di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 18 ottobre 2019
L'ultimo atto di Raffaele Cantone alla guida dell'Authority : da Nord a Sud, 117 arresti in tre anni. A Monza i rivenditori di protesi pagavano i medici di base che reclutavano pazienti e chirurghi che installavano i loro prodotti, mentre visite e prescrizioni dell'ortopedico venivano retribuite "in nero"; a Trecastagni, in provincia di Catania, un funzionario comunale ha disegnato il bando per raccogliere e smaltire rifiuti "su misura" della ditta che ha vinto l'appalto, in cambio dell'assunzione del figlio e altre due persone, più 3.000 euro ogni volta che i pagamenti alla ditta superavano i 40.000.
A Trento alcuni dipendenti della Asl "soffiavano" i requisiti stabiliti dalla gara per far vincere l'impresa amica, in cambio di mazzette da 5.000 e 20.000 euro, mentre a Benevento il dirigente comunale leggeva le offerte contenute nelle buste chiuse con una microtelecamera, per poi spifferarle alle aziende amiche che così presentavano proposte più vantaggiose, e con questo giochino guadagnava dal 5 al 7 per cento su ogni lavoro assegnato.
Un dirigente Anas di Roma s'è fatto promettere e consegnare da un imprenditore almeno 450.000 euro mascherati da pagamenti per consulenze private; invece un funzionario del Comune di Monteparano, in provincia di Trapani, ha dato il via libera alla costruzione abusiva di un centro per anziani in cambio dell'assunzione della moglie in quell'attività. A Bolzano il direttore dell'ufficio edilizia dell'ospedale frazionava gli appalti per favorire alcune aziende, in cambio di denaro ma anche lavori di ristrutturazione, tinteggiatura, falegnameria, traslochi e altri favori.
A volte dietro la corruzione si nascondono piccole miserie, che svelano un Paese impoverito al punto che il prezzo per vendere le proprie funzioni si riduce a pochi soldi o qualche posto di lavoro per familiari o amici. È ciò che raccontano i casi raccolti nel rapporto dell'Autorità anticorruzione che Raffaele Cantone ha confezionato come ultimo atto prima del rientro in magistratura: i 117 arresti (si tratta dunque di accuse, prima delle verifiche nei processi) eseguiti tra il 2016 e il 2019 significano all'incirca uno ogni 10 giorni, e Cantone denuncia che nonostante questa media "la corruzione sembra sparita dall'agenda politica, è scomparsa dai riflettori, non se ne parla quasi più". Forse è uno dei motivi per cui ha deciso di lasciare, durante il governo Lega-5 Stelle, prima della scadenza naturale del mandato.
Sebbene più della metà degli episodi contestati dalla magistratura siano concentrati nelle quattro regioni meridionali a più alta concentrazione criminale, la corruzione resta un'emergenza nazionale che attraversa la penisola da nord a sud, con il Lazio al secondo posto e la Lombardia al sesto. "Al sud c'è una corruzione più pulviscolare, al nord è di maggiore qualità e quantità", spiega Cantone. E le nuove caratteristiche sociologiche del fenomeno, le forme mutate di remunerazione delle attività illecite, spiegano l'evoluzione del Paese anche sotto questo profilo.
Rispetto al passato e alla Tangentopoli scoperta negli anni Novanta ("realtà imparagonabile, la situazione è certamente migliorata, il quadro di oggi resta preoccupante ma non devastante come allora", dice l'ormai ex presidente dell'Anac) la burocrazia dei dirigenti e funzionari, dei dipendenti e commissari, ha superato la classe politica; sebbene sindaci, vicensindaci, assessori e consiglieri comunali siano quasi un quarto degli arrestati. Che a volte creano un vero e proprio sistema. Come in Veneto, dove la richiesta di tangenti tra il 10 al 20 per cento su ogni pagamento per la manutenzione del verde pubblico sperimentata a Montegrotto Terme è stata "esportata" ad Abano Terme, e ripristinata a Montegrotto dove - secondo le accuse - per gli importi più ingenti, dai contanti si era passati a fatture per una società gestita dall'ex sindaco.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 18 ottobre 2019
Interrogazione di Roberto Giachetti, dopo l'articolo de "Il Dubbio". Le presunte violenze e degrado del carcere di Agrigento "Petrusa" riportate da Il Dubbio, arrivano in Parlamento grazie al l'interrogazione a risposta scritta depositata mercoledì scorso dal deputato e membro di "Italia Viva" Roberto Giachetti.
