di Andreana Esposito, Maria Lucia Pezone e Caterina Scialla
eastwest.eu, 19 maggio 2020
Il coronavirus poteva essere un'occasione per ripensare le pene detentive e ricordare la tutela della dignità dei detenuti. La pandemia del Covid-19 avrebbe potuto costituire un'ottima occasione per riflettere sull'essenza della pena detentiva. Sulla sofferenza che la detenzione infligge al corpo del condannato. Sulla necessità del carcere e sull'opportunità di scoprire qualcosa meglio del carcere.
di Mitia Chiarin
La Nuova Venezia, 19 maggio 2020
"Il nuovo decreto del ministro Bonafede introduce l'obbligo di rivalutare l'invio agli arresti domiciliari dei detenuti usciti in questi mesi di emergenza per motivi di tutela della salute, quando l'emergenza Covid-19 faceva temere focolai preoccupanti nelle carceri italiane, alle prese con il problema del sovraffollamento. Ora si prevede l'obbligo di chiedere un parere alle Procure antimafia che esprimono sui casi un loro giudizio, non vincolante. Ogni 15 giorni occorre rivedere ogni caso. Il che significa un importante aggravio di lavoro per la Giustizia italiana, già in enorme difficoltà".
di Maria Teresa Meli
Corriere della Sera, 19 maggio 2020
Oggi al Senato il voto sulle mozioni di centrodestra e Bonino contro il Guardasigilli, Italia viva decisiva. Il leader ai suoi: ditemi che cosa ne pensate di lui. Martedì al Senato sarà il giorno della sfiducia ad Alfonso Bonafede. Anzi, delle sfiducie, perché oltre alla mozione presentata dal centrodestra c'è quella sottoscritta da Emma Bonino e firmata anche da alcuni esponenti di Forza Italia e da Matteo Richetti, che mesi fa ha lasciato il Pd per aderire ad Azione, il movimento di Carlo Calenda.
di Rocco Vazzana
Il Dubbio, 19 maggio 2020
Il capo politico blinda il Ministro della Giustizia. "Le questioni che riguardano la maggioranza si discutono all'interno della maggioranza, quello è il contesto". Il capo politico del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, ci mette la faccia per difendere il capo delegazione grillino a Palazzo Chigi: Alfonso Bonafede.
I pentastellati si sentono sotto scacco degli alleati e provano a uscire allo scoperto per non avere sgradite sorprese mercoledì mattina, quando il Guardasigilli sarà oggetto in Senato di varie mozioni di sfiducia: una del centrodestra e una di +Europa.
Italia viva continua a non sciogliere la riserva su come voterà in Aula e non è un caso che il leader M5S scriva una nota subito dopo aver letto l'enews di Matteo Renzi in cui si parla di "numeri ballerini" con una Iv che "potrebbe essere decisiva". È a quel punto che il capo politico replica stizzito: "Se qualcuno intende strumentalizzare questa mozione di sfiducia delle opposizioni per ottenere altro, si assumerà la responsabilità delle conseguenze. Mi aspetto che la maggioranza voti compatta". Più che un invito all'unità quello di Crimi si trasforma così in una "contro-minaccia" a quella renziana.
In casa Cinquestelle l'irritazione è evidente, anche se tutti sembrano convinti che l'ex premier stia semplicemente bluffando per ottenere qualche poltrona in più e imporre qualche punto programmatico considerato irricevibile dai grillini, come la riforma della riforma Bonafede sulla prescrizione. Ancora più irritante, per alcuni esponenti M5S, la beffa con cui Renzi invita i suoi militanti a fornire suggerimenti sul comportamento da tenere in Aula: "Voi che idea vi siete fatti? Vi leggo con grande attenzione, come sempre", scrive il leader di Iv, stimolando una sorta di "dibattito dal basso" e virtuale sul modello grillino per anni irriso.
E in questo clima, l'azione politica del Guardasigilli, messa sotto la lente d'ingrandimento delle opposizioni, passa in secondo piano. Tutto si riduce a un tiro alla fune per vedere chi riuscirà a tirare giù l'altra squadra, con Bonafede a fare solo da sfondo. Ma alla fine, è convinzione diffusa, nessuno tirerà così tanto da far spezzare la corda.
Non lo vogliono i renziani, non lo vogliono ovviamente i grillini e probabilmente non lo vogliono neanche le opposizioni che senza il paravento di Conte sarebbero costretto a metterci la faccia nella complicatissima gestione della "fase 3" dell'emergenza, quella della ripartenza con la retromarcia innestata.
Ma anche se certi del "bluff" renziano, i grillini non possono permettersi il lusso di lasciare il "corpo" di Bonafede esposto agli attacchi incrociati. tanto che il presidente del Consiglio decide di rinviare di due giorni l'informativa alle Camere, prevista per oggi, per illustrare il nuovo decreto della presidenza del Consiglio sulla fase 2. Tutto spostato a giovedì, dopo il voto di fiducia al ministro. Una scelta che fa urlare allo scandalo le opposizioni.
