dei cittadini interessati per presunto "travisamento del fatto" operato dal giudice. Considerato che "lo stesso fatto può essere valutato in diversi modi in tutti i gradi di giudizio", un monitoraggio (auspicabilmente terzo) è da prevedere. Nordio però aggiunge pure: "È sacrosanto che lo stato risarcisca davanti a una decisione ingiusta, anche andando al di là del testo approvato e riconoscendo il pagamento delle spese legali a chi ha subìto un processo dal quale è risultato innocente".
Non solo. Se i magistrati facilmente si assicurano contro sanzioni pecuniarie, il procuratore auspica che "un magistrato che manda in galera una persona contra legem non deve pagare, deve essere buttato fuori dalla magistratura". Tutto ciò che infatti perpetua l'autotutela dell'ordine giudiziario rischia di svuotare il tentativo di responsabilizzare i singoli giudici.
di Dino Martirano
Il Corriere della Sera, 27 febbraio 2015
E ora, dopo il varo della legge sulla responsabilità civile delle toghe, per l'Associazione nazionale magistrati si apre un doppio fronte. Quello esterno, sul quale viene lanciata la sfida al governo Renzi per "dieci riforme della Buona Giustizia" utili al Paese, e quello interno che vede la leadership dell'Anm combattere le spinte corporative favorevoli allo sciopero. Spinte che arrivano dalla base e, paradossalmente, con più forza dalla corrente conservatrice di Magistratura indipendente legata al sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. L'arroccamento corporativo, è il parere del vertice dell'Anm, "sarebbe in questo momento un errore gravissimo".
Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, nella sua conferenza stampa è dunque andato oltre la denuncia reiterata contro lo "spirito punitivo" e le "spinte alla normalizzazione" che, secondo i magistrati, porta con sé la legge sulla responsabilità civile. Sabelli ha fatto sapere che c'è una richiesta di incontro con il presidente della Repubblica al quale i magistrati si rivolgeranno (anche nella sua qualità di presidente del Csm) per cercare un alleato sul piano delle riforme della "Buona Giustizia".
Eccolo il decalogo che l'Anm propone al governo Renzi: prescrizione e abrogazione della ex legge Cirielli; più strumenti investigativi contro la corruzione (gli stessi previsti per la mafia); rafforzamento della lotta all'evasione; assunzione di nuovi cancellieri; riqualificazione del personale amministrativo; più risorse alla Giustizia; riforma del sistema delle nullità; investimenti per gli educatori nelle carceri.
Su due punti il Parlamento potrebbe presto dire la sua: i primi di marzo va in aula al Senato il ddl anticorruzione (con le incognite sul falso in bilancio) e il 16 la Camera affronta il testo sulla prescrizione. Due temi, questi, sui quali sono accesi i riflettori della comunità internazionale: "Essenzialmente, l'Italia ha due problemi, i processi lenti e la corruzione che è una tassa sui vostri prodotti" ha detto l'ambasciatore Usa John R. Phillips alla Scuola Sant'Anna di Pisa.
www.camerepenali.it, 27 febbraio 2015
È in corso un'imponente campagna di disinformazione orchestrata da parte della magistratura volta a far credere che, con la nuova disciplina, il magistrato che viola manifestamente la legge o travisa grossolanamente i fatti o le prove è chiamato personalmente a pagare i danni e che si tratta di una modifica incostituzionale. Né l'una né l'altra cosa corrispondono al vero e chi dice il contrario non conosce la legge, o dice consapevolmente il falso.
La categoria interessata dalla recente approvazione della riforma della disciplina del risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e della responsabilità civile dei magistrati sta mettendo in essere una sistematica ed imponente opera di disinformazione per far credere all'opinione pubblica che i magistrati potranno essere chiamati direttamente a rispondere di tasca propria per gli eventuali errori compiuti nell'esercizio delle loro funzioni.