Su Il Dubbio abbiamo raccontato del la visita effettuata il 17 agosto scorso da una delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini e dell'Osservatorio carceri delle Camere penali. In particolare si faceva riferimento alla situazione riscontrata nella sezione isolamento e puntualmente relazionata al Dap.
Le maggiori criticità strutturali riscontate riguardano ad esempio le finestre di molte camere detentive, oltre alle sbarre, alle quali sono applicate reti a maglia stretta che limitano l'ingresso di aria e luce naturale. In molte celle, durante la visita, il blindo della porta è chiuso. I sei piccoli cortili passeggio di cui dispone il reparto sono spazi squallidi, con il wc alla turca, sprovvisti di panchine.
Roberto Giachetti, nell'interrogazione, riporta anche i casi di presunta violenza da parte degli agenti penitenziari. In questa sezione, infatti, molti detenuti denunciano di aver visto, e in alcuni casi di avere subito, comportamenti violenti da parte degli agenti di polizia penitenziaria.
"Gli agenti ti stuzzicano per farti sbagliare e poi ti alzano le mani, qui c'è la squadretta che alza le mani con i manganelli, qui ti lasciano notti e notti all'aria con le manette", riferisce un detenuto. Un altro ancora riferisce la stessa identica situazione. Altri chiedono di andare via.
"Quello che io ho visto qua non l'ho visto da nessuna parte, e ne ho girati istituti in tanti anni di carcere; ho visto detenuti ammanettati e strisciati per terra; io da qui voglio andare via", riferisce un detenuto che avrebbe assistito a presunti atti di violenza da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Un detenuto che indossa solo un paio di mutande di carta riferisce di essere stato vittima di violenze da parte della polizia penitenziaria.
Lo avrebbero lasciato in cella liscia per 3 giorni, ha mangiato due viti, da 20 giorni le ha dentro nella pancia e ha provato anche ad impiccarsi. Un altro detenuto ancora riferisce che l'avrebbero lasciato, ammanettato, nel passeggio per una giornata e una nottata intera senza mangiare né bere e l'avrebbero preso a schiaffi e pedate. Altri ancora hanno riferito di essere stati testimoni di detenuti ammanettati e "strisciati" per terra.
I racconti dei detenuti sono concordanti. Ci sono inoltre altre testimonianze legate all'utilizzo non propriamente ordinario dell'isolamento. Un detenuto riferisce alla delegazione: "Sono in isolamento da 7 mesi; mi trovo qui perché protesto, vorrei essere trasferito in un carcere della Puglia; qui il blindo della porta è stato chiuso per una settimana; io faccio solo un'ora e mezza d'aria perché nel passeggio non c'è il wc e se torno in cella per andare in bagno poi non mi fanno ritornare al passeggio".
Un altro recluso in evidente stato di agitazione, è ristretto in una cella "liscia", dotata soltanto di un letto e di un lenzuolo: "Sono arrivato in questo carcere sabato 27 luglio, proveniente dal carcere di Messina; al mio arrivo ho dimenticato di prendere la fornitura, il giorno dopo l'ho fatto presente perché mi serviva la carta igienica, ma mi hanno lasciato senza carta igienica fino al venerdì successivo, e non mi hanno consentito nemmeno di comprarla; sono in cella liscia dal 3 agosto".
Il deputato Giachetti chiede se i ministri interrogati (della Giustizia e della Salute) siano stati informati di quanto esposto e quali provvedimenti intendano adottare per verificarne la fondatezza "anche con l'ausilio delle telecamere - si legge nell'interrogazione - che dovrebbero essere allestite nei reparti e, in particolare, in quelli di isolamento".
