di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 19 maggio 2020
La Consulta ha deciso su una questione sollevata dal tribunale di Reggio Calabria. Non è costituzionale il divieto di applicare una diminuzione di pena al condannato pluri-recidivo che risulti affetto da una seminfermità mentale. Parliamo di una recente sentenza della Corte costituzionale che ha come redattore il giudice Francesco Viganò.
La Corte ha esaminato una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria nel corso di un processo penale contro due imputati pluri-recidivi, accusati di furto aggravato. La perizia psichiatrica disposta dal giudice aveva evidenziato gravi disturbi della personalità, che diminuivano in maniera significativa la loro capacità di intendere e di volere, pur senza escluderla totalmente.
Nelle ipotesi di vizio parziale di mente, il Codice penale prevede normalmente la diminuzione della pena fino a un terzo. Con la legge ex Cirielli del 2005, però, al giudice è stato vietato di applicare questa norma nei confronti dell'imputato che, pur se affetto da un vizio parziale di mente, sia recidivo reiterato, ossia abbia già alle spalle almeno due condanne per delitti non colposi. La Corte ha ritenuto che questo divieto contrasti con il principio costituzionale secondo cui la pena deve essere proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del reato, e dunque anche al grado di rimproverabilità del suo autore.
Tutto ha avuto inizio quando il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, con ordinanza del 29 gennaio 2019, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all'art. 89 del codice penale sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all'art. 99, quarto comma del codice penale
Il giudice rimettente ha premesso di essere chiamato a giudicare, in sede di giudizio abbreviato, della responsabilità penale di V. M. e V. V., imputati del reato di furto pluriaggravato commesso in concorso tra loro. Entrambi gli imputati hanno infatti plurimi precedenti per reati contro il patrimonio (rapina, furto tentato e consumato, ricettazione, danneggiamento), alcuni dei quali intervenuti anche in epoca relativamente recente e, in ogni caso, nel quinquennio precedente alla commissione del fatto per il quale si procede.
Nei confronti di entrambi, in più occasioni, è già stata riconosciuta la recidiva (reiterata), ed applicato il relativo aumento di pena. Dalla perizia psichiatrica disposta dal giudice è emersa per entrambi gli imputati un'infermità mentale tale da far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere senza, tuttavia, escluderla, essendo state riscontrate "alterazioni psicopatologiche che soddisfano i criteri diagnostici per il Disturbo della Personalità", nonché le "stimmate psicologiche di un Disturbo da Abuso di Sostanze (oppiacei), oggidì in parziale remissione".
Dal momento che la violazione della legge penale è meno rimproverabile se proviene da una persona con capacità di discernimento e autocontrollo fortemente ridotte a causa di patologie o disturbi della personalità, sono costituzionalmente illegittime norme che, come quella esaminata, impediscano al giudice di diminuire la pena in maniera proporzionata alla minore responsabilità soggettiva del reo.
Tutto ciò, ha sottolineato la Corte, non comporta il sacrificio delle giuste esigenze di tutela della società nei confronti di chi ha già più volte violato la legge penale. Il giudice, infatti, ha la possibilità di disporre l'applicazione di una misura di sicurezza (come la libertà vigilata) nei confronti del condannato una volta che questi abbia scontato la pena, così da contenere la sua pericolosità e, al tempo stesso, fornirgli un aiuto per la cura delle sue patologie, oltre che per aiutarlo a reinserirsi.
di Annalisa Mancini
verona-in.it, 19 maggio 2020
A differenza di altri istituti di detenzione, Verona non ha vissuto rivolte dovute al blocco dei colloqui con i familiari. La Garante Margherita Forestan parla di "buon senso di familiari e detenuti".
Il coronavirus entra nella Casa Circondariale di Montorio già a marzo 2020. Quasi due mesi dopo, a fine aprile, i detenuti positivi al coronavirus sono 29, una ventina le guardie contagiate e un agente finito in rianimazione per crisi respiratoria. Anche i due medici e l'infermiere dell'istituto si ammalano.