Si cerca, inoltre, di propagandare l'incostituzionalità della nuova disciplina nella parte in cui indica quale fonte di responsabilità il travisamento del fatto e della prova.
Va chiarito immediatamente che l'ampliamento della sfera della responsabilità civile ha riguardato solo lo Stato, mentre quella del magistrato è rimasta immutata: l'azione diretta continua ad essere consentita solo nei confronti dello Stato e perché possa essere esperita l'azione di rivalsa, non solo il magistrato deve avere violato manifestamente la legge o travisato altrettanto macroscopicamente i fatti o le prove, ma deve averlo fatto per un tale profilo di negligenza da essere considerata "inescusabile" (o con dolo, cioè volontariamente e con la consapevolezza di violare la legge) e ciò esattamente negli stessi termini in cui era previsto dalla legge Vassalli.
Nella eventualità in cui ciò dovesse accadere, il limite della rivalsa - a prescindere dall'ammontare del danno cagionato (anche si trattasse di svariati milioni di euro) e dal numero dei danneggiati (anche fossero centinaia di persone) - sarà pari complessivamente alla metà dello stipendio netto del giudice autore del provvedimento (considerando lo stipendio medio di un magistrato, il limite della rivalsa si aggirerebbe intorno alla somma di 25.000 euro), e tale importo potrà essere agevolmente coperto da una polizza assicurativa di circa 200 euro all'anno.
È poi assolutamente conforme ai principi costituzionali la norma che fa sorgere la responsabilità civile dello Stato ove il giudice emetta un provvedimento a seguito del travisamento del fatto o della prova - poiché come osservato dall'Unione delle Camere Penali Italiane in sede di audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati (osservazioni condivise dalla Commissione e riprese espressamente in sede di relazione davanti all'Assemblea parlamentare) - l'unico "travisamento" rilevante, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata, è quello "macroscopico, evidente che non richiede alcun approfondimento di carattere interpretativo o valutativo".
Se il "travisamento" si traduce esclusivamente in un "evidente stravolgimento del dato fattuale" è agevole dimostrare che ci si trova davanti ad ipotesi patologiche che nulla hanno a che fare con la normale interpretazione o valutazione della prova che, diversamente da quanto denunciato dalla magistratura in questi giorni, resta anche per la nuova legge del tutto insindacabile.
La pretesa di porre un tale "travisamento macroscopico" al di fuori di ogni profilo di responsabilità è la pretesa di mantenere i magistrati "legibus soluti", secondo canoni e principi ottocenteschi tipici di stati autoritari, il tutto in danno del cittadino vittima.
Non si può poi dimenticare che è la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ad aver condannato l'Italia proprio perché la legge Vassalli non prevedeva la risarcibilità dei danni procurati da un provvedimento giudiziario reso sulla base del travisamento del fatto o della prova. Era la precedente disciplina, dunque, ad essere incostituzionale, per effetto del recepimento dei principi del diritto europeo attraverso gli artt. 11 e 117 della Costituzione e non certo quella attuale.
Né può dimenticarsi che la stessa legge Vassalli è stata oggetto di condanna proprio perché il risarcimento per responsabilità civile dei magistrati risultava essere "eccessivamente difficile se non impossibile", e pertanto la nuova legge risponde ad una evidente esigenza di tutela dei cittadini danneggiati da macroscopiche violazioni, i quali hanno visto in passato i responsabili di gravi condotte, non solo sottratti a qualsivoglia azione di responsabilità, ma anche beneficiati da avanzamenti in carriera.
Quando, infine, sentiamo affermare dal Presidente di Anm che con questa legge si è inteso "riequilibrare" i rapporti fra magistratura e politica, immaginiamo che il dott. Sabelli sia incorso in un lapsus freudiano capace di svelarci come, anche per lui, tali rapporti siano effettivamente nel nostro paese del tutto squilibrati in favore della magistratura.
di Armando Veneto (Avvocato)
Il Garantista, 27 febbraio 2015
Clamoroso errore della Cassazione, le argomentazioni del ricorso erano inoppugnabili ma non le hanno ascoltate. Questa è la cronaca dettagliata di un piccolo errore giudiziario. È un episodio, a mio parere significativo; e capace di orientare chi vorrà esprimere una opinione informata e responsabile sulla questione della responsabilità civile dei magistrati.