Sempre Giachetti chiede quali provvedimenti i ministri interrogati intendano adottare, negli ambiti di rispettiva competenza, nel caso in cui i fatti indicati in premessa dovessero rivelarsi fondati e, soprattutto, quali iniziative il ministro della Giustizia intenda intraprendere per evitare che maltrattamenti e violenze, umiliazioni e soprusi possano verificarsi nelle carceri italiane in generale.
di Eleonora Alampi e Valerio Vallefuoco
Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019
Corte di cassazione - Sentenza 26454/2019. Legittimo il licenziamento del dipendente della banca che viola la normativa antiriciclaggio. Con la sentenza 26454/19, depositata ieri, la Corte di cassazione ha così confermato la decisione del giudice di secondo grado innanzi al quale il dipendente di una banca aveva impugnato il licenziamento che gli era stato intimato per avere omesso di segnalare operazioni sospette; per non aver inibito la movimentazione di un deposito di risparmio intestato a una società con autorizzazioni a bonifici esteri; per avere, in violazione sempre della normativa antiriciclaggio, consentito la movimentazione del conto corrente intestato a soggetto sottoposto a indagine penale per frode fiscale e riciclaggio nonché per avere in violazione di specifiche prassi aziendali predisposto l'istruttoria di un finanziamento in favore del genitore e deliberato un ulteriore affidamento di credito, senza la copertura di idonee garanzie.
La Corte di appello, confermando la bontà della decisione del giudice della fase sommaria e di quello dell'opposizione che a sua volta aveva avallato l'ordinanza resa all'esito della fase sommaria, aveva evidenziato che gli inadempimenti riscontrati erano stati tali da comportare "una grave negazione dell'elemento fiduciario" che è alla base del rapporto di lavoro tenuto conto della qualità di direttore di filiale, rivestita dal dipendente licenziato.
Va sottolineato che gli inadempimenti che nel caso di specie sono costati il licenziamento al lavoratore sono per lo più riconducibili alla violazione della normativa antiriciclaggio: si badi, non solo quella dettata dalla fonte primaria (Dlgs 231/2007), ma anche quella posta dalle direttive provenienti da Banca d'Italia e dalla prassi aziendale con specifico riferimento all'obbligo di garantire adeguatamente la concessione di finanziamenti ai clienti. In altri termini, il direttore non avrebbe correttamente adempiuto agli obblighi di adeguata verifica della clientela così come posti la legge antiriciclaggio e specificati dai regolamenti interni dell'istituto bancario.
Sul punto è interessante osservare che i giudici che non hanno ritenuto di condividere la tesi difensiva del ricorrente, il quale aveva insistito nell'affermare che si era trattato di un finanziamento regolare in quanto non solo gestito tramite sistema informatico, ma anche deliberato dai credit analist competenti. Tuttavia, ciò non è bastato a convincere i giudici a revocare il licenziamento, in quanto il ruolo rivestito dal ricorrente avrebbe richiesto un livello di vigilanza di ben altra portata. La sentenza, dunque, apre le porte a un orientamento incline a guardare alla violazione degli obblighi antiriciclaggio e del modello della collaborazione attiva anche come elemento idoneo a fondare un licenziamento per giusta causa tanto più che alcuni dei doveri connessi al rispetto delle norme volte a prevenire il rischio di riciclaggio sono specificatamente previsti anche dalla contrattazione collettiva.
di Claudio Laugeri
La Stampa, 18 ottobre 2019
Insulti e botte ai detenuti, sei agenti arrestati. Scandalo nel carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino, l'ipotesi di reato è tortura. Gli inquirenti: fenomeno esteso. "Per quello che hai fatto, devi morire qui".
L'umiliazione, gli insulti e le minacce. Dopo le botte. Era il trattamento riservato a una mezza dozzina di detenuti delle quattro "sezioni incolumi", nel padiglione C del carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino. Da ieri mattina, sei agenti di polizia penitenziaria sono agli arresti domiciliai per tortura, reato introdotto due anni fa nel codice penale. La pena è dai cinque ai dodici anni di carcere.