Ma grillini vogliono lanciare messaggi chiari agli alleati e tirano dritti per la loro strada. Il giormo prima era toccato addirittura al ministro degli Esteri ed ex leader 5S (con ambizioni di ritorno in sella) Luigi Di Maio prendere le difese del compagno di partito in diretta tv. "Ciò che posso dire è che per il ministro parlano le leggi che ha approvato", ha spiegato, intervistato da Fabio Fazio. "Ha approvato una legge anti-corruzione che ha ricevuto complimenti delle Nazioni Unite e leggi che hanno inasprito i reati per lo scambio politico-mafioso".
Precisazioni apparentemente scontate e banali all'apparenza, ma che parlano parole chiare a un elettorato grillino sempre più confuso e disorientato. Il M5S deve infatti suturare una ferita aperta col proprio popolo, perché le frasi pronunciate dall'ex pm della "trattativa Nino Di Matteo" - e quel conseguente sospetto che Bonafede possa essere stato condizionato da pressioni mafiose per le sue nomine - fanno ancora male per chi ha fatto dell'onestà e della trasparenza un programma politico.
Le dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini, per la vicenda scarcerazioni, l'addio del capo di gabinetto di Via Arenula Fulvio Baldi, per le intercettazioni con Palamara, sono solo il corollario del dramma pentastellato. Ma i travagli interni non contano. Mercoledì i grillini si aspettano lealtà dagli alleati.
di Liana Milella
La Repubblica, 19 maggio 2020
Il segretario di +Europa si rivolge a Renzi. Oggi l'ex ministro Boschi va a palazzo Chigi. Incerto il voto di Italia Viva contro il Guardasigilli. "Il nostro è un no alla politica fallimentare sulla giustizia di Bonafede. Pd e renziani ne traggano le conseguenze". Il segretario di Più Europa Benedetto Della Vedova spiega a Repubblica.it perché il suo gruppo ha presentato la mozione di sfiducia contro il Guardasigilli di M5S Alfonso Bonafede che sarà discussa mercoledì al Senato con quella del centrodestra.
Perché avete battezzato con il nome di Tortora la vostra mozione contro Bonafede?
"Per una ricorrenza temporale, perché proprio oggi ricorre l'anniversario della morte di Enzo Tortora. Perché lui è stato ed è l'emblema della battaglia politica e di mobilitazione per una giustizia giusta che renda operative tutte le garanzie costituzionali. Trent'anni fa in ballo c'era la carcerazione preventiva e la responsabilità dei magistrati. Oggi la nostra mozione contesta l'approccio e la politica del ministro Bonafede al di là degli episodi più recenti. Un approccio e una politica disordinata e confusa, improntata al populismo giudiziario, ai processi mediatici più che a quelli condotti nel dibattimento, a un'idea panpenalista e manettara".
Una mozione di Più Europa, cioè dei radicali, anche con Forza Italia? Non è politicamente anomalo?
"Più Europa ha anche un background radicale, ma non solo. Trovo importante che su una mozione di stampo garantista e liberale ci sia stata la convergenza anche del gruppo parlamentare al Senato di Forza Italia. Non credo ci sia da stupirsi. Abbiamo scritto la mozione, l'abbiamo inviata, abbiamo avuto un riscontro positivo su un testo limpido. Ma io ringrazio molto Forza Italia perché facciamo un'opposizione diversa, europeista e liberale rispetto a questo governo".
La vostra sfiducia è come quella di Lega e Fdl? Anche questo non è una coincidenza singolare?
"Noi siamo da subito e da sempre all'opposizione di Bonafede nel Conte Uno e nel Conte Due. Abbiamo scelto questa posizione con convinzione anche per il Conte Due denunciando la continuità con il Conte Uno soprattutto sui temi della giustizia. Stesso ministro e stessa politica. Stessi decreti sicurezza. Sulla prescrizione siamo scesi in piazza a gennaio, e da allora non è cambiato nulla. Pd e Italia viva hanno accettato che prevalesse la logica populista di Bonafede. Adesso non c'è più la prescrizione e non si vede non solo l'ombra del processo breve, ma neppure di un disegno di legge. E comunque l'abolizione della prescrizione in Italia è uno scempio giuridico".
Quindi il voto con la destra non vi imbarazza?
"Il nostro obiettivo è la sfiducia a Bonafede. Siamo stati e siamo all'opposizione. Non c'è nessun imbarazzo. Abbiamo presentato le nostre buone ragioni per la sfiducia a Bonafede. Semmai l'imbarazzo dovranno averlo i senatori del Pd e di Iv, se decideranno di confermare la fiducia al ministro del populismo giudiziario, che non si occupa di carceri, che ha una concezione meramente afflittiva della pena, che ha voluto abolire la prescrizione senza dare altri rimedi, che ha pensato di sospendere i processi in dibattimento sostituendoli con quelli a distanza (poi con una parziale correzione), che non ha nessuna idea di riformare il Csm per sminare la logica correntizia. Se poi a Pd e Iv questo ministro e questa politica della giustizia va bene, anche se il Bonafede del Conte Due è peggiore di quello del Conte Uno, allora l'imbarazzo è tutto loro".
Dica la verità, state dando una mano a Renzi con i numeri per rafforzare la sua polemica contro il governo....
