di Monica Guerzoni
Corriere della Sera, 26 febbraio 2015
Basta con i vitalizi agli ex parlamentari condannati, lo scandalo deve finire. Per sbloccare l'impasse che impedisce di annullare un privilegio odioso, il presidente del Senato Pietro Grasso è pronto a ingaggiare un braccio di ferro con i partiti, che trovano ogni scusa per rinviare la soluzione alle calende greche.
E Laura Boldrini sta dalla stessa parte: "Inaccettabile l'erogazione a corrotti e mafiosi" L'inquilino di Palazzo Madama, descritto come "furibondo" dai collaboratori, ieri ragionava ad alta voce: "Sui vitalizi non mi faccio raggirare. Non è possibile che rappresentanti del popolo, poi giudicati indegni, vengano pagati con soldi pubblici da un organo costituzionale che può decidere in modo completamente autonomo". Parole con cui Grasso prova a spazzar via i tentennamenti e le argomentazioni di chi vorrebbe portare il tema nelle aule parlamentari, sfilandolo ai consigli di presidenza e allungando ancora i tempi. È dal 7 giugno del 2014 che il presidente del Senato è in guerra contro i vitalizi "indegni".
Una vicenda che, in soldoni, costa ai cittadini 170 milioni l'anno. Grasso ne fa una questione di onore delle istituzioni e si ripromette di risolverla entro dieci giorni: "Al prossimo consiglio di presidenza la porterò in votazione e ognuno si prenderà la propria responsabilità di fronte all'opinione pubblica". Un affondo contro quei parlamentari che si stanno mostrando meno sensibili al tema, temporeggiando e trincerandosi dietro la "Carta".
La giornata di ieri rivela il braccio di ferro. Da una parte i presidenti di Camera e Senato e dall'altra quei questori, nominati dai partiti, che tirano per le lunghe una istruttoria infinita e che solo martedì sera hanno inviato a Grasso il parere del presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, da loro acquisito il 19 febbraio. Quando la seconda carica dello Stato ha letto l'illustre "parere pro veritate", ha fatto un balzo sullo scranno. Poi, deciso a stoppare il blitz, ha chiamato Laura Boldrini.
La presidente della Camera lo ha raggiunto a Palazzo Madama per un prevertice in cui Grasso ha illustrato ai questori di Camera e Senato il suo contro parere: un testo che fa a pezzi le tesi di Mirabelli e innesca un botta e risposta in punta di Costituzione. Se l'ex vicepresidente del Csm rileva "plurime e rilevanti criticità costituzionali" nel provvedimento, Grasso pensa che le super pensioni dei condannati non siano affatto intoccabili. Punto primo: è "paradossale ipotizzare" che i consigli di presidenza non possano modificare le norme su vitalizi e pensioni, ma serva una legge ad hoc. Punto secondo, "non è fondato il parere del Prof. Mirabelli secondo cui la cessazione dell'erogazione sarebbe assimilabile a una sanzione penale accessoria". Conclusione, "non sussiste un divieto di retroattività".
Firmato, Pietro Grasso. Il contro parere del presidente sarebbe rimasto riservato, se i questori non avessero inviato alla stampa solo quello di Mirabelli, "dimenticando" di diffondere le argomentazioni di Grasso e costringendo fonti di Palazzo Madama e svelare anche il secondo documento interno. "Una doppia scorrettezza", si osserva in ambienti parlamentari vicini a Grasso. A sera i collegi dei questori hanno fatto sapere che, entro il 31 marzo, i segretari generali Pagano e Serafini completeranno l'istruttoria per il "piano operativo", che dovrà "progressivamente" unificare i servizi dei due palazzi: biblioteca, archivio storico, polo sanitario e servizio informatica. La cosa sorprendente è che nella nota dei questori non ci sia una sola parola sui vitalizi.
Massimo Bordin
Panorama, 26 febbraio 2015
Le ultime udienze del processo sulla trattativa Stato-mafia sono state dedicate a un tema molto importante per la struttura dell'accusa, ovvero il brusco ricambio al vertice del Dap, il Dipartimento carceri del ministero della Giustizia, nel giugno 1993.
Il cambio della guardia viene interpretato dall'accusa come necessario per spingere l'allora guardasigilli, Giovanni Conso, a revocare il carcere duro ai capi mafia detenuti: un prezzo pagato dallo Stato per la trattativa. Ed effettivamente Conso alla fine del 1993 revocò il 41 bis a 334 detenuti. Per la verità meno di 30 erano di "Cosa nostra" e nessuno di loro poteva essere definito un capo. Ma il fatto è il vero pilastro dell'accusa.
Sul cambio al vertice del Dap è stato sentito un sacerdote, don Fabio Fabbri, all'epoca segretario di monsignor Cesare Curioni che fu a capo dei cappellani delle carceri. Monsignor Fabbri ha ripetuto ai giudici che fu il presidente Oscar Luigi Scalfaro ad attivare il capo dei cappellani per trovare un sostituto di Nicolò Amato al vertice del Dap. Fu scelto il pio procuratore di Trento, Adalberto Capriotti.