A indagare sugli agenti sono stati i colleghi del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. Gli episodi sono avvenuti tra aprile 2017 e novembre 2018. Riguardano una mezza dozzina di detenuti, ma il sospetto degli inquirenti è che il fenomeno fosse più esteso. L'indagine è scaturita dalla segnalazione della Garante comunale peri diritti dei detenuti, Monica Cristina Gallo. È stata lei a raccogliere le confidenze di alcuni carcerati, tutti sotto i 40 anni e arrestati per reati sessuali.
Pedofili e stupratori, la categoria più odiata in carcere. E sovente, anche fuori. Per questo, gli agenti avevano deciso di farei "vigilantes", i "giustizieri" che applicavano pene anche prima della sentenza. Sapevano che quei personaggi non sono amati. Ma soprattutto, immaginavano che per loro sarebbe stato difficile trovare sostegno, dentro e fuori dal carcere.
L'umiliazione era continua. A uno avrebbero spruzzato detersivo per i piatti sul materasso e strappato le mensole dal muro, un altro sarebbe stato costretto a dormire sull'asse di metallo del letto, senza il materasso, un altro ancora ignorato quando ha chiesto una visita medica. Poi insulti e minacce. Tutto reso ancora più cupo dai toni, dalla veemenza. Violenza verbale. "Figlio di puttana, ti devi impiccare", dicevano a uno. Per un altro, il trattamento era costringerlo a ripetere "sono un pezzo di merda".
Un altro ancora veniva preso a calci nel sedere mentre scendeva le scale, con la litania di sottofondo: "Ti ammazzerei e invece devo tutelarti". C'è questo e altro nella quarantina di pagine dell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Sara Perlo, che ha esaminato il materiale raccolto dal Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, coordinato dal procuratore aggiunto Enrica Gabetta e dal pm Francesco Pelosi. Un'indagine senza intercettazioni, senza "pentiti".
Gli inquirenti hanno raccolto testimonianze. Qualche compagno di cella dei detenuti picchiati. E poi, le parole di quelli che hanno preso le botte. Hanno raccontato le modalità di quei pestaggi. Gli agenti infilavano i guanti, per lasciare meno segni. Ma anche per intimidire. Sferravano pugni nello stomaco, sempre per non lasciare segni.
Qualche volta, però, si lasciavano andare: un detenuto ha preso un pugno in faccia e gli è caduto un dente, un altro ha zoppicato tre mesi per un calcio su una gamba tesa. Poi, ci sarebbero sputi, schiaffi, calci nel sedere e nei testicoli, pestoni sui talloni. Dolore fisico e psicologico. Alimentato da frasi del tipo: "Per quello che hai fatto, devi morire qui". "E prematuro entrare nel merito, ma posso dire che va inquadrata in un problema più ampio", sostiene l'avvocato Antonio Genovese, difensore di un agente arrestato.
E spiega: "La situazione diventa esplosiva quando in un carcere come quello di Torino ci sono mille e 523 detenuti anziché mille e 61. Bisogna risolvere questi problemi, per rendere più umana la vita in carcere. Per i detenuti, ma anche per chi lavora in quelle strutture". La vicenda ha scatenato anche la reazione di Matteo Salvini: "Uno Stato civile punisce gli errori, se uno sbaglia in divisa sbaglia come tutti gli altri. Però che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto a me fa girare le palle terribilmente".
di Pietro Alessio Palumbo
Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019
Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 10 settembre 2019 n. 37520. In tema di associazione di tipo mafioso, il concetto di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica fusione con il tessuto organizzativo del consorzio criminale, tale da implicare, più che una condizione di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esercizio del quale l'interessato prende parte al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
Si qualifica come appartenenza ad associazione mafiosa la condotta che si concretizza in un'azione, anche isolata, in funzione degli scopi associativi, con svincolo delle situazioni di mera contiguità ovvero di vicinanza al gruppo criminale. Con la sentenza n°37520 depositata il 10 settembre 2019, la Corte di Cassazione detta le coordinate per l'applicazione del corretto modello normativo di comparazione, alla stregua del quale deve essere valutata una ipotizzata condotta punibile come reato di associazione di tipo mafioso.