"Guardi, la nostra polemica è con il governo a 360 gradi sull'economia, su Alitalia, sul Mes, sulla gestione della crisi, sulla riapertura a cui stiamo andando del tutto impreparati, senza test, senza tracciamenti, senza App. Non abbiamo problemi a riconoscere le eccezioni in questo quadro desolante, come la regolarizzazione dei migranti".
Ma Renzi allora?
"Lui deve scegliere se stare in questo governo, e quindi pensare che questo sia il governo migliore sulla giustizia e più in generale per portare l'Italia fuori dalla palude. Se lo pensano fanno un grosso errore di prospettiva. Sia perché questo non è il governo adatto per affrontare la peggiore crisi mai vista che è davanti a noi e non alle spalle. Sia perché, in termini politici, scegliere l'alleanza che diventa strutturale, come lo è per il Pd, con i populisti significa rinunciare alla costruzione di un'area europeista, liberale e riformatrice arrendendosi all'idea che in Italia o si sta con i populisti oppure con i nazionalisti".
Se cade Bonafede cade tutto il governo però...
"Questo è un problema che riguarda M5S. Noi siamo all'opposizione, quindi prima se ne va questo governo e ne arrivare uno migliore, e meglio è. Ma questa mozione per noi rappresenta la sfiducia al singolo ministro e alla sua politica. E non c'è ragione perché debba cadere tutto il governo. A meno che non sia interna ai partiti della maggioranza e al M5S, che come nella Fattoria degli animali hanno fatto la rivoluzione contro la casta e sono diventati molto peggio della casta".
Insomma, cosa vi ha spinto a presentarla? Una forma di presenzialismo al Senato?
"È un gesto di coerenza rispetto a quello che abbiamo sempre detto su questo governo e sulla politica della giustizia. E, me lo faccia aggiungere, l'impronta garantista di Più Europa, un partito che ha poco più di due anni, è chiarissima, ma soprattutto la biografia e le lotte sulla giustizia di Emma Bonino sono sotto gli occhi tutti ed è evidente che non c'è alcuna strumentalizzazione, ma la prosecuzione di un impegno decennale per una giustizia giusta".
Ma nel merito cosa rimproverate a Bonafede? Le scarcerazioni dei mafiosi? Però voi radicali siete stati sempre molto garantiresti con i malati....
"A Bonafede io rimprovero lo stato delle carceri. Non è che prima fossero meglio, ma in due anni lui non ha fatto nulla di positivo, perché la logica del populismo giudiziario è 'marcite in galera'. Quindi col Covid ci si è trovati del tutto impreparati. Poi c'è un tema di separazione dei poteri, per cui è la magistratura che decide le scarcerazioni e non il potere politico. Ma lui ha gestito in modo confuso e contraddittorio anche la fase del Covid".
E su Di Matteo? State con il pm del processo Trattativa?
"Su Di Matteo, in questa vicenda, per quel che mi riguarda, non stiamo con nessuno. È una pessima prova sia del ministro che di un membro del Csm, e ha dato luogo a uno scontro istituzionale che finisce solo per andare a danno dei detenuti e dello stato delle carceri di cui si discute non in termini di civiltà, ma solo di strumentalizzazione. Per noi mercoledì c'è in discussione il ministro e la sua politica sulla giustizia. Con o senza Bonafede continueremo a fare opposizione".
di Francesco Damato
Il Dubbio, 19 maggio 2020
Complice addirittura la buonanima di Enzo Tortora, nel 32. mo anniversario della morte, si è terribilmente complicato il pasticciaccio di via Arenula. Di cui il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede può essere visto, secondo i gusti o le opinioni, come vittima o colpevole e quindi, rispettivamente, da assolvere o da sfiduciare mercoledì prossimo nell'aula del Senato.
Dove all'originaria mozione del centrodestra - una volta tanto, e a sorpresa, ricompattatosi ai vertici per la deroga decisa, sembra personalmente da Silvio Berlusconi in Provenza, alla contrarietà per principio alla sfiducia individuale- se n'è aggiunta una della radicale ed ultraeuropeista Emma Bonino. Che, firmata anche da alcuni forzisti evidentemente dissidenti rispetto all'adesione a quella dei leghisti e dei fratelli d'Italia, è stata intestata dalla stessa Bonino alla memoria appunto di Tortora, protagonista della vicenda più emblematica di una cattiva amministrazione della giustizia in Italia.
Il popolare conduttore televisivo, accusato di camorra, riuscì ad essere alla fine assolto ma rimettendoci la salute, e la vita stessa. Sotto la spinta del suo dramma si svolse nel 1987 un referendum, stravinto dai promotori ma poi contraddetto in gran parte da un intervento legislativo, contro le norme protettive dei magistrati in ordine alla responsabilità civile per i loro errori. La mozione della Bonino è stata studiata apposta - lamentano e temono in modo speciale nel Pd- per tentare nella maggioranza i renziani, da sempre in polemica con Bonafede per non aver voluto condizionare ad una riforma concreta e operante del processo penale quella della prescrizione, che dal 1° gennaio scorso cessa con la sentenza di primo grado.