Dunque alla trattativa partecipo' anche la Chiesa e addirittura il presidente della Repubblica? Non è detto. Intanto la sostituzione di Amato è repentina, ma fino a un certo punto. Stava lì da 10 anni e qualche nemico se l'era pur fatto. "È molto intelligente, ma tende a farlo notare" ha detto di lui ai giudici il suo vice al Dap, Edoardo Fazzioli.
Ma soprattutto dalle parole del sacerdote emerge la preoccupazione della Chiesa a proposito di un inasprimento generale delle condizioni carcerarie sull'onda del 41 bis. Il mondo cattolico, da sempre impegnato nelle carceri, voleva che ci fosse una persona di completa fiducia al vertice del Dap per evitare che le misure antimafia cambiassero il clima anche per gli altri detenuti.
Ma questa linea non vinse del tutto, perché a Capriotti venne affiancato come vice Francesco Di Maggio, "uno agli antipodi di Capriotti, che certo non avevamo scelto noi" ha raccontato ai giudici don Fabbri. E così la trattativa anche in questo caso sembra più fra due diverse concezioni del carcere che fra Stato e mafia.
www.quotidianosanita.it, 26 febbraio 2015
Dal prossimo 31 marzo i vecchi Opg saranno definitivamente superati e entreranno in scena le strutture residenziali socio sanitarie (Rems). Nella seduta di domani i provvedimenti che consentiranno il passaggio definitivo. Ospedali psichiatrici giudiziari al countdown: il prossimo 31 marzo 2015 dovranno definitivamente chiudere i battenti.
Sul piatto ci sono oltre 49 milioni di euro che le regioni dovranno dividersi per coprire gli oneri necessari a completare il processo di trasformazione dei vecchi ospedali in strutture residenziali socio sanitarie (Rems). Arrivano quindi domani in Conferenza Unificata i due provvedimenti che consentiranno il definitivo giro di boa.
Il primo "l'Accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari" detta le coordinate per l'attivazione delle strutture residenziali socio sanitarie (Rems) che ospiteranno le persone internate in misura di sicurezza detentiva. Il provvedimento disciplina tutte le fasi necessarie per l'assegnazione delle persone internate alle strutture, regolamenta trasferimenti, traduzioni e piantonamenti, individua il personale deputato al controllo.
In particolare, il ministero della Salute, entro il 15 marzo, dovrà comunicare all'Autorità giudiziaria e al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), l'avvenuta individuazione e l'effettiva attivazione delle Rems. Sarà poi il Dap ad assegnare e trasferire gli internati nelle Rems.
Responsabili delle strutture residenziali sono i direttori sanitari coadiuvati da personale sanitario e amministrativo. L'accordo sarà infine sottoposto a monitoraggio semestrale. Il Riparto dei fondi. Il secondo provvedimento in Unificata è l'Intesa di deliberazione del Cipe concernente il riparto tra le Regioni, per l'anno 2014 dei fondi per il superamento degli Opg - Fsn 2014": in totale 49,120 mln di euro.
Le risorse saranno ripartite per il 50% sulla base della popolazione residente in ciascuna Regione e Provincia autonoma al 31 gennaio 2013, e per il restante 50% sulla base del numero delle persone internate negli Opg sempre al 31 dicembre 2013. L'erogazione delle risorse è subordinata all'approvazione dei programmi regionali già presentati dalle Regioni per il completamento del processo di superamento degli Opg.
di Riccardo Bastianello
Ansa, 26 febbraio 2015
Chiede di non essere dimenticato, che i fari dei media non si spengano, perché lui è innocente, con l'omicidio di Ilaria Alpi non c'entra, con una storia "che mi ha rubato un pezzo di vita". È un gigante di due metri d'altezza Omar Hashi Hassan, il somalo 41enne accusato di essere l'assassino della giornalista Rai e dell'operatore Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Alcune settimane fa il connazionale Ahmed Ali Rege, detto "Jelle", il suo accusatore, ha ritrattato tutto dicendo di essere stato pagato per mentire.
Hassan ha accettato di parlare con l'Ansa mentre si trovava in permesso premio alla casa di accoglienza "Piccoli Passi" di Limena (Padova). "Ho bisogno - dice - del vostro aiuto, sono quasi 16 anni che sono in galera, dimenticato da tutti. Solo grazie al lavoro dei giornalisti la verità sta venendo a galla. Vi chiedo solo, fino a quando non riapriranno il processo, di non dimenticarmi. Questa è l'unica cosa di cui ho bisogno".