Al 5 maggio i detenuti in quarantena presso un'area isolata del carcere sono una quindicina, come ci racconta la Garante per i Detenuti presso il Comune di Verona Margherita Forestan: tutti erano asintomatici, la metà ora è rientrata in cella. Anche per i poliziotti la situazione è nettamente migliorata e al 15 maggio uno solo rimane positivo, dopo che tutti gli agenti penitenziari sono stati sottoposti al tampone.
La situazione della Casa Circondariale di Montorio è simile a quella di tutte le carceri italiane: istituti sovraffollati con protocolli tutti uguali. Nonostante il 26 aprile Verona venga citata insieme a Torino tra i due maggiori focolai nel rapporto del Garante Nazionale per i Detenuti, all'associazione Antigone non sono pervenute segnalazioni di anomalie da parte dei famigliari dei detenuti, che hanno continuato a dialogare attraverso video-chiamate telefoniche o via Skype.
L'associazione Antigone, realtà nazionale che si propone di monitorare la condizione dei detenuti delle carceri italiane, descrive il carcere di Montorio come "la prigione italiana più esposta al Covid 19" ma Alessio Scandurra, coordinatore nazionale dell'Osservatorio di Antigone, non può fornire altri dettagli: "A causa dell'emergenza sanitaria, non siamo più riusciti ad entrare nel carcere di Montorio, perciò è difficile capire che cosa stia succedendo. Sappiamo solo che i detenuti e le loro famiglie sono molto in ansia".
A differenza di altri istituti di detenzione, Verona non ha vissuto rivolte dovute all'inevitabile blocco dei colloqui con i familiari. La Garante Margherita Forestan parla di "buon senso di familiari e detenuti", che avrebbero compreso le motivazioni e il rischio. Si tratta di famiglie italiane e straniere con cui, spiega la Garante, ci sarebbe stata sempre una grande apertura e disponibilità d'orario per visite e colloqui: "Un buon rapporto costruito nel tempo, grazie al lavoro della Direzione e del personale di agenzia penitenziaria di Verona".
Non solo ai familiari è stato impossibile entrare. Da inizio marzo si è fermata anche l'attività delle associazioni che all'interno dell'istituto di Montorio contribuiscono alla formazione e rieducazione dei detenuti.
La scuola in presenza è stata sospesa completamente ma alcuni insegnanti hanno fornito materiale cartaceo agli studenti detenuti (in media 160 ogni anno). Inoltre per la scuola media e i corsi di italiano, d'accordo con il canale tv Telepace, tutti i detenuti stranieri hanno potuto proseguire i corsi di lingua italiana.
Anche il lavoro è stato sospeso ad esclusione di due laboratori: quello per la creazione di mascherine medicali e quello di insacchettamento di patate e cipolle. Ad oggi le persone detenute a Montorio, per lo più uomini, sono 400, ma nell'ultimo anno si è arrivati anche a 530: la diminuzione, ci spiega la Garante Forestan, è dovuto sia alla diminuzione degli ingressi sia al deferimento della pena a causa di malattia o alla concessione degli arresti domiciliari per buona condotta. La Fase 2 è cominciata anche per il carcere e lentamente anche i colloqui con i familiari e le attività dei volontari riprenderanno con le dovute cautele.
di Giuseppe Ferraro
Il Mattino, 19 maggio 2020
In questi giorni di quarantena ho pensato sempre al carcere. Non è mancato chi ha detto di sentirsi agli "arresti domiciliari". Già non manca mai il richiamo carcerario nella letteratura filosofica. Platone parla del corpo come carcere e Socrate tutti lo ricordano non solo per quel "sapere di non sapere" ma perché in carcere a bere la cicuta della condanna a morte.
Eppure in questi giorni mi sono guardato bene dal richiamare la metafora e la condizione carceraria. L'ultima volta che sono stato a Poggioreale è stato la settimana prima delle disposizioni di quarantena. Ci siamo salutati per la prima volta a distanza. Per me che rispondo sempre "ci tocchiamo" a chi mi chiede che cosa faccio nel tenere incontri di filosofia in carcere è stato come sbattere sul muro, gli sguardi erano diversi.