Oltre o più ancora della mozione della senatrice Bonino e di quella del centrodestra, ad agitare le acque, volente o nolente, è stata tuttavia una intervista a Repubblica della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che ha lamentata la "opacità" dell'inedito scontro consumatosi, sia pure a distanza, tra un ministro della Giustizia e un consigliere superiore della magistratura. Quest'ultimo è il notissimo magistrato d'accusa del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia della stagione stragista Nino Di Matteo.
Il consigliere nel pieno delle polemiche sulle scarcerazioni di centinaia di detenuti di mafia e simili disposte durante l'emergenza virale dai magistrati competenti per ragioni di salute e rischio di contagio, che avevano investito - secondo me - a torto il guardasigilli, difesosi poi - sempre secondo me - a torto, pure lui, con un decreto legge dichiaratamente finalizzato a far recedere i magistrati dalle loro prime deliberazioni, ha contestato a Bonafede una vicenda di due anni fa.
Risale infatti a giugno del 2018 un'offerta fatta dal guardasigilli ancora fresco di nomina a Nino Di Matteo, ancora in servizio come magistrato e molto popolare fra i grillini, la guida del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, salvo ripensarci dopo una notte a favore di un altro magistrato.
Che è stato dimesso di recente proprio per le polemiche sulle scarcerazioni. Disgraziatamente per Bonafede, che si è sentito offeso dalle insinuazioni alle quali si è quanto meno prestata la sortita di Di Matteo nella lettura fattane dagli avversari politici o critici del guardasigilli, quel ripensamento di due anni fa coincise con le proteste levatesi nelle carceri fra i detenuti di mafia al solo arrivo delle voci che davano incombente lo stesso Di Maio, ben prima quindi che egli ricevesse l'offerta dal ministro.
Probabilmente nell'avvertire la "opacità", ripeto, di tutta la vicenda e nel sollecitare un pronunciamento del Consiglio Superiore della Magistratura in veste anche di ex esponente di quel consesso, la presidente del Senato ha voluto riferirsi alla posizione di Di Matteo. Che è stato del resto pubblicamente criticato per il suo scontro col ministro da autorevoli magistrati, fra i quali l'ex capo della Procura della Repubblica di Torino Armando Spataro, non certamente sospettabile di lassismo giudiziario o di indulgenza verso il governo di turno nell'espletamento delle proprie funzioni, quando e dove le svolgeva.
Tuttavia, pur interpretabile in questo modo, cioè più a favore che contro il ministro della Giustizia, l'intervento della presidente del Senato ha obiettivamente contribuito ad aumentare l'esposizione politica del passaggio parlamentare che attende il guardasigilli.
Il cui ruolo anche di capo della delegazione grillina al governo, dopo la sostanziale rimozione di Luigi Di Maio successiva alle sue dimissioni da capo politico del movimento, espone la maggioranza ad un supplemento di rischi se essa non dovesse reggere allo scontro con le opposizioni. O, se preferite, se i renziani dovessero davvero farsi tentare dalla mozione della senatrice Bonino, che creerebbe loro minori problemi, o imbarazzi, della mozione del centrodestra.
di Salvatore Merlo
Il Foglio, 19 maggio 2020
Bonafede come Alfano. Il ministro che non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo. È il ministro che non molla la poltrona perché sa che il governo è troppo debole per cacciarlo. E infatti ogni minuto che passa senza che Alfonso Bonafede dia le dimissioni, in attesa della mozione di sfiducia di domani, consegna lui e il Movimento cinque stelle all'eternità di foresta della politica italiana, all'eterno ritorno dell'uguale.
Perché proprio il metodo Bonafede che i grillini stanno sperimentando in questi giorni è quello antico del ministro esautorato ma salvato, dell'impresentabile ma blindato anche alle mozioni di sfiducia, il ministro inetto di cui tutti ridono, compresi gli amici e gli alleati, il ministro che tutti considerano inadeguato e che pure non si può toccare perché, come ben dice Pier Ferdinando Casini, "non si può mica aprire una crisi di governo".
Ed ecco dunque che riemerge un cliché della politica di sempre, nuova e vecchissima storia, la stessa di Scajola e di Alfano, in tempi diversissimi, la stessa degli ormai preistorici ministri della Prima Repubblica. Abbastanza, insomma, da ritenere che l'equivoco grillino sia definitivamente entrato nel solito gioco italiano di paraventi e di furbacchioni: i Cinque stelle, con il loro esercito di ex emarginati fattisi parlamentari e ministri, quella classe dirigente reclutata da Grillo e Casaleggio con i metodi bizzarri e sempliciotti che abbiamo imparato a conoscere, hanno un pacchetto azionario che può mandare all'aria tutto il progetto politico del governo rossogiallo.