Ometterò data e nomi per ragioni di opportunità e rispetto di chi ha sbagliato e di chi ha subito l'effetto dell'errore; ma i fatti sono questi. Si discuteva in Cassazione il ricorso di imputati condannati per avere coltivato cannabis; si chiedeva l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice di merito perché, essendo intervenuta la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge che equiparava le pene per possesso di droghe pesanti e leggere, venisse ricalcolata la pena e ridotta la condanna, in base alla normativa precedente a quella non più applicabile. Visto che la cannabis è una droga leggera.
Il procuratore generale è d'accordo e concorda con i difensori per l'accoglimento del ricorso sul punto. I difensori intervengono e ribadiscono la fondatezza della tesi: infatti non si può fissare una pena sulla base di una norma non più applicabile. Viene emessa la sentenza e i difensori sono allibiti: il ricorso viene dichiarato inammissibile. Il giorno dopo i condannati vengono arrestati e condotti in carcere.
Ma il giorno stesso del deposito della sentenza, e solo dopo averla firmata, il Presidente del Collegio (anticipando addirittura l'iniziativa della difesa) si avvede che è stato commesso un errore: l'estensore nel motivare la sentenza ha trattato tutti i punti del ricorso, tranne l'unico che "doveva" essere accolto: cioè quello relativo all'annullamento per essere venuta meno la norma applicata dal giudice della condanna.
Comunica il fatto al Procuratore generale e perché lo stesso ricorra al rimedio del ricorso straordinario per errore di fatto e, nel contempo, intervenga per far liberare coloro che sono stati portati in carcere in base ad una sentenza nulla.
Conclusione: dopo oltre un mese e mezzo di detenzione senza titolo valido i ricorrenti vengono liberati; la sentenza dovrà essere emendata, la pena ricalcolata con la prospettiva che gli imputati possano chiedere di non scontarla in carcere. Bene; il lettore potrà dire: tanto rumore per un errore sanato in tempi brevi. C'è di peggio, certo. Ma il problema non è quello di un magistrato, gravato da tanto lavoro, con in testa i problemi che ogni giorno deve affrontare, dimentichi di scrivere in sentenza le quattro parole che servivano per annullare la sentenza impugnata con rinvio allo stesso giudice per ricalcolare la pena.
Il problema sta in queste domande: a cosa pensava il giudice relatore negli oltre 40 minuti nel corso dei quali il Pg e la Difesa chiarivano e spiegavano le ragioni che, senza alternative, imponevano l'annullamento? Ed a cosa pensavano tutti i componenti del collegio quando parevano interessati all'argomento?
Ma soprattutto, come e con quali contributi hanno partecipato alla camera di consiglio? E come mai nessuno di loro, nel licenziare il verdetto di declaratoria di inammissibilità del ricorso si è ricordato che vie era un tema che "doveva" imporre l'annullamento della sentenza? Ed infine: perché mai un errore così madornale non è stato visto prima di rendere pubblica la sentenza e prima di apporre le firme in calce ad essa; e prima di spedire in galera due cittadini? L'attento lettore risponda alle domande che ogni cittadino dovrebbe porsi, e solo dopo, esprima un "consenso informato" a favore del timido accenno alla repressione degli errori in materia di giustizia. Timido, perché ci sarebbe ancora tanto altro da fare.
di Maurizio Caprino
Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2015
Non c'è una legge che imponga una superficie minima da garantire ai detenuti in cella, ma il giudice di sorveglianza può fissarne una: basta che motivi correttamente la sua decisione. È in base a questo principio che la Prima sezione penale della Cassazione, con la Sentenza n. 8568/15 depositata ieri, ha bocciato un ricorso del ministero della Giustizia contro un'ordinanza che prescriveva di garantire al detenuto che l'aveva sollecitata uno spazio di tre metri quadrati, al netto di mobili e servizi igienici.