Come si sente adesso che la verità sta venendo a galla? "Sono quasi 16 anni - risponde - che sono in carcere, 17 dall'inizio del processo. Un pezzo di vita trascorso in carcere ingiustamente. Dal primo giorno dico a tutti che sono innocente e che i testimoni erano falsi ma nessuno mi ha creduto. Finalmente, grazie a dei giornalisti coraggiosi, ora è chiaro a tutti che dicevo la verità". Ha continuato a sperare per tutto questo tempo o si era ormai rassegnato ad una carcerazione ingiusta? "Il carcere è sempre brutto, anche se si è colpevoli. Ma starci da innocente è tremendo. La preghiera e il coraggio mi hanno sostenuto, la fiducia che un giorno Dio avrebbe visto la verità. Avevo una sola speranza: che prima o poi arrivasse una persona coraggiosa a svelare l'inganno. Questa era la mia unica possibilità e non dimenticherò mai chi mi sta aiutando". Perché, secondo lei, Rage ha mentito?
"Lui ha detto che era stato pagato ma non so chi e perché. Purtroppo in Somalia c'era la guerra civile e bastava offrire qualche soldo a qualcuno e chiunque avrebbe detto qualsiasi cosa". Riesce ad immaginare chi possa averlo pagato e perché? "Non ho idea veramente, solo lui lo sa". È tutta colpa di Rege quindi o sono stati commessi altri errori in questa vicenda?
"Sì, quelli del pm. Il pm non è giudice ma è la pubblica accusa. Quindi quando raccoglie una informazione non dovrebbe poter condannare nessuno sulla base della dichiarazione di una persona che non conosce nemmeno. È una cosa illegale. Eppure a me è capitato proprio questo". La politica ha fatto qualcosa in questi anni per aiutarla?
"La politica mi ha abbandonato. Non parlatemi dei parlamentari. Avevano fatto una commissione parlamentare di inchiesta nel 2004 e Taormina e Bindi avevano detto che appena finita la commissione avrei potuto chiedere la revisione del processo. Entrambi mi hanno anche mostrato la registrazione audio con le dichiarazione di Jelle che provavano che lui aveva detto il falso. Erano loro gli unici che poteva fare qualcosa ma visto che sono extracomunitario e non conto niente, allora non hanno fatto niente".
Sarebbe andata diversamente se fosse stato italiano? "Certo. Non possono condannare una persona sulla base di una dichiarazione falsa. Se ero italiano o europeo questo non succedeva. Come può accadere una cosa del genere? Purtroppo il governo in Somalia non c'è e nessuno ha potuto parlare con il governo italiano. E questo ha complicato le cose".
C'è stato qualcuno che le ha creduto in questi anni? "La mamma di Ilaria Alpi mi ha aiutato. Chiedevo spesso un permesso premio al magistrato di sorveglianza, ma è difficile concederlo quando sei accusato di un reato come questo. Nel 2013 la mamma di Ilaria ha mandato una lettera al magistrato e l'ha convinto. Ero in questa stessa stanza il 30 aprile 2013, dopo 14 anni di prigione ero fuori per qualche ora e la prima persona che ho chiamato non è stata mia mamma, ma la mamma di Ilaria. Questa è l'unica possibilità che ho avuto dall'Italia".
Ora cosa spera? "Mi mancano due anni e mezzo al 5 dicembre 2017 quando finirò la pena. Spero che tutto finisca presto. Solo Roma può fare qualcosa. Il procuratore Pignatore può fare qualcosa, è in gamba e spero tanto in lui". Una volta libero cosa farà? "Tornerò in Somalia a recuperare il tempo perduto. Ho nipoti che non ho mai visto, ho perso due sorelle, una sgozzata nel corso di una rapina, l'altra a causa di una complicazione nel parto, e non ho potuto dirle addio. A quest'età avrei dovuto avere una famiglia. La mia vita è finita a 24 anni quando mi hanno arrestato. Ora ne ho 41. Mi hanno rubato un pezzo di vita".
Ansa, 26 febbraio 2015
Per ora Massimo Bossetti, il muratore di Mapello indagato per l'omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, deve rimanere in carcere. Lo ha deciso la Prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Renato Cortese, respingendo il ricorso presentato dall'avvocato Claudio Salvagni, difensore di fiducia dell'indagato che si trova in custodia cautelare dallo scorso 16 giugno. Anche la Procura generale della Cassazione, rappresentata dal sostituto procuratore Oscar Cedrangolo, aveva chiesto il rigetto del reclamo di Bossetti e la conferma della misura detentiva.
A quanto si è appreso dall'avvocato Salvagni, il Pg Cedrangolo avrebbe svolto una requisitoria "molto articolata e, anche se ha chiesto il rigetto del nostro ricorso, ha però sottolineato come fosse condivisibile l'eccezione procedurale da noi avanzata sulla inutilizzabilità dell'accertamento del Ris sulle tracce del Dna trovate sui leggins di Yara". Sempre in base a quanto dichiarato da Salvagni al termine dell'udienza, il Pg non avrebbe "speso una parola sulla pericolosità di Bossetti". Il prossimo colloquio tra il difensore e il suo assistito, ha detto infine Salvagni, rispondendo alle domande dei cronisti, ci sarà solo dopodomani, venerdì. Solo allora, Bossetti verrà informato nel dettaglio dal suo legale sull'esito dell'istanza che aveva presentato alla Suprema Corte.