La vicenda - Un imputato ricorreva per Cassazione contro l'ordinanza del giudice del riesame che aveva confermato l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari con cui gli veniva applicata la custodia cautelare in carcere riferita a delitti di associazione mafiosa. A propria difesa il ricorrente deduceva violazione di legge, inosservanza di norme processuali e vizi di motivazione, contestando su tutto la gravità indiziaria delle risultanze istruttorie utilizzate e valorizzate dall'ordinanza impugnata con particolare riguardo alla ritenuta sussistenza di presupposti ed esigenze per la custodia cautelare in carcere.
La bussola della Cassazione - Investita della questione la Corte di Cassazione chiarisce innanzitutto che la condotta partecipativa può essere desunta da indicatori quali la rituale affiliazione, la commissione di delitti-scopo e qualsiasi altro comportamento concludente idoneo ad offrire la dimostrazione della costante permanenza del vincolo con riferimento al preciso periodo temporale considerato dall'imputazione.
A ben vedere non rilevano le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale, le quali anzi non sono sufficienti nemmeno ad integrare la diversa condizione di appartenenza ad un'associazione mafiosa, rilevante ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione e che sebbene isolata postula comunque una condotta funzionale agli scopi associativi. Parallela a quella del partecipe è la figura del concorrente esterno o eventuale al sodalizio mafioso. Può essere considerato tale il soggetto che, sebbene privo del vincolo alla comunione di scopo e non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, fornisca tuttavia un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere occasionale ovvero continuativo allo scopo criminale.
Partecipazione e concorso esterno costituiscono fenomeni alternativi fra loro, in quanto la condotta associativa implica la conclusione di un patto criminale fra il singolo e l'organizzazione criminale, in virtù del quale il primo, con la volontà di appartenere al gruppo, rimane stabilmente a disposizione della seconda per il perseguimento dello scopo. L'organizzazione lo riconosce ed include nella struttura, senza necessità di manifestazioni formali o rituali. Il concorrente esterno invece rimane estraneo al vincolo associativo, pur fornendo un contributo alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell'associazione, nonché diretto alla realizzazione del programma criminoso.
Da ciò consegue che, con particolare riguardo alla sede cautelare, il percorso motivazionale non può essere riferito indistintamente all'una o all'altra delle due fattispecie alternative. In applicazione di tali principi si può dunque affermare che l'impresa è mafiosa quando vi sia totale sovrapposizione tra essa e l'associazione criminale, della quale condivide progetti e dinamiche operative, divenendone per ciò stesso strumento per la realizzazione del programma criminoso, con una conseguente mescolanza oggettiva delle rispettive attività.
Parimenti è mafiosa l'impresa la cui intera attività sia inquinata dall'ingresso nelle proprie casse di risorse economiche provento di delitto, in maniera tale che risulti praticamente impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti. In presenza di tali presupposti pertanto, è fuor di dubbio che l'imprenditore, anche se non formalmente fidelizzato al sodalizio, prende parte allo stesso ed alla sua attività illecita. Integra invece concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la condotta dell'imprenditore colluso, tale essendo colui che, pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del gruppo criminale e privo del vincolo di comunione di scopo, instauri con la cosca, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi.
di Fabrizio Ravelli
La Repubblica, 18 ottobre 2019
Che sia il diavolo oppure il buon Dio a nascondersi nei dettagli è questione controversa. Ma è certo, invece, che spesso la bellezza abita ai margini, nei territori poco esplorati dalla nostra attenzione. A San Vittore c'è stato un incontro di questo genere: da una parte i ragazzi di B. Livers e dall'altra i detenuti del reparto La Nave, quello di chi è segnato dalle dipendenze.
I B. Livers sono ragazzi con gravi patologie croniche, che hanno un sacco di iniziative notevoli e fra queste il mensile Il Bullone. Cos'hanno da dirsi ragazzi malati gravi, o ex-malati, e detenuti che provano a uscire dai vincoli delle sostanze? Un sacco di cose. S'era già fatto un incontro così qualche mese fa, altri ci saranno, perché s'è visto che ne vien fuori una comunicazione vivace e sorprendente.