Il ministero aveva appunto eccepito che i tre metri quadrati non sono un parametro di legge, ma solo un'elaborazione della Corte europea dei diritti dell'uomo (caso Torreggiani contro Italia), mentre la Convenzione europea dei diritti dell'uomo si limita a vietare "trattamenti inumani e degradanti". Inoltre, la superficie andrebbe calcolata comprensiva di mobili e servizi igienici.
La Cassazione nota che in questo caso l'impugnazione è possibile solo per violazione di legge: all'ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza si può applicare l'articolo 71-ter della legge 354/1975. La violazione di legge può consistere solo in motivazione inesistente o "meramente apparente". Ma ciò non è accaduto nel caso in esame, perché il tribunale ha citato la sentenza Torreggiani motivandone correttamente le ragioni e in particolare motivando la necessità di calcolare la superficie al netto di mobili e servizi.
di Luciana Grosso
L'Espresso, 27 febbraio 2015
Dal primo aprile gli ospedali psichiatrici giudiziari dovrebbero lasciare il passo alle nuove strutture "per l'esecuzione della misura di sicurezza". Ma sulla sorte dei malati-detenuti, c'è nebbia fitta e l'unica apparente certezza è che per loro cambierà poco o nulla.
Manca poco più di un mese e poi, il primo aprile, i sei Ospedali psichiatrici giudiziari attivi in Italia chiuderanno per sempre, ultimo capitolo della lunga transizione iniziata nel 1978 con la legge Basaglia. Un passo atteso da tempo e che anzi, avrebbe già dovuto compiersi lo scorso marzo, salvo poi essere prorogato di un altro anno. Nonostante questo, però, sulla sorte dei malati-detenuti, c'è nebbia fitta e l'unica apparente certezza è che per loro cambierà poco o nulla.
Lo scorso 30 novembre, negli Opg italiani, risultavano detenute poco meno di 800 persone, più di 400 delle quali perfettamente dimissibili che, in base a quanto previsto dalla legge 81 del 2014, dovrebbero essere affidati ai dipartimenti di salute mentale delle Regioni di residenza.
Diverso invece il discorso per i non dimissibili, ossia per chi è considerato pericoloso per sé o per gli altri: a loro toccherà il ricovero nelle nuove Rems, residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza, strutture sanitarie che, in teoria, le regioni si sarebbero dovute preoccupare di preparare a partire dal 2008, o costruendole ex novo o riattando strutture esistenti. Solo che non lo hanno fatto.
"Nella migliore delle ipotesi le regioni sono in ritardo, nella peggiore non si vedrà nulla per anni - dice Michele Miravalle di Associazione Antigone, gruppo tra i più attivi nel monitorare la condizione di chi vive in carcere-e il risultato è che oggi, a 40 giorni dall'ora X, di Rems, in Italia, non si vede l'ombra.".
Al ministero, in base a quanto si legge nella relazione trimestrale dello scorso settembre, disponibile sul sito del Ministero della Giustizia, sono arrivati piani, progetti, proposte (per una spesa complessiva di circa 88 milioni di euro) ma i tempi saranno lunghi, tanto che nella relazione stessa si legge testualmente: "Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli OPG, sulla base dei dati in possesso del Ministero della salute appare non realistico che le Regioni riescano a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data".
Quindi se il 31 marzo chiudono gli Opg e il primo aprile non aprono le Rems cosa succederà ai detenuti?
