di Camille Eid
Avvenire, 17 ottobre 2019
Lo scontro sta coinvolgendo le aree dove sono detenuti centinaia di miliziani del Daesh che sono riusciti a fuggire o potrebbero farlo, anche con l'aiuto di altri terroristi. Durante tutta la fase preparatoria della sua offensiva, Ankara ha cercato di rassicurare gli occidentali sulla sua intenzione di prendere in carico tutti i prigionieri del Daesh (o Isis) detenuti nelle carceri curde. Invece, sono molti gli elementi che inducono a ritenere che uno dei rischi maggiori dell'operazione turca contro i curdi è quello di resuscitare il Daesh, o perlomeno creare le condizioni per una riorganizzazione.
Anzitutto, lo spostamento di molti miliziani curdi da sud verso il confine nord ha sguarnito tutta la fascia che va da Deir ez-Zor ad al-Bukamal in cui è più alta la minaccia del Daesh dove, a pochi chilometri oltre l'Eufrate, persistono ancora alcune sacche dei jihadisti.
In secondo luogo, per una questione di ordinaria amministrazione. Finora, i 16 centri di detenzione del Daesh sono stati gestiti da due "autorità": la Federazione curda del nord della Siria (6 centri) e il governo di Baghdad (9 centri), senza parlare dei numerosi campi civili in cui sono stati raccolti i familiari dei jihadisti. Solo un centro, invece, si trova nella città di al-Bab, nel territorio entrato sotto controllo dei ribelli cooptati da Ankara dopo l'operazione Scudo dell'Eufrate del febbraio 2017. Guarda caso, quello in cui si è verificata, nel settembre 2018, la fuga di alcuni detenuti, spariti poi nel nulla.
Ora, dei sei centri che si trovano nella zona curda, solo tre si trovano dentro il raggio d'azione dichiarato (30-35 chilometri dal confine) dell'esercito turco. Si tratta dei centri di al-Malikiyah, nella punta orientale della Siria in cui sono detenuti 400 terroristi, di Qamishli e di Kobane, mentre rimarrebbero sotto gestione curda i centri di Ain Issa, Hassaké e Dashisha. Non solo sarebbe illusorio aspettarsi un passaggio delle consegne pacifico tra due forze che si stanno facendo la guerra, ma l'entrata in scena di un terzo "gestore" rischia di confondere le carte.
Secondo una ricerca condotta negli anni scorsi, la Turchia è stata il punto di passaggio del 93% degli aspiranti jihadisti affluiti da mezzo mondo verso la Siria. Con o senza la complicità della polizia turca, molti hanno raggiunto il Califfato attraverso Gaziantep, Kilis e altri valichi di frontiera. Secondo il capo di stato maggiore americano, ancora nell'ottobre 2018, quando il territorio del Daesh era ormai ridottissimo, un centinaio di jihadisti attraversava ogni mese questo confine. Nessuna meraviglia se un analista del Center for Global Policy affermava pochi giorni fa che "il Daesh non avrà problemi a comprarsi la lealtà di queste forze, pagando tangenti per poter scappare". E anche qui il gioco dei numeri impera: Erdogan dice al "Wall Street Journal" che "nessun detenuto lascerà la regione", fonti del Cremlino parlano invece di "12mila prigionieri fuggiti dalle carceri del Nord".
Rimane comunque la minaccia diretta. Nel suo ultimo audio del 16 settembre, Abu Bakr al-Baghdadi ha esortato i suoi a raddoppiare gli sforzi per liberare i detenuti "dai campi della diaspora e le carceri dell'umiliazione". Da alcuni mesi, i servizi notano un potenziamento della rete di supporto terroristica nella provincia di Hassaké, e mettono in guardia circa la possibilità di usare queste retrovie in assalti alle carceri nel nord della Siria.
di Guido Rampoldi
Il Manifesto, 17 ottobre 2019
Nessuno può condannare una minoranza oppressa se con l'indipendenza vuol sottrarsi agli artigli della tirannide. Ma contro le modifiche dei confini vanno incalzati i regimi. La diplomazia ventriloqua che circonda premurosamente Di Maio gli aveva fatto dire una cosa sensata, perfino intellegibile: l'Europa affronti Erdogan con una voce sola.