L'altro giorno, assolutamente alla pari e con la medesima coraggiosa sincerità, hanno discusso di che cosa sia la bellezza, del dolore, della solitudine, della malattia, dell'amore, della colpa, della privazione. La marginalità, l'essere un po' dimenticati o quanto meno poco conosciuti, aiuta a trovare il coraggio di raccontare fatti e sensazioni privatissimi, e di essere dolorosamente sinceri.
Così, fra molte lacrime e molte risate, c'è chi ha raccontato come il dolore sia un pessimo consigliere quando produce isolamento e rabbia, ma possa insegnare a chiedere aiuto. Vale per i ragazzi malati così come per i carcerati. C'è chi ha raccontato di come abbia pensato di togliersi la vita, e magari ci abbia provato. Chi ha spiegato come una tv accesa alle proprie spalle, senza audio, possa aiutare ad arrivare in fondo a notti pesanti. Un incontro pesante? Non direi, visti i sorrisi e gli abbracci alla fine.
L'Unione Sarda, 18 ottobre 2019
Conclusa l'inchiesta su impresari, tecnici e dirigenti che si sono occupati dei lavori al penitenziario: rischiano il processo. Dodici persone rischiano il processo con l'accusa di peculato: si sarebbero appropriate di 20 milioni di euro destinati ai lavori di ristrutturazione del carcere di Uta. Si tratta di impresari, tecnici, collaudatori e dirigenti pubblici che negli anni si sono occupati delle opere di restyling e riqualificazione del penitenziario cagliaritano.
L'inchiesta è partita dopo alcuni esposti arrivati in Procura nel 2014 e ora agli indagati è arrivato l'avviso di conclusione delle indagini. Secondo quanto ipotizzato dai pm, il sistema per dirottare i fondi era basato su lavori "mai eseguiti oppure pagati due volte". Inoltre, i costi per i materiali sarebbero stati fatti lievitare attraverso "interventi fantasma", costati alle casse dello Stato circa 80 milioni di euro, di cui "solo" 60 sarebbero stati effettivamente utilizzati per mandare avanti i cantieri. Dal canto proprio, gli avvocati delle persone coinvolte respingono al mittente tutte le accuse mosse dai magistrati.
Giornale di Sicilia, 18 ottobre 2019
"Quando abbiamo scritto provocatoriamente che le carceri siciliane erano una discarica sociale, non sbagliavamo, infatti i dati che abbiamo raccolto confermano che nessun parametro dell'articolo 27 della costituzione in questo momento viene rispettato e solo al grande sacrificio della Polizia penitenziaria evita che il sistema crolli ovunque".
Lo dice il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria Sicilia, Gioacchino Veneziano, consegnando un dossier riguardante le attuali condizioni delle carceri siciliane. La Polizia penitenziaria, spiega, in questi sei mesi dell'anno, ha gestito oltre 2.100 eventi critici tra cui atti di autolesionismo, manifestazioni di protesta collettive e singole, colluttazioni, tentati suicidi, tentativi di evasioni, ferimenti ed altro. "Ma a oggi - accusa il sindacalista - al netto della parole, il ministro Bonafede e il capo del Dipartimento e tutti gli organismi nazionale e regionali non stanno facendo nulla per evitare il peggio".
Tra le proposte quella di accelerare un piano di assunzioni di personale straordinario, "perché quello sbandierato contiene solo i numeri per il turn-over, quindi oggi in Sicilia operano sulla carta 3700 poliziotti che con ovvia sottrazione di quello impiegato in compiti sussidiari alla sicurezza, a quelli per le traduzioni e per le scorte, e quelli assenti per la fruizione dei diritti, rimangono al netto appena che 1200 poliziotti penitenziari che nell'arco delle 24 ore si occupano di vigilare sugli oltre 6500 detenuti rinchiusi nelle 23 carceri siciliane... in pratica 460 unità per singolo turno".