"Niente, o quasi: che le Rems dovessero sostituire gli Opg si sa dal 2008 e le regioni hanno avuto tutto il tempo e le proroghe per mettersi in regola - continua Miravalle - e comunque o non lo hanno fatto del tutto oppure comunque non sono riuscite a rispettare i tempi. E questo comporterà, di fatto, la non chiusura degli Opg che, in buona sostanza rimarranno operativi, sia per i dimissibili che per i non dimissibili, cambiando nome e poco altro, diventando strutture sanitarie e non più detentive, sulla scia di quanto in parte si verifica già da tempo a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia e mettendoci una pezza, anche se le Rems sono e dovevano essere un'altra cosa".
Le Rems, almeno nelle intenzioni, dovrebbero essere strutture molto più piccole, espressamente terapeutiche, e presenti in ogni regione, cosa che evidentemente non sarà se ci si limiterà a un riciclo dei sei Opg esistenti.
E qui arriva il secondo snodo della faccenda, ossia l'intenzione da parte del Ministero della Giustizia di commissariare le regioni inadempienti, "Da parte del Governo - dicono da Via Arenula - c'è la ferma intenzione di dare attuazione concreta e definitiva al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari entro l'annunciato termine del primo aprile 2015, senza ulteriori proroghe. Per questo sarà avviata la procedura di commissariamento per quelle Regioni che non sapranno garantire il completamento delle iniziative necessarie per la presa in carico dei soggetti dichiarati dimissibili e di quelli non dimissibili".
In buona sostanza tutte, o quasi, rischiano il commissariamento ad acta.
"I ritardi - continua, Cesare Bondioli, responsabile Opg per il gruppo Psichiatria Democratica-sono da attribuire a vari fattori, primo tra tutti il fatto che molte regioni hanno presentato dei progetti faraonici che poi, giocoforza, hanno dovuto ridimensionare in corsa. Ad oggi solo quattro Regioni hanno dichiarato di essere in grado di rispettare la scadenza senza ricorrere al privato: Emilia Romagna, Campania, Calabria e Friuli Venezia Giulia, quest'ultima ricorrendo a strutture a gestione mista. Allo stesso modo, però, dieci regioni Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna e la Provincia Autonoma di Trento non sono state in grado di indicare un termine certo per la presa in carico dei propri internati. Una situazione che, anche sulla scia di quanto successo con la chiusura dei manicomi, l'ultimo dei quali ha chiuso i battenti con 20 anni di ritardo sulla Legge Basaglia, non lascia presagire niente di buono".
Forza Italia: no a Rems in centri abitati e strutture ospedaliere
"È evidente che andare oltre l'esperienza degli ospedali psichiatrici giudiziari sia una battaglia di civiltà completamente condivisibile. È però altrettanto evidente che sia una battaglia di civiltà anche quella di non far ricadere le criticità legate a strutture di questo tipo su cittadini, territori e offerta sanitaria. Dunque, il nostro no è fermo e risoluto su ogni proposta di realizzazione di Rems in centri abitati, o che vadano a sottrarre posti letto e infrastrutture alla offerta sanitaria sul territorio, già ridotta all'osso da Zingaretti.
Un no chiaro sia sulla proposta di Rems definitiva a Subiaco che a quella provvisoria - dal valore di 1.345milioni di euro - a Palombara Sabina, proprio perchè non rispondono in alcun modo a questi semplici requisiti di buon senso. Queste strutture saranno oggetto di ampia verifica nella commissione salute di lunedì prossimo: è urgente trovare soluzioni chiare per le residenze, le cui esigenze però devono compenetrare completamente quelle dei territori. Non è pensabile infatti localizzare in un ospedale in un centro abitato reparti dove si scontano vere e proprie pene detentive, nè tantomeno se site a poche decine di metri da una scuola materna. La salute dei detenuti deve essere preservata, è sacrosanto. Non a scapito, però, delle necessità di Subiaco o di Palombara Sabina". Lo dichiarano Antonello Aurigemma e Adriano Palozzi, capogruppo e consigliere FI della Regione Lazio.