Sì, "ci tocchiamo", diciamo cose che ci toccano, che perciò sentiamo, ci diciamo la verità, parliamo della verità. Non potrebbe essere diverso per chi tiene alla filosofia. A scuola da bambino t'insegnano che le cose concrete sono quelle che si toccano e quelle astratte non si toccano. Da adulto capisci presto l'altra distinzione, le cose certe sono quelle che si toccano, quelle vere sono quelle che ti toccano.
E quel giorno non è stato così. Abbiamo osservato la distanza. Un detenuto ha bisogno di quella stretta di mano, di quel saluto che viene da fuori, perché la libertà è su quella soglia del fuori e dentro te stesso, è incontrare, camminare. Le persone detenute più di ogni altra cosa tengono alle scarpe, i giovani, al minorile, ci tengono ancora di più ad avere scarpe nuove chiusi in una cella. Stando ai domiciliari di quarantena ho capito che non potevo paragonarmi a un detenuto, perché la casa è abitabile, il carcere no.
La casa per essere tale deve avere l'abitabilità, che è la condizione del proprio abitarsi, di ripensare sé stessi, alle proprie abitudini, al passato, a quel che si è stati e diventati. In te redi in interiore homine habitat veritas, ripete Agostino. La verità di sé stessi si abita. Nel carcere manca l'abitabilità, uno che ci sta dentro, in una stanza con chi non conosce, con la tv sempre accesa, con un solo servizio e tutto il resto che non voglio ripetere, non può certo ripensare se stesso e cambiare.
Il carcere produce carcerati. E in questi giorni che non ci sono stati nemmeno i volontari e tutti i servizi esterni è stato davvero difficile, ma si sono anche intraviste cose che fin qui non si sono considerate. Il carcere deve avere l'abitabilità perché è quella che ti fa desiderare la dignità come diritto della libertà. E la dignità te la devi conquistare prima del diritto che devi reclamare.
Allora è la pena stessa che deve essere un diritto, quella per ognuno di ripensare alla propria vita a quel che si è e che non si è diventato e ritornare ad esserlo cambiando legami e relazioni. La pena deve valere la pena, ripeto ogni volta.
Mi guardano straniti, poi però seguono con attenzione. La pena deve valere la pena altrimenti resta una punizione che da colpevole ti fa sentire vittima e non arrivi alla responsabilità di te stesso per i tuoi affetti e la tua città. Il grado di democrazia di un paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri quel grado avrà raggiunto il suo punto più alto. In carcere non ci sono specchi. Non ci si vede, non ci si riflette. Si è visti senza che ci si possa vedere. Si è guardati senza potersi riguardare. Non ne vale la pena, il carcere è solo punizione.
E va bene così per chi non vuole capire, ma per chi capisce è una violenza che ha perduto la sua ragione e resta perciò cieca e cinica, buona a far politica della certezza della pena senza chiedersi della certezza della politica e della funzione educativa dello Stato.
Ricordo sempre Raffaele Cantone che alla bambina che gli chiedeva come si sentiva a punire, rispose che lo Stato non punisce, perché educa. Eravamo all'università dove ci ritrovammo con i bambini di Carpi e Torre del Greco. Ricordo tutta l'attenzione di Cantone, la sua gentilezza, e nella sua voce il compito della giustizia.
Il carcere sta cambiando, da tempo, lentamente, sta cambiando e questi giorni hanno portato a un'accelerazione importante, con la tecnologia, con i colloqui a distanza, ma anche con questo che il dato più semplice da capire, l'abitabilità. C'è bisogno di scelte coraggiose perché giuste. A Poggioreale come altrove si sta facendo tantissimo, inutile negarlo.
Le difficoltà superano gli sforzi. È come in mare aperto dove tutti sono naufraghi, detenuti a quanti ci lavorano, si aspetta sempre chi da terra venga in soccorso e ti liberi dalla confusa agitazione, cominciando a capire. All'inizio dell'epidemia ci sono state le rivolte, sono morti poco meno di venti detenuti.