Per quanto riguarda le motivazioni in base alle quali la Prima sezione penale della Cassazione ha emesso il suo verdetto, il deposito dovrebbe avvenire entro trenta giorni, stando ai tempi consueti, probabilmente anche prima. L'estensione della sentenza è stata affidata al consigliere relatore Alessandro Centonze che, in camera di consiglio, a porte chiuse, ha introdotto la vicenda parlando per circa mezz'ora. Poi ha lasciato la parola al Pg Cedrangolo per circa venti minuti, e altrettanti ne sono stati concessi alla difesa di Salvagni. Complessivamente l'udienza del caso Yara è durata circa un'ora e un quarto.
In particolare, con la decisione della Suprema Corte è stata confermata l'ordinanza con la quale il Tribunale della libertà di Brescia, lo scorso 14 ottobre, aveva convalidato la misura cautelare, come in precedenza stabilito dal gip di Bergamo Ezia Maccora con provvedimento del 15 settembre 2014. L'udienza si è svolta con rito camerale alla sola presenza dei giudici, del Pg e del difensore di Bossetti come avviene per tutti i ricorsi sulle misure cautelari.
L'altro ieri, la sorella gemella di Bossetti, Laura Letizia, è stata brutalmente picchiata da due individui incappucciati ed è stata ricoverata in ospedale con tre costole rotte e un trauma cranico. È la seconda aggressione che la donna subisce da quando il fratello è indagato. Bossetti non è stato ancora rinviato a giudizio e sperava, come ha scritto recentemente in una lettera resa pubblica, di poter ottenere la concessione degli arresti domiciliari.
Adnkronos, 26 febbraio 2015
Tornano a crescere, dopo mesi ininterrotti di calo, le presenze di detenuti nelle carceri della Regione Lazio. Il 23 febbraio 2015 i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione erano 5.702, 83 in più rispetto alla rilevazione diffusa dal Dap lo scorso 22 gennaio ed addirittura 102 in più rispetto al 31 dicembre 2014. Lo rende noto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando i dati del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria.
Anche se, rispetto ad un anno fa, le presenza fanno registrare un - 1.150 (la rilevazione del 4 febbraio 2014 indicava, infatti, 6.856 presenze) per il Garante la novità più rilevante che emerge dalle statistiche del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria è che, "in questo inizio di 2015, si è avuta una inversione di tendenza, con un piccolo ma costante aumento dei reclusi nelle carceri. I numeri restano decisamente lontani dalle medie registrate fino a due anni fa ma, certo, questa tendenza rappresenta un piccolo campanello d'allarme, anche perché il sovraffollamento fa sempre segnare un + 600 presenze rispetto alla capienza regolamentare degli istituti regionali, fissata dal Dipartimento a quota 5.114".
A livello nazionale, il Lazio si conferma al quarto posto nella graduatoria delle Regioni italiane con il maggior numero di detenuti dietro Lombardia con 7.875 presenze, Campania con 7.314 e Sicilia con 5.888). Dai dati regionali emergono ulteriori spunti di riflessione. Torna, infatti, a salire la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio definitivo: nel Lazio attualmente sono 2.172, il 38,09% del totale, contro il 37,39% di un mese fa. Nel dettaglio, 1.206 sono i reclusi in attesa di giudizio di I grado, e 1.146 i condannati non definitivi. I condannati definitivi sono invece 3.511, il 61,57% (contro il 62,34% di un mese fa).
Ansa, 26 febbraio 2015
"Approvato il decreto per l'indizione del primo concorso pubblico dopo 8 anni, destinato all'assunzione di 132 tra medici, infermieri e personale tecnico della riabilitazione. Il Commissario ad acta Nicola Zingaretti ha firmato questa mattina l'atto che autorizza il concorso per reperire il personale necessario al funzionamento delle sedi provvisorie e definitive delle strutture residenziali socio assistenziali Rems, che nascono per superare gli Opg". Lo comunica, in una nota, la Regione Lazio.
"Con questo atto il Lazio - spiega la nota - ottempera ad una legge dello Stato e ad una norma di civiltà in linea con il definitivo accordo nella Conferenza unificata Stato Regione che si terrà domani. Si tratta di un concorso pubblico destinato a medici, psicologi, infermieri, tecnici della riabilitazione psichiatrica, amministrativi, assistenti sociali e operatori socio sanitari. In particolare 54 saranno assunti per la Asl Roma G (Tivoli Monterotondo), 54 per la Asl di Frosinone, 24 per quella di Rieti ,per un totale di 132 unità.