Ma il passaggio successivo - cosa dire con una voce sola - si è rivelato un obiettivo troppo ambizioso per quell'Europa irrisolta, casuale come la vogliono i governi sovranisti dell'Unione. Quel che è peggio anche il nucleo storico della Ue pare incapace di produrre una proposta, un concetto strategico, una visione d'insieme con la quale affrontare non solo la guerra del Rojava ma più in generale i grandiosi sommovimenti che stanno terremotando il mondo ex ottomano.
Dal Maghreb al Golfo tramonta il vecchio ordine e non si intravede il nuovo, se somiglierà all'Isis o piuttosto a quanto di meglio mostrarono le primavere arabe, se accoglierà l'opposizione nei parlamenti oppure nelle mai dismesse camere di tortura. Ma due cose sin d'ora sono perfettamente chiare. La prima: stanno tornando in discussioni molti confini.
Si discute sottovoce se tripartire la Libia, lo Yemen è una poltiglia di territori, Il Sudan è stato spaccato, la destra israeliana vuole prendersi gran parte della West Bank, i tuareg ambiscono ad uno stato, la nuova frontiera tra Siria e Turchia sarà la linea del fronte: e siamo solo all'inizio di un'onda lunga che pare arrivata perfino nei Balcani, dove Croazia e Serbia già tramano per squartare definitivamente la Bosnia nel santo nome dell'autodeterminazione dei popoli.
Qui sarà il caso di ricordare le parole con le quali il Segretario di Stato Robert Lansing tentò di distogliere il presidente Wilson dall'insano proposito di applicare intensivamente l'autodeterminazione dei popoli nei negoziati di pace del 1919-1920: quel principio, avvertì Lansing, "è caricato con la dinamite". Lo è tuttora. Tra le varie colpe degli occidentali una tra le più gravi è l'aver continuato a giocherellare col vecchio progetto lanciato un secolo fa dal trattato di Sevres: una patria per i curdi.
Per costruirla occorrerebbe smontare quattro stati (Siria, Turchia, Iraq, Iran) e ove mai riuscisse a nascere, quel Kurdistan rischierebbe la fine del Sud Sudan, l'ultima autodeterminazione dei popoli che appassionò le opinioni pubbliche occidentali.
Pareva che laggiù l'esercito dell'islamica Khartoum macellasse la popolazione cristiana, ma al solito le cose erano più complicate, come dimostrò il seguito: dall'anno dell'indipendenza (2011) il Sud Sudan è devastato dalla guerra civile tra due grandi milizie 'cristianè che si contendono i giacimenti petroliferi con una ferocia senza pari.
Questo ed altri disastri hanno da tempo suggerito alla diplomazia europea di ripiegare sull'idea di 'autodeterminazione interna', cioè una larga autonomia che non metta in discussione i confini nazionali. Ma dove l'entità autonoma si attribuisce prerogative statuali, i risultati non sono molto migliori.
Due anni fa la regione autonoma del Kurdistan iracheno pensò di annettersi mediante referendum la provincia petrolifera di Kirkuk, turcomanna in epoca ottomana, poi mista, quindi arabizzata da Saddam mediante ingegneria demografica, infine curda o curdizzata dopo l'invasione americana. Di conseguenza Baghdad mandò l'esercito a ricondurre, sparando, Kirkuk sotto la sovranità irachena. Una milizia curda si oppose a quel corpo di spedizione e un altro lo spalleggiò, mentre gruppi di turcomanni e arabi invadevano abitati curdi per riprendersi le case da cui a loro dire erano stati espulsi - insomma una bolgia tuttora irrisolta, non avendo la regione curda mollato la presa sul petrolio iracheno di Kirkuk, che vende in proprio alla Turchia.
Se i secessionismi hanno una relazione forte con le risorse del territorio, ancor più li motiva la brutalità degli stati centrali. E questa è l'altra cosa definitivamente chiara nella grande crisi che indirizzerà la storia di questo secolo. Nessuno può condannare una minoranza oppressa se persegue l'indipendenza per sottrarsi agli artigli di una tirannide.