Protestavano perché non avrebbero sopportato di non poter vedere i familiari. Poi il timore delle direzioni che potessero diventare dei focolai incontrollabili di contagio e fra le linee delle misure di "alleggerimento" alternative si sono inserite le concessioni pericolose. Fra i malati terminali che vengono dal 41 bis si sono mischiati quelli immaginari e allora tutto è refluito nella polemica e ai proclami della certezza della pena sostenuta da politici incerti, con l'"indietro tutta" del bailamme fra buonisti e cattivisti.
Mischiati ai detenuti del disagio sociale ci stanno i fine pena mai, cioè a termine pena 31 dicembre del 9999, che sarà anche giusta per chi non bastano 400 anni, ma che decade di giustizia per chi bastano anche dieci anni e ancora meno per cambiare strada, vita e relazioni. In tutti questi anni ho capito che le situazioni spiegano le cose e le giustificano anche, ma sono poi le relazioni che cambiano cose, situazioni e persone. Nello stesso palazzo puoi trovare chi diventa magistrato e chi detenuto.
Il Dubbio, 19 maggio 2020
Roma, Milano, Napoli, Bari, Taranto, Palermo: tribunale che vai, linee guida che trovi. L'Organismo Congressuale Forense già a suo tempo ha denunciato la grave mancanza di coordinamento degli uffici giudiziari italiani, ciascuno impegnato a dettare linee guida proprie per superare la fase emergenziale.
"Il risultato è un caos generale che, in molti casi, lascia la ripresa dell'attività solo sulla carta - commenta Giovanni Malinconico, Coordinatore dell'OCF - una ripresa finta che coincide con la crisi dei colleghi, che invece chiedono di tornare a poter difendere i diritti dei cittadini nelle sedi naturali ad esse destinate: i Tribunali della Repubblica".
Roma: nella Capitale, dove un video girato dal Presidente dell'Ordine Galletti mostra il peso materiale delle varie misure organizzative, ben otto chili di carte delle varie linee guida, nell'Ufficio del Giudice di Pace vengono trattate 4 cause al giorno anziché le usuali 40. Il 10% del passato. In Corte d'appello civile vengono disposti rinvii ad un anno. Idem per il penale.
Milano: per quanto riguarda il Giudice di Pace civile, vengono rinviate in autunno le cause iscritte a ruolo nei primi di marzo (per le quali c'è la disponibilità dei fascicoli); rinviate a data da fissare le altre per le quali non c'è la disponibilità del fascicolo. In Tribunale invece, sempre per il settore civile, si trattano i procedimenti in cui non debbano essere presenti parti diverse da giudice e avvocati, ma ogni giudice si regola in modo diverso sulle modalità.
Tutto il resto viene rinviato. Nel settore penale, per il Giudice di Pace non si tratta in dibattimento; per il Tribunale, si trattano udienze di discussione da remoto solo con il consenso del difensore. Con i detenuti in carcere, le udienze si svolgono da remoto, con il detenuto tradotto in questura; il difensore può decidere se stare in questura o nello studio. In caso di arresti domiciliari invece, le cause non si possono trattare perché il detenuto dovrebbe presenziare nello studio dell'avvocato e sedergli accanto per essere visibile a schermo.
Palermo: Nel capoluogo e in tutta la Regione, solo per restare nell'ambito del diritto di famiglia, le separazioni avvengono solo per via consensuale; ad Agrigento invece solo le giudiziali, in altri capoluoghi le udienze sono sospese e rinviate. Nel penale, sono escluse udienze che prevedano l'assunzione delle prove testimoniali, visto che il teste non si può ascoltare da remoto.