Le Rems provvisorie saranno a Palombara Sabina e Pontecorvo i cui lavori sono già in corso, mentre quelle definitive saranno a Subiaco a Ceccano ed a Rieti andrà il reparto che ospiterà le donne". "Nei prossimi giorni - conclude la Regione Lazio - attiveremo le procedure previste dal decreto ministeriale dell'1.10.2012 circa specifici accordi con le Prefetture per garantire adeguate misure di sicurezza e vigilanza. È stato inoltre approvato il decreto che assegna a tutte le aziende sanitarie fondi per il potenziamento dei servizi dei Dsm (Dipartimenti salute mentale) e del personale per il potenziamento dell'articolazione sanitaria per oltre un milione di euro".
di Maria Teresa Martinengo
La Stampa, 26 febbraio 2015
Lo dice una ricerca dell'Università di Torino presentata al convegno "Guardiamoci dentro" promosso dalla Compagnia di San Paolo. La Compagnia di San Paolo e l'Ufficio Pio sono impegnati in vari progetti per restituire dignità e prospettive di futuro alle persone con trascorsi penitenziari
Il convegno nazionale "Guardiamoci dentro", ampia riflessione sul carcere in Italia promossa dalla Compagnia di San Paolo e dall'Ufficio Pio, si è aperto al Campus Luigi Einaudi dell'Università con la presentazione del Progetto Logos per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti in uscita, da dieci anni sostenuto dalla Compagnia e seguito dall'Ufficio Pio, e di una ricerca sui percorsi delle persone con trascorsi penitenziari, sui tassi di recidiva e sull'impatto di Logos.
Lo studio, condotto dall'Università di Torino e dall'Osservatorio nazionale sulle condizioni detentive in Italia dell'Associazione Antigone, ha analizzato i fascicoli di 458 persone. Inoltre, sono state condotte 40 interviste sulle prime esperienze lavorative, sui rapporti con la famiglia e con i servizi sociali locali. "I colloqui - ha spiegato il professor Claudio Sarzotti, che con Daniela Ronco e Giovanni Torrente ha coordinato lo studio - descrivono a volte con toni drammatici il quadro socio-economico in cui i percorsi di reinserimento si svolgono: un quadro che chiama in causa il sistema Paese, con una quota sempre più ampia di cittadini che faticano ad essere riconosciuti come tali".
La ricerca mostra come la percentuale di recidiva media fra coloro che hanno seguito per intero il progetto Logos - che offre ai detenuti a fine pena un sostegno per raggiungere l'autonomia e il reinserimento sociale - nei 7 anni presi in esame (2007-2014), è del 23,20%; ben 15 punti in meno del miglior dato nazionale ad oggi disponibile sui fruitori di indulto, ma soprattutto ben 45 punti inferiore rispetto alla recidiva ordinaria rilevata dall'Amministrazione penitenziaria (68,45%).
Al contrario, coloro che non hanno terminato il progetto Logos - a causa di interruzione o abbandono - mostrano un tasso di recidiva più elevato, del 44,5%.
Il professor Sarzotti ha sottolineato come dalle interviste emerga la volontà degli ex detenuti di lavorare onestamente, ma che sotto la soglia della sopravvivenza le persone siano disposte a praticare "strategie di sopravvivenza" che spingono nuovamente all'illegalità. E ha citato passaggi di testimonianze. "Vivo con mia madre con una pensione di 280 euro al mese", ha detto un uomo.
E un altro: "Non ho mai i soldi per portare mia figlia a mangiare una pizza. Ha 14 anni, vede le amiche andare in piscina, lei non può. Ma che vita le sto facendo fare?". Un terzo: "Quando mio padre non ci sarà più con la sua pensione, io andrò sotto i ponti". Il quarto: "Se non riesco a trovare lavoro, a casa cosa porto da mangiare? Procurarsi dei soldi è dura se non hai nessuno...".
Nell'ambito delle iniziative a favore della popolazione carceraria, l'impegno della Compagnia di San Paolo conta interventi che arrivano complessivamente a 13,4 milioni di euro, di cui 6 investiti tra il 2011 e il 2014 con Progetto Libero che mira all'impegno prioritario del recupero dell'autonomia e di una qualità di vita accettabile per i detenuti e per le loro famiglie con lavoro, sport, ascolto, formazione, esigenze primarie, genitorialità e famiglia, oltre a lavori di ristrutturazione dei locali del carcere. L'Ufficio Pio, poi, ha assegnato oltre 2 milioni per Logos. "La missione della Compagnia è lo sviluppo della comunità nel suo insieme. Il mondo carcerario ne fa parte a pieno titolo e le sue sorti riguardano tutti, anche chi sta "fuori". Garantire un adeguato livello di dignità a queste persone è un dovere morale e un principio sancito dalla nostra Costituzione", ha detto il presidente della Compagnia di San Paolo Luca Remmert, introducendo il convegno, che prosegue oggi nel Foyer del Teatro Regio alla presenza del vice ministro Enrico Costa, ha dichiarato.