Così domani l'opposizione cercherà di incunearsi come può in questa vicenda, ma senza troppo crederci. La Lega pensa di ritirare la propria mozione di sfiducia e di convergere su quella firmata da Emma Bonino che già ospita tre senatori leghisti, mentre Giorgia Meloni invece inarca le sopracciglia perché non ci crede affatto che Matteo Renzi alla fine sarà conseguente con la minaccia di votare contro Bonafede, in quanto ci sono - appunto - storie e paradigmi che in politica sono destinati a ripetersi nel tempo. E quello dell'inadeguato-salvato è precisamente un topos letterario, un luogo comune della cronaca politica italiana. Compresa la contorta difesa dell'impunito, tutta costruita sull'imbarazzo, sul balbettio e sulla contraddizione.
Basta infatti ascoltare i (mal)umori del Pd per capire. "Sostituire Bonafede? Ma magari. Ottima idea", si faceva sfuggire, già mesi fa, Alfredo Bazoli, il capogruppo del Pd in commissione Giustizia. Mentre il vicepresidente della commissione, Franco Vazio, sempre del Pd, gli rispondeva così: "Ma no, dobbiamo tenercelo. Chissà chi verrebbe dopo. Guarda che al peggio non c'è mai fine".
E insomma lo attacco ma lo difendo, non mi piace ma lo tengo lì, è un incompetente ma non gli voto la sfiducia. Bonafede poteva dimettersi, certo, e qualcuno ci aveva anche provato a suggerirglielo, come Graziano Delrio. Le dimissioni, date prima che ti ci costringano, infatti nobilitano e sono eleganza. Ma per questo sono anche un'attività ben poco praticata.
Figurarsi dai Cinque stelle. Figurarsi da Bonafede, che esercita la sua attività di ministro della Giustizia con lo stesso spirito di quello che ha vinto incredibilmente la lotteria e quindi custodisce il fortunato biglietto in un doppio fondo cucito nelle mutande.
Quando gli ricapita? Eppure Emma Bonino gli ha costruito una mozione di sfiducia abbastanza affilata da potergli anche scucire quei mutandoni di latta. Bonafede è il ministro che, sospeso tra ignoranza e fanatismo, ha concentrato "la sua azione contro i fondamentali princìpi della civiltà giuridica": dalla violazione del principio di ragionevole durata del processo allo svilimento delle impugnazioni, dalla negazione del fine rieducativo della pena all'abrogazione di fatto della presunzione di non colpevolezza, dalla rivolta delle carceri alla riforma inquisitoria delle intercettazioni.
Ed è inoltre il ministro che annunciava - ma non presentava - una riforma del sistema elettorale del Csm per sottrarlo allo strapotere delle correnti proprio mentre il suo stesso ministero diventava oggetto di scontri e polemiche legate all'influenza delle correnti della magistratura associata nelle nomine di magistrati fuori ruolo, una storia che appena pochi giorni fa ha portato alle dimissioni del suo capo di gabinetto.
Ma in Italia, si sa, si dimettono soltanto gli innocenti o i capri espiatori (non solo il capo di gabinetto ma anche quello del Dap) e invece resistono, con le unghie e con i denti, i colpevoli e soprattutto i furbacchioni, che sono una sottomarca degli intelligenti.
Bonafede è per la giustizia come il generale Cadorna che, dopo Caporetto, scaricò la responsabilità del suo tragico comando sui soldati (morti): "La viltà dei nostri reparti ha permesso al nemico". E come ben si vede è tutto già successo, e i grillini semplicemente si adattano, reiterano, imitano e ci ricordano ogni giorno come tutte le rivoluzioni italiane finiscano allo stesso modo: a tavola.
di Alfredo Ferrante
linkiesta.it, 19 maggio 2020
La maretta ai piani alti del Ministero della Giustizia non ha solo implicazioni di natura politica ma deve spingere a valutare le ricadute in termini di funzionamento della macchina dello Stato.
C'è decisamente maretta ai piani alti di Via Arenula a Roma, nelle stanze che contano al Ministero della Giustizia: le vicende che, da ultimo, hanno interessato alcune nomine nel ministero meritano un'analisi dal punto di vista istituzionale e di funzionamento della macchina.
La scintilla nasce, come noto, dalla scarcerazione e messa ai domiciliari lo scorso mese di aprile di alcuni detenuti sino a quel momento in regime di carcere duro (cosiddetto 41bis) da parte dei giudici incaricati di valutarne lo stato di salute.
La scarcerazione, è stato sostenuto, seguiva la mancata risposta da parte del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) del ministero circa l'individuazione di strutture alternative e sorvegliate cui destinare i detenuti per mafia in 41-bis. Si capirà se tale esito sia stato conforme alla legge o se fosse stato opportuno, invece, disporre un trasferimento in una struttura sanitaria sorvegliata.
Sta di fatto che, anche a seguito delle vivaci polemiche sollevate dalla trasmissione "Non è l'arena" su La7, il 2 maggio il capo del Dap Francesco Basentini - al quale erano state già rivolte accuse per la cattiva gestione delle rivolte carcerarie di qualche settimane prima - si dimette, sostituito da Dino Petralia. Nel corso della successiva puntata del 3 maggio di "Non è l'arena", nel pieno della bufera mediatica, un nuovo scoop: telefona in trasmissione Nino di Matteo, notissimo magistrato oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura, che racconta - riferendo, in maniera assai poco ortodossa, interlocuzioni riservate - che nel 2018 gli era stato proposto dall'allora neo Ministro Alfonso Bonafede di dirigere il Dap.