Di conseguenza un'Europa che saggiamente rifiutasse come destabilizzanti le modifiche dei confini dovrebbe impegnarsi con altrettanta determinazione ad incalzare i regimi dispotici del Medio Oriente e del Nord Africa, in primis quelli che ci piace chiamare filo-occidentali malgrado siano i più grandi produttori di terrorismi e secessionismi.
In sostanza si tratterebbe di riaffermare i due principi che fondarono gli accordi di Helsinki (1975) fino ai disastrosi riconoscimenti di Slovenia e Croazia (1991) - e allo stesso tempo offrire alle opposizioni democratiche quel che l'Europa ha stupidamente negato: protezione e strumenti. Se avessimo posto il giornalismo turco in esilio nella condizione di raggiungere la propria opinione pubblica con tv satellitari e quotidiani online, forse oggi Erdogan non sarebbe così spavaldo. Se avessimo sostenuto il Free syrian army con un quinto dei mezzi che i sauditi riversarono sui guerrieri salafiti, forse oggi l'alternativa ad Assad non sarebbero i guerrieri fondamentalisti.
E se sperimentazioni laiche, incluso il Communitarism curdo-americano in gestazione nel Rojava, avessero trovato attenzione presso i governi europei, forse questi ultimi avrebbero avuto qualche possibilità di prevenire eventi che oggi sono costretti a rincorrere. Dunque vanno bene gli appelli, i cortei, la commozione, lo sdegno, le sanzioni o sanzioncine, ma rendiamoci conto che tutto questo serve a poco: è troppo tardi.
Non è troppo tardi, invece, per dotarsi di una strumentazione politica, diplomatica e concettuale adeguata ad affrontare le crisi prossime. Ma occorrerebbe un'altra Unione europea, o almeno un suo nucleo centrale finalmente consapevole che affrontare questa grande crisi senza un'idea-guida, un concetto strategico, comporta rischi enormi. Non ultimo il pericolo di convincere le popolazioni mediorientali, e soprattutto quel 60% in età inferiore ai 25 anni, che l'Europa sia quel che appare: un vecchio piagnucoloso e rimbambito che ciabatta ai margini della Storia.
di Yurii Colombo
Il Manifesto, 17 ottobre 2019
Pugno duro contro l'opposizione. Il ministero della Giustizia intenta una causa per lo scioglimento di "Per i diritti umani", colpita dalla "legge sulle agenzie straniere" voluta da Putin nel 2014
Il leader di "Per il diritto dell'uomo", Lev Ponomarev, in piazza. Si stringe sempre di più il cappio del governo russo contro l'opposizione. Ieri con una decisione senza precedenti il ministero della Giustizia ha intentato una causa presso la Corte suprema per lo scioglimento del movimento "Per i diritti umani" di Lev Ponomarev, a causa di ripetute violazioni della legge del paese. La Corte suprema esaminerà il fascicolo il 14 novembre, ma la sorte della più importante organizzazione non governativa russa, sembra segnata. Ponomarev è una figura notissima in Russia. Fisico di fama e amico personale di Andrey Sacharov, fu nel 1988 tra fondatori della Fondazione Memorial che opera senza posa per far conoscere la tragedia della repressione politica in Urss. Più volte deputato, l'ex fisico di Tomsk ha fondato nel 1997 la ong "Per i diritti umani" che è divenuta ben presto l'associazione umanitaria più estesa geograficamente, con oltre una quarantina di sedi sparse un po' dovunque.
Il ministero afferma che "Per i diritti umani" non solo ha più volte violato la legge e inadempiuto al pagamento di numerose multe comminategli ma soprattutto accusa l'ong di essere un "agente straniero", un'associazione cioè che riceve finanziamenti dall'estero e opera a vantaggio di altri governi.
La "legge sulle agenzie straniere" fu fortemente voluta da Putin nel 2014 per mettere fuori gioco buona parte dei think-thank e associazioni considerate non allineate come la "Open society" di George Soros ma anche strutture apolitiche come "Giustizia Russa" che opera nel Caucaso per difendere principalmente i diritti degli individui Lgbtq e le donne, la quale si è vista in agosto confiscare gran parte dei propri documenti e del proprio materiale.