Progetto Logos: con reinserimento meno recidive
Aiutare il reinserimento sociale degli ex detenuti è indispensabile per ridurre notevolmente le probabilità che ritornino a delinquere. A sostenerlo i partecipanti al convegno "Guardiamoci dentro", aperto oggi a Torino al Campus Luigi Einaudi e che continua domani alla presenza del viceministro Enrico Costa. Organizzato dalla Compagnia di San Paolo, è stato l'occasione per riferire i risultati del Progetto Logos, nato nel 2003 su iniziativa della Compagnia in collaborazione con l'Ufficio Pio, con l'obiettivo di offrire ai detenuti a fine pena un sostegno per raggiungere l'autonomia.
Lo studio, condotto dall'Università di Torino e dall'Osservatorio nazionale sulle condizioni detentive in Italia dell'Associazione Antigone, ha analizzato i fascicoli di 458 persone inserite nel progetto Logos tra il 2007 e il 2014. La ricerca mostra come la percentuale di recidiva media fra coloro che hanno seguito per intero il progetto Logos, nei 7 anni presi in esame (2007-2014), è del 23,20%, pari a 15 punti in meno del miglior dato nazionale ad oggi disponibile sui fruitori di indulto (38,11%) e 45 punti inferiore rispetto alla recidiva ordinaria rilevata dall'Amministrazione penitenziaria (68,45%).
Del 44,5% è il tasso di recidiva si coloro che non hanno terminato il progetto Logos. "Siamo convinti - ha detto il presidente della Compagnia di Sam Paolo, Luca Remmert - che offrire ai detenuti e alle detenute adeguate opportunità per riabilitarsi, per acquistare o riacquistare dignità e onore, pur nella severità necessaria e imprescindibile della pena, contribuisca in modo concreto e duraturo alla sicurezza sociale e di conseguenza al beneficio di tutta la comunità".
di Arianna Giunti
L'Espresso, 26 febbraio 2015
Nell'inchiesta, nata dalla denuncia di alcuni carcerati che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra della polizia penitenziaria, coinvolto anche un medico. Quattro agenti indagati e un medico nei guai. Sta dando i primi frutti la complicata inchiesta sui pestaggi avvenuti nella "cella zero" del carcere di Poggioreale, nata dalla denuncia di alcuni detenuti ed ex detenuti, che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra di agenti della polizia penitenziaria, nel buio di una cella al piano terra del penitenziario napoletano.
I procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppe Loreto e il pm Alfonso D'Avino hanno iscritto nel registro degli indagati quattro agenti della polizia penitenziaria, che ora non sono più in servizio a Poggioreale. Mentre rimane pendente una denuncia nei confronti di un medico del carcere, accusato da uno dei detenuti di non averlo neppure visitato, facendo finta di nulla quando lui si è presentato in infermeria con lesioni tipiche da pestaggio.
Le indagini stanno andando avanti in silenzio e non senza difficoltà, tanto che i magistrati napoletani hanno dovuto chiedere una proroga di sei mesi, in modo da rintracciare testimoni e altre probabili vittime che, nel frattempo, sono stati trasferiti in altri istituti di pena. Intanto, le denunce dei detenuti sono arrivate a quota 150. Sospetti abusi di potere che anche l'Espresso aveva denunciato, raccogliendo le testimonianze dei detenuti.
Secondo i loro racconti, nell'istituto partenopeo che all'epoca dei fatti - nel gennaio 2014 - era il penitenziario più sovraffollato d'Europa, un manipolo di agenti della polizia penitenziaria, che si faceva chiamare "la squadretta della Uno Bianca", commetteva abusi di potere e feroci pestaggi nei confronti dei detenuti (soprattutto stranieri o in attesa di giudizio) che venivano portati in una cella vuota e priva di telecamere, denudati, picchiati e infine minacciati perché non rivelassero a nessuno quello che era successo.
Qualcuno, però, ha trovato il coraggio di parlare. Prima con il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, che ha inoltrato un dossier alla Procura. E poi con gli stessi magistrati, che ancora in questi giorni stanno incrociando testimonianze e ricordi, andando a ritroso nel tempo e cercando di rintracciare anche detenuti che nel frattempo hanno lasciato il carcere o sono stati trasferiti in altri istituti, cercando di abbattere quel muro di paura e omertà che si sarebbe creato a Poggioreale.
I ricordi di quelle violenze sono ancora ben impressi nella mente di uno dei detenuti, R.L., uno dei primi ad aver sporto denuncia in Procura, che oggi racconta a l'Espresso: "Mi ricordo ancora come fosse ieri, era il luglio del 2013. Mentre mi portavano in quella cella uno degli agenti si sfregava le mani e si toglieva gli anelli, poi continuava a ripetermi: 'Tu sei una brava personà. E più me lo diceva più io tremavo, perché capivo che stava per succedermi qualcosa". I dettagli, agghiaccianti, concordano con quelli degli altri detenuti: "Una volta arrivato nella cella, gli altri agenti quando mi hanno visto hanno detto: "E chi è 'sta munnezza?" Poi mi hanno fatto spogliare completamente nudo. E sono iniziate le botte".