Bari: nel capoluogo pugliese si prevede in appello la trattazione scritta per le udienze che non prevedono la presenza di soggetti diversi dai difensori. In minima parte in presenza per le indifferibili e urgenti per cui non è possibile la trattazione scritta. Nel Tribunale civile sono celebrate le udienze con trattazione scritta e solo se indifferibili e urgenti in persona. Poche udienze in videoconferenza. Trattazione scritta senza comparizione anche per le separazioni. Nel penale i processi con imputati detenuti si celebrano in aula con imputati collegati da remoto, quelli con imputati liberi si celebrano in aula (massimo 4 imputati). Davanti al Giudice di Pace si celebrano in aula massimo tre udienze di discussione e massimo due udienze di remissione di querela e accettazione. Una situazione caotica che genera incomprensioni fra i protagonisti della giurisdizione, magistrati e avvocati. Si è sostenuto ad esempio da parte dell'Anm Bari che l'Organismo Congressuale Forense avrebbe manifestato una apertura nel riconoscere l'utilità del processo da remoto anche al processo penale. L'Organismo politico dell'Avvocatura ha affermato più volte di non avere una pregiudiziale avversione nei confronti degli strumenti telematici, allo stesso tempo evidenziando che la celebrazione delle udienze da remoto non è compatibile con i principi di oralità e immediatezza del processo penale.
Taranto: si è giunti all'assurdo di un giudice di pace che con ordinanza disapplica le ordinanze del Presidente del Tribunale, dandone comunicazione alla Procura; e del Presidente del Tribunale che a sua volta diffida il giudice di pace di cui sopra, dandone comunicazione anche lui alla Procura.
Napoli: la maggior parte delle cause sia civili che penali stanno subendo ulteriori rinvii. Le penali, tranne le urgenti, sono quasi tutte rinviate e non vengono comunicati i rinvii. Per le cause civili che non sono rinviate, i giudici chiedono la trattazione scritta con onere della parte di depositare telematicamente atti già depositati in precedenza in modo cartaceo. Tutto fermo dal Giudice di Pace.
ansa.it, 19 maggio 2020
L'Italia deve dare spiegazioni alla Cedu-Corte europea per i diritti dell'uomo in merito alla condizione dei detenuti nel carcere torinese delle Vallette nel corso dell'emergenza Coronavirus. La pronuncia arriva nell'ambito di una azione legale relativa a un detenuto in età avanzata e affetto da varie patologie considerate dall'Oms a più alto rischio di mortalità se fossero associate a una infezione da Covid-19. A rivolgersi alla Corte è stato l'avvocato Benedetta Perego, che aveva già attivato una iniziativa analoga nelle scorse settimane, con il sostegno dell'associazione Strali. Il ricorso è stato dichiarato ammissibile. "Questa volta - informa un comunicato - l'attenzione della Corte si è estesa su tutte le persone recluse e tutti coloro che lavorano all'interno dell'istituto".
di Patrizia Maciocchi
Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2020
Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 18 maggio 2020 n. 15252. Il giudice che non ritiene, allo stato degli atti, di accogliere la richiesta di sostituzione della misura di custodia in carcere per ragioni di salute, ma dispone tuttavia accertamenti sanitari, deve nominare un perito e adottare la sua decisione solo dopo aver avuto i risultati delle verifiche mediche.
La Corte di cassazione, con la sentenza 15252, accoglie il ricorso contro il no alla richiesta di revoca o di sostituzione della custodia in carcere nei confronti di un indagato per reati di mafia. Alla base della richiesta più episodi allergici con shock anafilattici di cui aveva sofferto l'indagato, tanto da essere trasferito prima in una struttura attrezzata per le prove allergiche, senza tuttavia farle, poi in un terzo carcere che disponeva di un centro clinico.
Ma prima che arrivassero i risultati dei test non ancora effettuati il giudice aveva stabilito che la condizione era compatibile con la detenzione, una scelta ad avviso del tribunale in linea con l'indicazione del perito d'ufficio che aveva tuttavia lasciato aperta la strada di una rivalutazione nel caso fosse stata documenta una grave patologia.
La Suprema corte ricorda che l'obbligo di nominare un perito non c'è per qualunque malattia ma solo quando venga evidenziata e circostanziata una patologia "particolarmente grave", non curabile in carcere neppure nelle strutture particolarmente attrezzate. E dimostrarla in modo esauriente non spetta al detenuto, il quale deve solo fornire elementi utili in tal senso. Esattamente quanto avvenuto nel caso esaminato, in cui il giudice aveva disposto ben due trasferimenti riconoscendo implicitamente l'astratta possibilità che ci fosse una patologia grave.