Il movimento di Ponomarev ha subito annunciato che difenderà la sua posizione alla Corte suprema e, se necessario, si rivolgerà alla Corte europea dei diritti dell'uomo. "È indiscutibile che se anche perdiamo in tutti i tribunali e il movimento verrà sciolto, ci ricostituiremo in qualche altra forma. In quale forma ancora non lo so, è necessario osservare lo sviluppo degli eventi. Il movimento ha ventidue anni. Questo è uno dei più vecchi e celebri movimenti per i diritti umani nel paese: non scomparirà" ha dichiarato Ponomarev in un'intervista al moscovita Kommersant.
Anche la presidente della Commissione europea Ursula Van der Leyen, una volta avuta la notizia dell'attacco alla libertà di associazione in corso, ha voluto informare il Cremlino della propria apprensione per quanto sta avvenendo. "Comprendo che un'ispezione condotta dal ministero della Giustizia nel gennaio 2019 ha rivelato alcune irregolarità nelle segnalazioni dell'organizzazione alle autorità", ha dichiarato Van der Leyen per poi proseguire: "Tuttavia, le norme europee in materia di diritti umani specificano che lo scioglimento di una ong può essere utilizzato solo come ultima risorsa, limitato a circostanze eccezionali giustificate da una grave colpa. Le autorità russe hanno applicato la legge sugli agenti stranieri contro il movimento per i diritti umani in tutta la Russia e il suo leader Lev Ponomarev almeno sette volte dall'inizio di quest'anno, imponendo sanzioni che comportano un pesante onere finanziario per le legittime attività sui diritti umani. Ancora una volta, ciò dimostra che la legge sugli agenti stranieri e la sua applicazione rappresentano una grave ingerenza nei diritti della libertà di associazione della società civile e dei difensori dei diritti umani, e che spesso si traduce in molestie".
L'organizzazione di Ponomarev non è la sola ad essere posta sotto la lente d'ingrandimento degli organi di sicurezza. Lunedì la struttura dell'oppositore Alexey Navalny, "Fondazione anticorruzione", è stata registrata anch'essa come "ente straniero" entrando nell'orbita di quelle realtà che rischiano di subire costanti richiami e multe, e financo, come stiamo vedendo, lo scioglimento d'imperio. Navalny, in un comunicato, ha negato di "aver ricevuto neppure un copeco" dall'estero e di essere pronto a sfidare il governo davanti a qualunque corte. Malgrado ciò il giorno successivo la polizia ha perquisito oltre trenta sedi della sua fondazione alla ricerca di prove che lo possano inchiodare.
di Katia Riccardi
La Repubblica, 17 ottobre 2019
Il re del Marocco, Mohammed VI, ha graziato la giornalista Hajar Raissouni, 28 anni, condannata a un anno di carcere senza condizionale per aborto clandestino e sesso fuori dal matrimonio. Il 31 agosto scorso la reporter del quotidiano indipendente Akhbar al-Youm, era stata fermata all'uscita di uno studio medico della capitale Rabat insieme al compagno Rifaat al-Amin, al medico 68enne Mohammed Jamal Belkeziz, con i suoi due assistenti.
L'articolo 490 del codice penale marocchino criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra persone non sposate. L'interruzione di gravidanza è permessa solo se la vita della donna è in pericolo, in tutti gli altri casi l'aborto è punito con il carcere. Sono perseguiti penalmente anche l'adulterio e l'omosessualità.
Il tribunale di Rabat aveva quindi condannato anche il compagno di Hajar Raissouni a un anno di carcere, il medico - due anni di prigione e due di interdizione dall'esercizio della professione - e i due assistenti, rispettivamente a un anno e a otto mesi.
La relazione della giornalista con Rifaat al-Amin, 40 anni, professore universitario originario del Sudan, non era nascosta. Raissouni aveva provato a spiegare ai giudici di averlo sposato anche se i documenti del matrimonio non erano stati registrati in Marocco perché l'ambasciata sudanese non aveva formalizzato l'atto in tempo.
Aveva anche detto di non aver abortito ma di essere stata ricoverata per un'emorragia interna. Piccoli particolari, perché la sua condanna sembrava nascondere soprattutto motivazioni politiche. Il 4 settembre Hajar Raissouni aveva scritto una lettera al suo quotidiano.