Askanews, 27 febbraio 2015
Il Vice Presidente del Consiglio regionale, Lucrezio Paolini, ha visitato questa mattina il penitenziario di massima sicurezza di Sulmona. Le motivazioni della visita sono state due: la necessità di verificare la condizione dei detenuti e del personale del penitenziario e la sicurezza all'interno dell'istituto di pena. "Il carcere di massima sicurezza di Sulmona - spiega il Vice Presidente Paolini - ospita attualmente 500 detenuti e nell'immediato futuro vedrà ampliare la sua capienza di altri 200 unità, questo a fronte di un organico già oggi sottodimensionato.
Alla carenza di personale si deve aggiungere la necessità di potenziamento di strutture giudiziarie, sanitarie e di polizia. Sarà importante quindi l'azione di programmazione della Regione per garantire il necessario supporto. Un altro aspetto è quello della sicurezza: la pericolosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di altri detenuti, attraverso lo sfruttamento del particolare stato psicologico di coloro che entrano nel sistema carcerario, obbliga a porre l'attenzione sul sistema di sicurezza adottato nei nostri Istituti di pena.
Sarà importante che le forze di polizia penitenziaria svolgano un ruolo di controllo e prevenzione e per fare questo devono essere adeguatamente supportate e preparate. In questo momento bisogna dare massima attenzione alla sicurezza dei cittadini". La mattinata si è conclusa con la visita alla sede della Scuola di formazione e aggiornamento del personale di Polizia Penitenziaria.
Lavori ripartiranno in estate
"I lavori per la realizzazione del nuovo padiglione del carcere di Sulmona ripartiranno all'inizio della prossima estate per terminare entro la fine dell'anno". Lo ha annunciato il vicepresidente del Consiglio regionale, Lucrezio Paolini, il quale, accompagnato da Susanna Loriga, vice responsabile nazionale del dipartimento sicurezza dell'Italia dei Valori e dal già vicequestore del Corpo Forestale del Lazio, Lamberto Alfonsi Schiavitti, ha visitato il carcere di Sulmona incontrando il direttore Sergio Romice e i sindacati dei poliziotti penitenziari. Nel nuovo padiglione ci sarà spazio per 200 detenuti che andranno a sommarsi agli attuali 500. "Questo a fronte di un organico già oggi sottodimensionato - ha spiegato Paolini. Alla carenza di personale si deve aggiungere la necessità di potenziamento di strutture giudiziarie, sanitarie e di polizia; sarà importante quindi l'azione di programmazione della Regione per garantire il necessario supporto". Paolini ha sostenuto, soprattutto dopo il colloquio con i sindacati, che "deve essere perfezionato il piano sanitario regionale dell'assistenza penitenziaria su Pescara - precisando che - sulla struttura sanitaria pescarese è previsto un piano che deve servire per ospitare i detenuti di tutti gli istituti abruzzesi, anche di quelli di Sulmona perché l'attuale repertino dell'ospedale peligno non soddisfa le esigenze di salubrità".
Attenzione per indottrinamento in carcere
"Sarà importante che le forze di polizia penitenziaria svolgano un ruolo di controllo e prevenzione per evitare che la pericolosa opera di indottrinamento da parte dei condannati per appartenenza a reti terroristiche islamiche, nei confronti di altri detenuti, possa favorire il loro reclutamento". Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio regionale, Lucrezio Paolini insieme a Susanna Loriga, vice responsabile nazionale del dipartimento sicurezza dell'Italia dei Valori, al termine della visita odierna al carcere di Sulmona. Secondo Paolini "sarà importante che le forze di polizia penitenziaria svolgano un ruolo di controllo e prevenzione e per fare questo devono essere adeguatamente supportate e preparate".