Malgrado questo si è deciso per la compatibilità con il regime carcerario. Una decisione che il giudice avrebbe dovuto adottare dopo aver avuto i risultati degli accertamenti che lui stesso aveva richiesto. La norma di riferimento (articolo 275, comma 4-bis del Codice di procedura penale) dispone, infatti, che se il giudice ritiene di non accogliere la domanda sulla base degli atti "dispone con immediatezza, e comunque non oltre i termini previsti dal comma 3, chi accertamenti medici del caso, nominando un perito".
Una previsione che va intesa nel senso che l'accertamento del perito va disposto prima e non dopo la decisione sull'istanza. Questo sia nel rispetto dei criteri di sequenza logica sia del dato letterale, secondo il quale l'accertamento "peritale" va disposto immediatamente, entro i termini indicati per la decisione sulla domanda: e dunque chiaramente prima di questa.
di Tiziana Maiolo
Il Riformista, 19 maggio 2020
I 900mila euro erano destinati all'housing sociale per i carcerati, ma l'assessora della Regione, Piani, li ha rifiutati. La protesta del garante, Lio. Un'occasione perduta. Forse per i detenuti. Ma sicuramente per la Regione Lombardia, che ha fatto una figuraccia, respingendo al mittente un contributo di 900.000 euro destinati all'housing sociale per i carcerati.
Il fondo era stato stanziato dalla Cassa delle Ammende, un istituto con finalità sociali creato da Mussolini e rilanciato nel 2017 anche con la nuova presidenza di Gherardo Colombo. L'ex pubblico ministero milanese da tempo manifesta una particolare sensibilità nei confronti dei diritti dei detenuti e del carcere, di cui di recente ha auspicato si possa arrivare all'abolizione, in una società in cui non sia più necessario e si pensi a modalità diverse di espiazione della pena.
L'erogazione del fondo di 900.000 euro aveva come finalità il reperimento di locali per detenuti in uscita dal carcere, sia per coloro che avessero terminato di scontare la pena, sia per detenzione domiciliare negli ultimi mesi. Un'iniziativa significativa sia per i detenuti che per l'intera società.
Non c'è bisogno di consultare le statistiche infatti per sapere che il modo migliore per evitare le recidive dei reati è quello di riuscire a garantire al detenuto la possibilità di una casa, come punto di partenza per poter trovare un lavoro. In modo da far coincidere l'uscita dal carcere con l'uscita dalla vecchia vita.
La Regione Lombardia avrebbe potuto gestire i fondi facendo un pubblico avviso in modo da assegnare poi la gestione pratica dell'aiuto ai carcerati alle tante associazioni e cooperative del terzo settore che abbondano nella terra di Verri e Beccaria. Invece l'assessora leghista alla famiglia Silvia Piani ha risposto picche alla Cassa delle Ammende rimandando l'assegno al mittente. Prima di tutto perché ritiene "non condivisibile la scelta di prediligere interventi di deflazionamento della popolazione detenuta, come l'adozione di misure di detenzione domiciliare, anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato".
Secondariamente perché l'assessora ritiene che i fondi andrebbero meglio utilizzati "per tutelare la salute degli agenti di polizia penitenziaria, come riconoscimento del lavoro che svolgono". Un vero sgarbo istituzionale nei confronti dell'Ente che aveva deciso di erogare la somma con precise finalità indirizzate al reinserimento dei detenuti, anche perché non pare opportuno dare suggerimenti alla generosità e ipotizzare destinazioni alternative dei fondi offerti.
Ma anche un danno d'immagine per la stessa Regione Lombardia e il suo Presidente Attilio Fontana, un avvocato che ha sempre mantenuto l'immagine di garantista e che ha ben altri problemi in questo momento, con la gestione della "fase2" per l'uscita dal contagio di Covid-19 in un territorio ancora in situazione problematica. Non è un caso se proprio dall'interno della stessa Regione si sia levata la prima voce critica. E che voce.