Infine, la classifica degli eventi critici conferma che in certe strutture penitenziarie vi è necessità di interventi massicci, tra cui Barcellona Pozzo di Gotto, seguita da Palermo Pagliarelli, Trapani, Siracusa e Agrigento: "È davvero obbligatorio - conclude Veneziano - accendere i riflettori verso la sanità all'interno delle carceri in quanto negli ultimi anni si è registrato un sensibile incremento di detenuti affetti da malattie mentali e psicofisiche che rendono difficoltosa per non dire impossibile la loro permanenza in strutture carcerarie, aumentando i rischi di incolumità ai quali i poliziotti sono sottoposti e obbligati ad operare, per non parlare".
Tra le proposte quella di accelerare un piano di assunzioni di personale straordinario, "perché quello sbandierato contiene solo i numeri per il turn-over, quindi oggi in Sicilia operano sulla carta 3700 poliziotti che con ovvia sottrazione di quello impiegato in compiti sussidiari alla sicurezza, a quelli per le traduzioni e per le scorte, e quelli assenti per la fruizione dei diritti, rimangono al netto appena che 1200 poliziotti penitenziari che nell'arco delle 24 ore si occupano di vigilare sugli oltre 6500 detenuti rinchiusi nelle 23 carceri siciliane... in pratica 460 unità per singolo turno".
Infine, la classifica degli eventi critici conferma che in certe strutture penitenziarie vi è necessità di interventi massicci, tra cui Barcellona Pozzo di Gotto, seguita da Palermo Pagliarelli, Trapani, Siracusa e Agrigento: "È davvero obbligatorio - conclude Veneziano - accendere i riflettori verso la sanità all'interno delle carceri in quanto negli ultimi anni si è registrato un sensibile incremento di detenuti affetti da malattie mentali e psicofisiche che rendono difficoltosa per non dire impossibile la loro permanenza in strutture carcerarie, aumentando i rischi di incolumità ai quali i poliziotti sono sottoposti e obbligati ad operare, per non parlare".
di Lidia Catalano e Andrea Rossi
La Stampa, 18 ottobre 2019
Ci sono indagini in corso, al momento preferisco non commentare. Lo farò quando sarà possibile". Monica Cristina Gallo, la Garante dei detenuti nominata nel 2015 dal Comune di Torino, logicamente si tiene a debita distanza dalla denuncia con cui ha dato il via all'indagine che scuote il carcere Lorusso e Cutugno: sei agenti di polizia penitenziaria arrestati e un quadro preoccupante di violenze fisiche e psicologiche a danno dei detenuti.
Eppure, il quadro che emerge dietro l'inchiesta della procura è in larga parte racchiuso nelle relazioni che ogni anno la garante firma con il suo staff. Quei documenti sono, di fatto, la premessa dei fatti oggi emersi. E il carcere delle Vallette una sorta di polveriera in cui è sempre più difficile mantenere l'ordine e assicurare la dignità.
La struttura ha una "capienza regolamentare" di 1.062 posti "ma è ormai prassi - si legge nell'ultima relazione, riferita all'attività del 2018 - che le persone in eccedenza si aggirino a 1.390 arrivando a un tasso di sovraffollamento pari al 130%".
Alla fine del 2018 i detenuti erano 1.416, in costante ascesa da anni: 1.371 a fine 2017, 1.321 nel 2016, 1.162 nel 2015. Una fotografia che rispecchia la situazione regionale, con una popolazione carceraria complessiva che si attesta oggi a 4686 persone, a fronte di una capienza "ufficiale" di 3976 posti. Ma il quadro reale, secondo l'ultima relazione del garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, è ancora più allarmante.
Perché evidenzia una notevole discrepanza tra il numero di posti disponibili "sulla carta" e quelli effettivamente accessibili, a causa della chiusura temporanea di alcune sezioni per problemi strutturali, sanitari o per la semplice necessità di manutenzione straordinaria. Con il risultato che a oggi la capienza effettiva è di appena 3700 posti: cioè circa mille in meno di quanti ne servirebbero.
Le norme stabiliscono che ogni persona in carcere dovrebbe avere a disposizione uno spazio di 9 metri quadrati, che diventano 14 se condivide la cella con un'altra persona. Impossibile se alla fine dello scorso anno al Lorusso e Cotugno c'erano quasi 400 persone in più di quel che lo spazio consentirebbe. Il sovraffollamento, nodo comune a tutti gli istituti di pena italiani, produce un duplice effetto. Il primo riguarda lo stato di salute dei detenuti. Nel 2018 nel carcere torinese si sono verificati 93 casi di autolesionismo e 125 scioperi della fame o della sete. Un evidente segno dello stato di sofferenza che affligge molti detenuti.