L'uomo - che era finito in carcere per una vicenda di ricettazione e che oggi ha scontato la sua pena - elenca anche altri dettagli, pure questi finiti sul tavolo del magistrati: "Le vittime di questi pestaggi erano soprattutto stranieri, o comunque persone normali, senza grossi curriculum criminali. Prima di pestare un detenuto, andavano a vedere nei registri chi era e cosa aveva fatto. Non si azzardavano a picchiare i camorristi, per paura di vendette e ritorsioni".
Nel mirino dei magistrati però non sono finiti solo gli agenti della penitenziaria ma anche un medico, che avrebbe dovuto denunciare d'ufficio le botte subite dai carcerari, e invece non lo avrebbe fatto. "Quando mi sono fatto visitare in infermeria avevo paura a raccontare di essere stato vittima di un pestaggio, però le botte sul mio viso e sul corpo erano inequivocabili - racconta oggi a l'Espresso l'ex detenuto - Ma lui senza neppure visitarmi ha detto: "Torni pure in cella, è tutto a posto". "In quella cella mi hanno umiliato, mi hanno ferito. Mi hanno annullato come essere umano".
Accuse pesantissime che devono ancora essere dimostrate. Certo è che la notizia di questa svolta nell'inchiesta sembrerebbe aver dato ragione all'ex detenuto Pietro Ioia, uno dei primi a parlare dell'esistenza della "cella zero", che oggi fa parte dell'associazione ex detenuti napoletani: "Qualcosa si sta muovendo, dopo anni di silenzio su quello che succedeva in quel carcere. Ora chi ha sbagliato deve pagare. Non dimentichiamoci mai che il carcere deve essere un luogo di recupero per chi sbaglia, non di tortura".
E qualche effetto positivo, questa inchiesta, l'ha avuto: dopo un'ispezione, sono cambiati i vertici dell'istituto e della polizia penitenziaria e il clima a Poggioreale è decisamente migliore. "Con l'apertura delle celle e l'aumento di varie attività nel carcere - conferma il garante dei detenuti Adriana Tocco - non sto ricevendo più denunce, né verbali, né scritte per abusi e violenze".
di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro")
www.huffingtonpost.it, 26 febbraio 2015
Nel carcere di Pescara sta per partire La Città, progetto sperimentale dell'Associazione Voci di dentro per "trasformare" un pezzo del carcere in un "luogo di senso" dove alcune delle persone detenute (una quarantina in una prima fase) "potranno vivere lo spazio e il tempo come si vive lo spazio e il tempo del mondo libero". Sono mesi che ci lavoriamo, siamo a un buon punto: in accordo con la direzione dell'Istituto, al secondo piano di un capannone esterno alla zona delle celle, ma sempre dentro il carcere, in un'area di circa 500 metri quadrati, i detenuti della redazione di Voci di dentro, i volontari dell'associazione, un gruppo di psicologi e sociologi dell'Università D'Annunzio di Chieti e gli ingegneri di Viviamolaq (gli stessi che a L'Aquila hanno realizzato Parcobaleno a Santa Rufina, Restart in piazza San Basilio ecc.) tutti insieme abbiamo ridisegnato, dipinto e arredato cinque grandi stanze, un salone e un ampio corridoio. Colori alle pareti, scaffali, e tavolini (tutti realizzati in arte povera) stanno trasformando lo spazio per renderlo uno scampolo di città con la sua piazza, la sua strada, le sue scuole, i suoi servizi ricreativi e culturali, la biblioteca, l'azienda, l'area artigianale... (Per chi ci vuole dare una mano è stata anche avviata una raccolta fondi).
Nulla di eccezionale. È il naturale sviluppo del lavoro e delle attività portate avanti da oltre otto anni dall'Associazione Onlus Voci di dentro negli Istituti penitenziari di Chieti, Pescara, Vasto e Lanciano; è il superamento della formula dei tanti corsi che si fanno nelle carceri e che, come abbiamo ben visto, il più delle volte vengono abbandonati a metà percorso e frequentati dai detenuti solo in vista del giudizio dell'area educativa del carcere così da ottenere qualche beneficio o permesso premio in più. La Città è un esperimento pilota per cercare di concretizzare quello che indicano i più avanzati modelli architettonici per le prigioni e le stesse linee guida vecchie di qualche decennio delle Commissioni europee che si occupano di sistemi penitenziari e che prevedono appunto l'organizzazione delle strutture carcerarie come il mondo di fuori.
Realizzata la struttura (in parte), ora siamo alla messa a punto del contenuto: concretamente prevediamo di collocare ne La Città degli spazi di vita che abbiamo suddiviso in spazi lavoro, comunicazione, studio-formazione, creativo individuale, hobby-svago. Nuovi spazi dunque all'interno dei quali i detenuti, nei limiti imposti dalla sicurezza e secondo tempi e modalità concordate con l'amministrazione penitenziaria, potranno accedere e muoversi liberamente. Inizialmente mezza giornata, ma l'intento è di usare questo spazio tutta la giornata così da poter rendere effettivo l'articolo 6 dell'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354) che distingue chiaramente la cella per il pernottamento dai locali per le attività.