"Sono amareggiato e ho chiesto un incontro urgente al presidente Fontana", dice al Riformista Carlo Lio, Difensore regionale dei diritti e Garante dei detenuti. Lio ha un'altra storia, viene dal mondo socialista (è stato sindaco di Cinisello Balsamo, cintura operaia di Milano) e in seguito ha contribuito alla costruzione della cultura del garantismo di Forza Italia. Anche in questi giorni ha continuato a entrare nelle carceri e a svolgere, pur con mille cautele, incontri con i detenuti.
"Esprimerò al Presidente il mio dissenso e il mio disappunto per una decisione che ci impedisce di utilizzare quei fondi per iniziative di sostegno al mondo carcerario di cui oggi più che mai c'è un gran bisogno", dice con fermezza.
Si fa vivo, dalle colonne milanesi del Corriere, anche don Gino Rigoldi, da sempre cappellano dell'Istituto minorile Beccaria e uno dei sacerdoti più attivi (poche parole e molti fatti) nel mondo carcerario. "Aiutare un fratello o una sorella che ha sbagliato è comandato dal Vangelo", ricorda, precisando che certi consigli del tipo attenti perché un detenuto reinserito giova a noi tutti, per un cristiano sono inutili.
E chissà (ma questa è una malizia della redattrice) se pensava a Matteo Salvini e al suo rosario, mentre vergava queste parole. "La scelta della Regione Lombardia di rifiutare il finanziamento di quasi un milione di euro - commenta con rammarico L'Osservatorio carcere territorio Milano - offerto da Cassa Ammende, è grave e incomprensibile, anche alla luce della stessa Legge regionale che regola gli interventi in ambito penale. Quei soldi sarebbero serviti per garantire un alloggio provvisorio e un accompagnamento socio-educativo a persone ormai vicine al termine della pena.
Persone escluse dall'accesso alle misure alternative solo ed esclusivamente perché sono povere e non possiedono una casa propria". Per fortuna comunque c'è anche la buona notizia. La saggezza del dottor Colombo e del consiglio di amministrazione di Cassa delle Ammende ha suggerito una toppa che per una volta è meglio del buco creato dall'assessora lombarda, e ha deciso di dirottare i 900.000 euro al Provveditorato regionale delle carceri, che saprà come ben gestirli. Per l'housing sociale dei detenuti. Ma con quali tempi? Qualche mese passerà, prima che si faccia la dichiarazione d'intenti per il terzo settore, si teme. Doppia figuraccia per la Regione Lombardia.
Corriere delle Alpi, 19 maggio 2020
La Fondazione Esodo ha presentato una manifestazione di interesse per partecipare al bando del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità dal titolo "Inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa", che a livello nazionale mette a disposizione 20 euro al giorno per una durata massima di 6 mesi per consentire l'accoglienza di persone detenute cui resta da scontare una pena inferiore ai 18 mesi.
Il progetto prevede di ospitare 6 persone in provincia di Belluno (32 in tutto il Veneto), che saranno in caso di approvazione accolte dal Ceis di Belluno e dalle cooperative Dumia e Società Nuova, le quali dovranno però rispondere ai requisiti di affidamento agli arresti domiciliari senza però disporre di un domicilio effettivo e/o idoneo, necessitando pertanto l'accoglienza in strutture alternative. Verranno messi in campo percorsi integrati ai quali collaboreranno tutti gli enti della rete Carcere bellunese.
La durata prevista dell'accoglienza è di 3 mesi e l'iniziativa si inserisce nelle disposizioni messe in campo per rispondere all'attuale emergenza sanitaria e si rivolge a detenuti idonei alla misura alternativa. La rete Carcere bellunese si è costituita 10 anni fa in occasione della presentazione del primo progetto "Esodo" di diretta emanazione della Fondazione Cariverona che, in collaborazione con le Caritas diocesane di Verona, Vicenza e Belluno, con il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria (Prap), gli istituti carcerari e gli uffici per l'esecuzione penale esterna (Uiepe) delle tre province, ha coinvolto vari enti del terzo settore per la realizzazione di attività di integrazione socio-lavorativa a favore di detenuti e persone in misura alternativa.