Il secondo effetto colpisce chi dovrebbe occuparsi dei detenuti e sorvegliarli. La pianta organica degli agenti penitenziari, fino al 2016, si fondava su un presupposto, malauguratamente soltanto teorico: un rapporto pressoché pari tra detenuti e guardie carcerarie. E dunque 1.080 agenti previsti per un carcere con una capienza di 1.062 persone.
Ora, come già detto i carcerati, sempre nel 2016, erano 1.321, ma gli agenti assegnati alla struttura 909 e quelli effettivamente in servizio appena 754. La situazione, nei due anni successivi, è andata peggiorando: la forbice si è allargata, sempre più detenuti e sempre meno agenti. Oggi ce ne sono 735, eppure gli assegnati sono 811 e la pianta organica vorrebbe ce ne fossero 894. Invece le persone dietro le sbarre sono diventate oltre 1.400.
Anziché un agente per carcerato la vera proporzione è di un addetto ogni due detenuti. Una differenza non da poco. Una pesante ipoteca sulla possibilità che il personale possa svolgere con serenità ed efficacia il proprio lavoro. E che dire degli altri addetti, come i funzionari che dovrebbero coordinare le attività lavorative, formative, scolastiche e culturali dell'istituto, e osservare la personalità dei detenuti? "Ciascuno segue in media circa 120 persone detenute", annota la relazione della garante Gallo. E qualunque commento può dirsi superfluo.
di Fabrizio Assandri
La Stampa, 18 ottobre 2019
Il cappellano Silvio Grosso: sarebbe sbagliato generalizzare. "Servirebbe una riforma della giustizia per migliorare la vita all'interno del carcere". Quando noto qualche tensione, tra agenti e detenuti, faccio presente la cosa al capo della sezione, allo stesso agente se è il caso, e all'ispettore. Ma di episodi di violenza non ne ero al corrente". Silvio Grosso fa parte della fraternità dei monaci apostolici diocesani a cui è affidata la cappellania del carcere.
Di cosa parlano i detenuti nei colloqui con lei?
"Mi raccontano la loro difficoltà e la fatica rispetto alla situazione che vivono che, anche se frutto di loro scelte, provoca grande sofferenza".
Le hanno mai segnalato episodi di violenza e torture?
"No. Posso però dire che dalla mia esperienza, da parte delle figure apicali, man mano che si sale nella gerarchia della gestione del carcere, c'è e c'è sempre stato lo sforzo di mantenere un clima disteso all'interno dell'istituto penitenziario".
Vuole dire che il problema sta ai livelli più bassi?
"Voglio solo dire che in una situazione di grande sovraffollamento come quella attuale, che non fa che peggiorare da mesi, con gli agenti costretti a turni molto pressanti, un clima di tensione possa esserci. Per quel che ho visto io, però, molti agenti sanno gestire i rapporti smorzando le frizioni della vita quotidiana dietro le sbarre. Parlo di cose banali e normali. Ma qui si parla di altro: violenze e torture, di questo non avevo assolutamente alcuna contezza. Sulla vicenda sta indagando la Procura e io non ho altro da aggiungere".
Qual è la sua reazione?
"Avverto il rischio che questa faccenda, insieme ad altre che purtroppo si sono rivelate vere, spinga a fare di tutta l'erba un fascio, così come a volte accade quando i violenti sono i detenuti. Ma né da una parte né dall'altra bisogna generalizzare. Al di là di questo episodio, è giusto ribadire che le condizioni di vita del carcere sono estremamente difficili e faticose per tutti quelli che ci vivono e ci lavorano. Per questo bisognerebbe metter mano a una riforma della giustizia, per la quale il carcere non sia più così al centro rispetto ad altre modalità di esecuzione penale, sarebbe un modo per migliorare le condizioni di vita all'interno del carcere".
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