Sostiene, inoltre, Di Matteo che alcune informative avevano dato notizia dell'inquietudine di capimafia rispetto alla sua possibile nomina e che il Ministro aveva pochi giorni dopo cambiato idea, offrendogli il posto che fu di Falcone presso il Dipartimento degli Affari Penali. Interviene in trasmissione, pochi minuti dopo, lo stesso Ministro della Giustizia che si dice esterrefatto di quanto dichiarato e nega che la sua scelta possa essere stata condizionata da quelle informative, cosa che ripeterà in Parlamento l'11 maggio. Insomma, un vero e proprio cortocircuito fra poteri dello Stato che, aldilà delle polemiche di natura politica, che qui non interessano, impongono qualche riflessione. Non sono infatti mancate, anche in questo caso, le polemiche avverso la burocrazia, cui addossare il possibile disguido che ha impedito di dare velocemente risposta ai quesiti dei giudici di sorveglianza, rendendo più difficile il lavoro dei magistrati e facilitando quanto accaduto: i soliti burocrati, insomma.
Posto che i fatti saranno acclarati in dettaglio da chi di dovere, forse sorprenderà qualcuno sapere che l'ex capo del Dap era, in realtà, un magistrato. Così come l'attuale capo del Dap. E così come la stragrande maggioranza di coloro i quali, posti fuori ruolo per la durata del loro incarico, ricoprono posizioni dirigenziali all'interno del Ministero della Giustizia, occupandosi della gestione amministrativa degli uffici e delle strutture assegnate. È lecita, allora, una domanda: perché affidare strutture amministrative ad un magistrato?
L'esempio del Dap è calzante: su quella struttura grava l'impegno di gestire l'enorme complessità - amministrativa, contabile, di personale - delle carceri Italiane, un gravame da far tremare i polsi e che poco ha a che fare, è del tutto evidente, con la funzione giurisdizionale. Tale funzione è, invece, riservata dalla Costituzione ai giudici, soggetti solo alla legge. Ed è un bene che sia così: nessun economista, sociologo o amministratore pubblico si sognerebbe di amministrare giustizia in un tribunale o di esercitare le funzioni di pubblico ministero. Una bizzarria che la nostra Carta e la legge non consentono.
E allora perché vale il contrario? Sia chiaro: qui nessuno intende attaccare i giudici. Il loro lavoro è prezioso ed indispensabile per il corretto svolgersi della dinamica sociale, ed è notorio che in molti sono costretti a compiere il loro dovere in regime di protezione, a causa delle minacce ricevute e del pericolo di vita i cui incorrono per svolgere la loro attività. I nomi di Falcone e Borsellino, fra i tanti, troppi magistrati caduti, ne sono testimoni. Qui si pone un tema più generale che attiene al corretto funzionamento delle istituzioni, per il quale dovrebbe sempre valere il semplice principio per cui a ciascuno spetti di svolgere il lavoro per cui sia competente, quello per il quale ha studiato e si è formato. Senza sollevare in alcun modo casi personali, è ragionevole immaginare che, dal punto di vista delle professionalità possedute, un dirigente amministrativo possa ottenere risultati dignitosi nel gestire strutture che, per essere governate, abbisognano senza meno di rudimenti in materia di diritto amministrativo, contabilità di Stato, management pubblico e, perché no, capacità relazionali e di squadra.
A meno, naturalmente, di ritenere che le normali regole di specializzazione professionale non si applichino, quasi per innata disposizione, ai magistrati. Non casualmente Sabino Cassese ha recentemente parlato di "magistratizzazione" del Ministero della Giustizia, aggiungendo che "i magistrati sono scelti per giudicare ma vengono assegnati a compiti amministrativi per cui non sono idonei perché non addestrati, né specializzati a questa funzione".
Se si aggiunge, en passant, l'aspetto tutt'altro che banale della singolare commistione fra potere esecutivo e giudiziario, appare chiaro che ci si trova di fronte ad una anomalia assoluta che dovrebbe preoccupare politica e pubbliche opinioni, sia per l'inusuale assegnazione a funzioni amministrative, sia per la contestuale scopertura di posizioni giudicanti nel sistema giudiziario.
Il fenomeno delle carriere parallele per i magistrati destinati a funzioni extragiudiziarie appare, infatti, alla luce delle scoperture di organico e della notoria lunghezza dei tempi dei processi, un tema che dovrebbe entrare nell'agenda di ogni Governo, quale che sia la maggioranza che lo sostiene. In questo quadro, non può allora non provocare sconcerto leggere le intercettazioni delle conversazioni fra Luca Palamara, ex pm sotto inchiesta a Perugia per corruzione, e Fulvio Baldi, capo di Gabinetto del Ministro Bonafede, recentemente dimessosi (anche Baldi, naturalmente, è un giudice): dalla lettura degli scambi, che non hanno naturalmente alcuna rilevanza penale, pare emergere quello che ha tutto l'aspetto di un vero e proprio mercato delle vacche delle nomine, in base al quale si dispone di posizioni da dirigente e dirigente generale nel Ministero della Giustizia, da "assegnare" sulla base dell'appartenenza correntizia in spregio al principio per cui nelle pubbliche amministrazioni il conferimento degli incarichi dirigenziali avviene sulla base di interpelli aperti e competitivi, a seguito dei quali affidare la posizione alla persona più adatta. Sperabilmente.