Spazi che noi intendiamo come luoghi di vita dove i detenuti poco alla volta si riappropriano del sapere, della conoscenza, di valori. Delle regole. Attivi e non passivi. E inevitabilmente, luoghi che cambiano anche i volontari: non più attori che si muovono individualmente guidati da una personale motivazione, ma parte di un processo che coinvolge in ugual misura le persone detenute e quelle non detenute. Tutti insieme impegnati, in grande sintesi
1. nello spazio lavoro ovvero nelle attività di digitalizzazione già avviate dalla cooperativa Alfachi (nata sempre dall'associazione Voci di dentro), attività retribuite con obblighi e doveri in tutto e per tutto identici a quelli di qualunque lavoratore;
2. nello spazio comunicazione dove si realizza la rivista Voci di dentro, rivista e luogo di lavoro contro gli stereotipi e la spettacolarizzazione degli avvenimenti con una visione critica e aperta alle diverse culture e tradizioni;
3. nello spazio studio-formazione con corsi di italiano, lingua, scrittura creativa, informatica, e più in generale corsi professionali in collegamento diretto col mondo del lavoro;
4. nello spazio studio creativo individuale (La biblioteca);
5. nello spazio hobby-svago.
In sostanza immaginiamo che ci sarà ad esempio chi lavorerà presso la cooperativa e poi avrà un momento di relazione sociale e di svago; oppure ci sarà chi si inserirà nella formazione e poi accederà all'area sociale e successivamente a quella di svago ed infine chi dedicherà il suo tempo all'impegno sociale con le attività redazionali dell'associazione Voci di dentro per poi passare all'area sociale e a quella di svago. Questo dal lunedì al venerdì. Nelle giornate del sabato e della domenica, ove e quando possibile, si prevede inoltre l'incontro e il confronto: in sintesi si prevedono momenti di incontro con la realtà esterna attraverso convegni culturali su temi di rilevanza sociale, proiezione di film, dibattiti.
L'idea è quella di far entrare ne La Città tanti altri detenuti. Pensiamo di poter fare questo inglobando altri spazi uguali ed estendere il progetto (se possibile) anche ad altri locali e ai cortili immaginando la possibilità che tutto il carcere diventi La Città fino alla dissoluzione di quel muro che isola, chiude, costringe. Un muro che blocca nel tempo corpi e menti, immobili e fissi come statue al momento del loro primo ingresso fino alla fine della pena, luogo senza senso che elimina per sempre (tranne qualche piccola eccezione) ogni possibilità di cambiamento: la prova è la realtà delle carceri "abitate" sempre dalle stesse persone che vi entrano, vi escono e vi rientrano negli anni e sempre uguali.
L'obiettivo è chiaro: dare orizzonti e futuro a delle persone che vivono in un tempo e in uno spazio morti, oggetti invece che soggetti, ridotti all'unica funzione che è quella di detenuti. Non persone. Come se la pena fosse in realtà una pena a vita. Marchiati a vita al punto che quell'abito non riescono più a toglierselo di dosso. Per chi non sa cos'è e cosa fa un carcere. Per chi non sa come si vive in un carcere posso raccontare a titolo di esempio che i detenuti abituati per mesi, anni, a passeggiare all'aria avanti e indietro in uno spazio di trenta passi (da una parte all'altra del muro) quando si troveranno a passeggiare in un corridoio facciamo di 100 metri faranno sempre gli stessi trenta passi e poi torneranno indietro. Non so se ho reso l'idea, ma a me ha sempre fatto una grande impressione vedere cose così, vedere uomini-automi che in quel tragitto di pochi metri avanti e indietro, come mi è stato detto, parlano del passato, della rapina mancata... Non persone, ma corpi (per dirla alla Foucault che ho riletto in questi mesi), corpi sgangherati e strappati che in questa tappa carceraria non riescono più a cambiare pelle...incapaci di pensare al dopo, appunto al futuro. A costruirlo diverso dal passato.
Per questo abbiamo avviato la realizzazione de La Città. Con un occhio al fuori contro "il tempo vuoto, il tempo nemico, contro la galera che denuda e uccide" come ha detto Alberto Magnaghi, professore ordinario di pianificazione territoriale finito in carcere nel '79, per tre anni, nell'ambito dell'inchiesta 7 aprile, presentando poche settimane fa la nuova edizione del suo libro Un'idea di libertà. Un libro che consiglio perché mostra bene come il carcere, come la costrizione in uno spazio limitato arrivi a sconvolgere lo spazio interiore, di alterare le percezioni, condizionare ricordi, storie, presente e futuro. Fino a imprigionare il detenuto in un doppio carcere: quello visibile fatto di mura e celle e quello invisibile che vive dentro la persona detenuta e che si allarga fino ad uccidere l'idea stessa di uomo.
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