"Nessun caso nel carcere di Sulmona, ma in tutti gli istituti italiani si sta svolgendo un'opera di sensibilizzazione - ha aggiunto Loriga. Servirebbe un maggior coordinamento fra il personale in servizio presso gli Istituti penitenziari e l'intelligence per un rapporto di costante segnalazione ed osservazione dei soggetti a rischio". "I reclutatori hanno costruito una consistente rete di controllo - ha concluso la vice responsabile nazionale del dipartimento sicurezza dell'Idv - e il reclutamento nel carcere esige un sistema di controllo di massimo livello poiché, proprio la popolazione carceraria è più vulnerabile e con una forma mentis predisposta a tale fenomeno di radicalizzazione".
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 27 febbraio 2015
Aperta un'inchiesta sul suicidio di Osas Ake, il 20erme nigeriano che si è impiccato il 14 febbraio scorso all'interno della sua cella del carcere di Piacenza, Da quattro mesi era in carcere in attesa di giudizio, l'accusa era grave: quella di aver violentato e rapinato, in un appartamento della zona-stazione, due donne colombiane. Quando decise di farla finita era in isolamento, ha ritagliato un pezzo della sua maglietta e ne ha ricavato un cappio. Era stato prontamente soccorso dalle guardie penitenziarie, ma niente da fare: dopo quattro giorni di agonia è morto in ospedale.
Il giorno che decise di impiccarsi era avvenuto però qualcosa di particolare. Il giovane nigeriano era andato in escandescenze in un corridoio della struttura piacentina e si denudò, per questo motivo fu punito e rinchiuso in cella di isolamento. Poi la macabra scoperta da parte di un agente carcerario che, per motivi di sicurezza, chiama alcuni colleghi per poi soccorrere il ventenne impiccatosi alla finestra. Come da prassi la Procura ha aperto una inchiesta e disposta l'autopsia per chiare cosa accadde quel giorno, tra l'altro coincidente con un altro detenuto che, senza riuscirci, voleva togliersi la vita. Ciò evidenza l'inferno che si vive in carcere: il tragico gesto del nigeriano è il settimo, dall'inizio dell'anno, nelle carceri italiane.
"Come uomo - spiega l'avvocato Domenico Noris Bucchi alla Gazzetta di Reggio - il suicidio di Osas mi ha turbato non poco. Come suo difensore e come presidente della Camera penale reggiana, questo episodio mi induce ad una riflessione più complessa". L'avvocato continua con il racconto: "Osas Ake aveva vent'anni, non era ancora stato condannato e in attesa del processo si è tolto la vita impiccandosi in una cella di isolamento. Questo è il settimo suicidio in carcere dall'inizio dell'anno. Nel 2014 i suicidi nelle carceri italiane sono stati quasi 50. Un fenomeno che deve fare riflettere tutti noi".
Poi prosegue: "Da anni le Camere Penali denunciano le condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti in Italia. Lo stesso presidente Giorgio Napolitano ha recentemente denunciato pubblicamente questa insostenibile situazione. Tuttavia nessuno fa nulla per, non dico risolvere, ma neppure affrontare, denunciare, questa situazione". L'avvocato Bucchi rilancia: "Ebbene io vorrei approfittare di questa triste vicenda per ricordare a tutti e ribadire ad alta voce che la situazione dei detenuti in Italia è drammaticamente al collasso. Che nessuno ha il diritto di privare un altro uomo della sua dignità. Che anche i detenuti sono uomini e come tali devono essere trattati, Che occorre stimolare le istituzioni ad affrontare questo delicatissimo tema". E conclude: "Se qualcosa, anche poco, si muoverà allora anche il sacrificio umano di Osas Ake non sarà stato vano".
Osas Ake era un clandestino di appena vent'anni totalmente solo, tanto è vero che la notizia della sua morte è arrivata nello studio di Bucchi il quale era il suo unico riferimento in Italia. Non sappiamo se sia innocente o meno, sappiamo solamente che non doveva morire. Ma il sistema penitenziario, di fatto, ha rispristinato la pena di morte. L'emergenza - tra l'altro confermata dai due rapporti internazionali pubblicati oggi su questa stessa pagina de Il Garantista - non è finita.
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