Una patologia che non deve riferirsi alla fisiologia, evidentemente: la quale, nondimeno, rappresenta una vera e propria invasione di campo che riemerge periodicamente in tutta la sua attualità e che, seppur limitata nei numeri rispetto all'insieme dei giudici in servizio oggi in Italia, deve destare l'attenzione di chiunque abbia a cuore il corretto funzionamento della macchina dello Stato.
di Andrea Fabozzi
Il Manifesto, 19 maggio 2020
Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati risponde alle proposte del vice segretario Pd Orlando dicendo sì alla riforma del Csm ma no a far valutare le toghe anche dagli avvocati: è un problema di autonomia non di autoreferenzialità
Luca Poniz, presidente dell'Associazione nazionale magistrati, domenica in un'intervista al manifesto il vice segretario del Pd Andrea Orlando ha accusato la magistratura associata di non essere stata capace di una riflessione seria sul caso Palamara e i fatti messi in luce dall'inchiesta di Perugia...
Deve essersi distratto, mi meravigliano molto questi rilievi. L'onorevole Orlando non si è accorto che l'Anm ha chiesto subito le dimissioni dei magistrati del Csm coinvolti, dimissioni arrivate; che abbiamo sviluppato le nostre riflessioni in una lunga serie di incontri che hanno portato tra le altre cose all'auto riforma del nostro codice etico. Orlando deve essersi perso anche il nostro congresso, e le tante riflessioni dedicate ai molti temi oggi riemersi, che è stato in buona parte dedicato a questo. Eppure l'abbiamo fatto a Genova e lui è ligure.
Dunque è d'accordo ad anticipare la riforma del Csm?
Non solo sono d'accordo, ma è una riforma che l'Anm chiede da tempo, da ben prima dall'emersione un anno fa delle vicende su cui indaga Perugia.
Ok anche a una nuova legge elettorale per i togati che limiti il potere delle correnti?
Vorrei conoscere con precisione la proposta. L'obiettivo è condivisibile, ma non si può raggiungere solo con i meccanismi. Non c'è un sistema elettorale che risolve la patologia delle correnti che è innanzitutto culturale.
E gli accordi tra correnti sugli incarichi, le cosiddette "nomine a pacchetto"?
Sono un problema serissimo, messo in luce anche dalle recenti vicende. Le intercettazioni restituiscono relazioni improprie di gruppi di magistrati, credo più di quanti non si pensi, interessati a fare carriera e disposti a tutto per farlo. Aggiungo che va fatta una riflessione anche sui magistrati fuori ruolo che pongono due tipi di difficoltà. Prima perché vengono selezionati sulla base di un rapporto fiduciario con il mondo politico e dopo per il loro rientro nell'organico e in incarichi molto ambiti, che talvolta le relazioni consentono di ottenere più facilmente.
Magistratura indipendente, la corrente di destra che non partecipa al governo dell'Anm, vi accusa di non dire più niente sull'inchiesta di Perugia da quando sono uscite intercettazioni sulle toghe di sinistra...
Respingo la critica. Non abbiamo poteri disciplinari, ma già da 15 giorni ho chiesto al procuratore di Perugia l'intera serie degli atti dell'inchiesta per mettere al lavoro i nostri probiviri. Dobbiamo valutare tutti i fatti, non solo i frammenti e gli scampoli che vengono pubblicati. Aggiungo che la richiesta degli atti l'avevamo fatta già molti mesi fa ma tutti, dalla procura al ministro al Csm, ce li avevano negati.
Processo penale. L'Anm è favorevole a una robusta depenalizzazione? E a incentivare i riti alternativi?
Diciamo di sì, ma serve di più. Occorre riscrivere il codice penale del 1930 nella direzione di un diritto penale minimo, togliersi di dosso l'idea che la società possa essere governata dal codice penale. Il rito accusatorio regge solo se si arriva a processo in poche e necessarie circostanze. Il rito abbreviato non è un abominio ma un patto tra ordinamento e imputato. È stato un grave errore del governo 5 Stelle-Lega escluderlo proprio dove funzionava di più, per i reati con la pena più alta. Allora ci fu spiegato che la decisione serviva a mandare un messaggio. Ma la giustizia non si governa inseguendo la popolarità del momento.
Il Pd propone che gli avvocati entrino con più peso nelle valutazioni di professionalità dei magistrati. Lo accettereste?
Gli avvocati partecipano già alle sedute dei consigli giudiziari. Nella mia esperienza lo fanno in un modo piuttosto timido. Anche quando possono interloquire con le scelte e i progetti organizzativi delle procure non sembrano essere particolarmente interessati. Su una cosa la magistratura è invece molto ferma: attenzione alle valutazioni di professionalità nelle quali pesino di più gli avvocati. Affidare alle controparti processuali i meccanismi di controllo pone dei problemi molto importanti, di cui bisogna avere piena consapevolezza: problemi che hanno a che fare con l'autonomia e l'indipendenza del magistrato non con la presunta autoreferenzialità.