Riferiva di essere stata interrogata per i propri articoli, spesso critici nei confronti delle autorità marocchine. Sosteneva di aver ricevuto domande su un collega e sui suoi familiari, tra i quali Ahmed Raissouni, noto teologo islamista ed ex presidente del Movimento per l'unicità e la riforma, uno dei più popolari movimenti religiosi del Marocco. La storia di Hajar Raissouni è stata raccontata dai giornali internazionali, ha mobilitato islamisti, associazioni per i diritti umani, movimenti femministi.
L'Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh), Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto la sua liberazione per violazione delle libertà personali. All'avvio del processo, quasi 500 personalità marocchine tra cui la scrittrice Leila Slimani, vincitrice del premio francese Goncourt, hanno firmato un appello senza precedenti nel regno, una monarchia assoluta che si nasconde dietro un sottile velo di modernità e moderazione.
In Marocco qualsiasi cambiamento deve provenire dal "makhzen", il sistema del palazzo del re Mohammed VI che decide su tutto, dal risultato delle elezioni alle grazie. Come quella concessa ieri a Hajar Raissouni. Uno strappo nel velo che ha fatto entrare un po' di aria e luce, senza ancora cambiare le cose.
di Elena Dusi
La Repubblica, 17 ottobre 2019
Un accordo da 50 miliardi di dollari (45 miliardi di euro circa) per chiudere migliaia di azioni legali prima che il processo contro i big dell'industria farmaceutica inizi, come previsto, lunedì prossimo. Secondo il New York Times, è l'intesa a cui stanno lavorando gli Stati e le città americane con i maggiori distributori e produttori di oppioidi. L'accordo libererebbe Amerisource Bergen, Cardinal Health e McKesson, ma anche Johnson & Johnson e Teva, da più di 2.300 azioni legali con cui sono accusate di essere responsabili della crisi degli oppioidi.
Almeno 400.000 persone sono morte negli Stati Uniti per overdose di oppioidi legali e illegali dal 1999, secondo i dati federali. Nelle cause giudiziarie le parti lese stanno cercando di recuperare i costi sostenuti dalle comunità alle prese con una dipendenza diffusa, compresi gli oneri per i servizi di emergenza, le cure mediche e i servizi di affidamento per i bambini nati da genitori dipendenti.
In risposta ai 115 morti al giorno per overdose negli Usa (2018) e del rischio pandemia anche in Europa (8.238 morti per overdose nel 2017 dati Emcdda), il prossimo venerdì a Roma si svolgerà l'evento internazionale "Rome Consensus 2.0", dove esperti parleranno dei numeri della diffusione di oppiodi come il Fentanyl e del sorprendente cambio di strategia politica nell'America di Trump con la "pre-arrest deflection".
Nell'ultimo anno negli Usa sono morti per overdose circa 72.000 persone, che - paragonati ai 52.000 militari Usa morti in 10 anni nella guerra del Vietnam - spiegano la necessità del cambio di passo dell'amministrazione americana, che con successo sta contrastando la diffusione degli oppiacei sintetici come il Fentanyl, acquistabili in maniera legale attraverso prescrizione medica.
La droga che uccide si vende anche in Italia" - Il Fentanyl - l'oppioide che ha dato il colpo di grazia allo chef Andrea Zamperoni - e le sostanze illegali simili sono fra 100 e 1000 volte più potenti dell'eroina" spiega Simona Pichini, prima ricercatrice all'Istituto Superiore di Sanità, esperta di nuove droghe. "La dose letale è di pochi microgrammi: un granello. Basta toccarlo o inalarlo per caso". Tute ermetiche e maschere sono d'obbligo per chi effettua i sequestri. Del Fentanyl, però, nell'ultima relazione del Dipartimento antidroga italiano non c'è quasi traccia.