Domani si vota la sfiducia al ministro della giustizia...
La interrompo, su questo non posso e non voglio dire niente.
Può dirmi che ne pensa di tutta la vicenda delle scarcerazioni...
Guardi, la magistratura di sorveglianza svolge una funzione essenziale, le sue decisioni non devono essere lette strumentalmente in funzione della lotta a questo o a quel fenomeno criminale. Il magistrato deve decidere sulla base di parametri che non hanno niente a che vedere con la mera esigenza securitaria. Nel nostro ordinamento non ci sono zone d'ombra dove, magari per le caratteristiche di un imputato o di detenuto, ci si dimentica dell'art. 27 della Costituzione.
di Paolo Corni
Il Riformista, 19 maggio 2020
Travolti dalla pubblicazione di colloqui privati con Luca Palamara, i giudici gridano alla violenza dell'essere intercettati e sputtanati. Nella mitologia greca era la nemesi. Dante la definiva la legge del contrappasso. Nei tempi moderni è il boomerang. È quanto sta accadendo in queste ore alle "toghe rosse" di Magistratura democratica, travolte dalla pubblicazione dei colloqui di alcuni autorevoli magistrati progressisti con l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara.
I colloqui, contenuti nel fascicolo di Perugia aperto a carico di Palamara per il reato di corruzione, non hanno nulla di penalmente rilevante. Rischiano, però, di mettere in grande imbarazzo i magistrati di sinistra che lo scorso anno, sulla base di altre intercettazioni contenute nel medesimo fascicolo e dove i protagonisti erano i colleghi della corrente di destra di Magistratura indipendente, evocarono lo spettro della P2 di Licio Gelli.
"È in atto un attacco concentrico di una parte della stampa e di una parte della magistratura" scrive in una nota il Coordinamento di Area, il raggruppamento di cui fa parte Md. "Si riportano - prosegue - stralci di atti giudiziari che rappresentano segmenti di fatti che vengono poi completati e chiosati ad arte, al fine di accreditare un malcostume diffuso a tutti i livelli della magistratura: una notte oscura nella quale tutti gatti sono grigi".
"Manovrando il linguaggio con sapienza, si riescono a costruire infinite "verità" e oggi si cerca di confondere quella vicenda, pericolosa per le istituzioni, con atteggiamenti e comportamenti dei nostri odierni rappresentanti, che nulla hanno a che vedere con il corretto esercizio della loro attività istituzionale", continua la nota di Area.
"Non siamo disposti a tollerare operazioni mediatiche preordinate a confondere le responsabilità per giungere ad una generale assoluzione che lasci tutto come sempre è stato" conclude la nota. Sul fronte dell'Anm, invece, la giunta esecutiva ha fatto sapere di aver chiesto tutti gli atti del fascicolo "Palamara" alla Procura di Perugia al fine di verificare l'eventuale sussistenza di violazioni di natura "etica" e/o "deontologica" da parte degli iscritti coinvolti nei colloqui riportata.
Il caso più rilevante riguarda quello del giudice Angelo Renna di Unicost, attuale componente della giunta Anm, che lo scorso anno definì la vicenda Palamara una "Caporetto per la magistratura". "Non mi muovo senza che tu mi dica cosa fare, sei certo molto più bravo di me", scriveva Renna, che voleva diventare aggiunto a Milano, a Palamara.
"Grazie, quasi mi vergogno ma mi emoziono" la successiva risposta di Renna all'interessamento di Palamara. Esclusi i profili penali, l'attenzione delle toghe si concentra ora sulle violazioni deontologiche e disciplinari. Massimo Vaccari, giudice del Tribunale di Verona, ricorda a tal proposito che Giuseppe Cascini è componente della sezione disciplinare che l'anno scorso condannò un magistrato che, fra l'altro, aveva richiesto (come parrebbe abbia fatto l'ex aggiunto di Roma) per alcuni componenti della sua famiglia dei "biglietti gratuiti per assistere alle partite di una squadra di calcio".
Nella motivazione del provvedimento la disciplinare aveva evidenziato come "anche a causa della rilevanza mediatica del procedimento, gli episodi contestati sono divenuti di comune dominio ed hanno pertanto determinato un grave e oggettivo 'vulnus' della credibilità professionale del magistrato, dinanzi all'opinione pubblica ed agli ambienti forensi, non compatibile con l'esercizio delle funzioni".
Il codice deontologico delle toghe, approvato dall'Anm su proposta di una Commissione di cui avevano fatto parte Palamara e Cascini, prevede che il magistrato corretto "non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri".
Tornando al 2019, vale la pena ricordare che il togato di Mi Paolo Criscuoli, poi dimessosi per aver partecipato pur senza intervenire alla nota cena con i deputati Ferri e Lotti, fu "invitato", circostanza mai smentita, a non entrare in Plenum per non mettere in imbarazzo i colleghi.
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