I sequestri si contano sulle dita. Il problema da noi non esiste? "Non sappiamo. Identificare queste sostanze è complicato. Solo ora stiamo imparando" dice Pichini. In Italia tra 2016 e 2017 le morti per overdose sono salite del 9,7% dopo 15 anni di calo. "Non siamo sicuri che c'entri il Fentanyl. Servirebbero analisi tossicologiche costose, che solo pochi laboratori sanno fare. Difficile che siano disposte per un'overdose" spiega Pichini. "I derivati del Fentanyl sono ben più di 50. Come per il doping, ne arrivano sempre di nuovi. Per dare un nome a una sostanza abbiamo bisogno di un campione: "lo standard". Ottenerlo richiede autorizzazioni a non finire e ditte specializzate che ce lo inviino dall'estero. Ci mettiamo un anno".
di Andrea Pugiotto
Il Manifesto, 16 ottobre 2019
La sentenza della Corte europea dei diritti nasce dal ricorso di Marcello Viola, ergastolano ostativo ristretto a Sulmona. È grazie a lui che i giudici a Strasburgo, per la prima volta, si sono pronunciati sull'italico "fine pena mai", condannandolo perché pena perpetua de facto non riducibile.
di Erri De Luca
Il Manifesto, 16 ottobre 2019
Calcolo le lunghe pene detentive in Olimpiadi, invece che in anni. 26 annate, 104 stagioni, sono una cifra astratta, smisurata all'interno, scarsa di peso fuori. Chi esce da così lunga assenza trova intatto il pubblico rancore legato al suo nome e alla sua colpa.
di Patrizia Maciocchi
Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019
Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 15 ottobre 2019 n. 42323. Il rischio corso dalla classe a causa della costituzione di una baby gang violenta, giustifica la misura cautelare del collocamento in comunità, per il minore che estorce denaro e oggetti ai compagni di scuola.
La Corte di cassazione, con la sentenza 42323, conferma la scelta della comunità, in via cautelare, per un minore indagato per estorsione aggravata. I giudici hanno valorizzato le dichiarazioni di una professoressa che, su segnalazione di genitori e di alunni, aveva scoperto che il ragazzo portava in classe in coltello e si era riunito in una chat denominata "rlq17" con una trentina di ragazzi violenti.
Scopo della gang era farsi consegnare, con la minaccia, denaro o altri oggetti dalle giovani vittime: nello specifico 250 euro e un paio di scarpe da ginnastica da un compagno di scuola dell'indagato. Inutile per la difesa negare l'esistenza di concreti pericoli di reiterazione e assicurare "la piena maturata e consapevole vigilanza posta in atto ad opera dei genitori". Per il tribunale del riesame, come per la Cassazione pesano "la spavalda manifestazione di prepotenza" e le minacce gravi, reiterate anche per più giorni. La personalità del ragazzo - per il quale era pendente un altro procedimento penale per violenza privata - era stata delineata negativamente dalle insegnanti.
Elementi che, per la Cassazione, dimostrano l'attualità del pericolo, anche in considerazione dei fatti commessi in tempi ravvicinati, e il grave rischio al quale era esposta la comunità scolastica. Per lui, malgrado la giovane età si aprono le porte della comunità come misura cautelare.
di Mauro Palma
Il Manifesto, 16 ottobre 2019
La sentenza della Corte europea dei diritti umani è stata commentata da troppe discettazioni disinvolte e disinformate. Disinvolti e disinformati, alcuni commentatori continuano a discettare su nefaste conseguenze della sentenza della Corte di Strasburgo relativa all'ergastolo ostativo e sul mancato rinvio alla Grande Camera. Valutando tutto ciò come, nell'ordine: incomprensione europea delle peculiarità della criminalità organizzata in Italia, grave allentamento nella lotta per contrastarla, benefici assicurati alle organizzazioni criminali e, infine, tradimento di quanto i magistrati che hanno dato la vita per tale lotta hanno affermato con il loro sacrificio, da parte di chi obietta qualcosa o sostiene che la sentenza è in linea con il nostro testo costituzionale.
di Stefano Anastasia
Il Manifesto, 16 ottobre 2019
Filosofi e pensatori a confronto con la "tortura" della morte civile, l'ergastolo ostativo. Sullo sfondo della decisione europea di restituire al giudice la responsabilità di una scelta sulla possibilità di reinserire progressivamente nella società persone che abbiano compiuti gravi reati, c'è la domanda radicale se sia legittimo tenere in carcere fino alla morte una persona. Parliamo, dunque, dell'ergastolo in sé, della pena fino alla morte o della pena di morte viva.