Ad oggi la rete coinvolge oltre al carcere e al Comune di Belluno la Caritas diocesana di Belluno-Feltre, il Ceis, le coop Dumia, Società Nuova, Integra, Mani Intrecciate e Sviluppo e Lavoro, Metalogos, il Serd e ora anche l'associazione di volontariato Jabar.
Nel 2016 le tre diocesi hanno dato vita alla Fondazione Esodo, che promuove la cultura della legalità e la sensibilizzazione alle tematiche dell'integrazione delle persone detenute e in esecuzione penale esterna. Dal 2011 le tre diocesi collaborano alle iniziative proprie del progetto Esodo, centrato sulla creazione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa di persone detenute, ex detenute ed in esecuzione penale esterna.
di Federico Spadoni
Corriere della Romagna, 19 maggio 2020
Da oggi, dopo tre giorni di stop ai colloqui con gli avvocati per emergenza sanitaria, il carcere riapre a legali e familiari dei detenuti. Un passaggio graduale verso la normalità, che tiene conto di tre fattori di non poco conto. Il primo. Il detenuto risultato positivo al coronavirus la settimana scorsa in seguito all'accertamento fatto prima di procedere al suo trasferimento al penitenziario di Modena, è attualmente in isolamento preventivo, nonostante su di lui il secondo esame abbia dato esito negativo. Ora dovrà essere sottoposto a un ulteriore tampone per capire se effettivamente non è portatore del virus. In secondo luogo, l'agente della polizia penitenziaria che - stando ai test effettuati a tappeto - sarebbe stato contagiato (non è chiaro in quale circostanza) è a casa dal lavoro, seguito dall'azienda sanitaria. Infine, ultimo aspetto, proprio ieri il carcere è stato sottoposto a totale sanificazione.
Sulla base di questi elementi la direttrice di "Port'Aurea", Carmela De Lorenzo, puntualizza quello che per l'azienda sanitaria dovrebbe essere ormai una certezza: "All'interno della casa circondariale non c'è alcun focolaio".
Non sono stati giorni facili. E solo l'esito dei prossimi esami sul detenuto in isolamento potrà chiarire meglio la ragione di quella positività mutata da un giorno all'altro. "Abbiamo fatto tutto ciò che era da fare - rassicura la direttrice. Tutti ci siamo sottoposti ai tamponi, il personale amministrativo, le guardie. Nessuno è risultato contagiato. Una persona positiva su oltre 160 significa che molto probabilmente si tratta di un fattore esterno, altrimenti avremmo trovato più di una positività". E sul detenuto che ora attende ulteriori accertamenti: "È qui dal 14 febbraio e non ha mai manifestato alcun sintomo". Ieri, ad ogni modo, tutti gli ambienti sono stati igienizzati: "Abbiamo sospeso per un ulteriore giorno gli accessi alla casa circondariale e spostato temporaneamente i detenuti nel cortile di passeggio per consentire una doppia sanificazione, sia a mano che a macchina. Ma da domani (oggi, ndr) si riapre".
Non sarà proprio un ritorno alla normalità. "Potranno ricominciare le visite dei parenti e i colloqui con gli avvocati - prosegue De Lorenzo - ma seguendo le disposizioni di sicurezza, guanti e mascherina obbligatori per tutti, ingressi contingentati e incontri nella sala colloqui, con il plexiglas divisorio". Rimarranno disponibili per i carcerati le tecnologie di comunicazione fornite durante le settimane del lockdown, che sono servite ad alleggerire la sensazione dell'isolamento, quando anche ai familiari è stato vietato l'accesso alla struttura. "I detenuti - assicura la responsabile - potevano telefonare e fare videochiamate. Insomma, non è stato leso o limitato alcun diritto".
di Pino Dragoni
Il Manifesto, 19 maggio 2020
La giornalista e fondatrice di Mada Masr, Lina Attalah, arrestata e rilasciata domenica per aver intervistato la madre dell'attivista Abdel Fattah in sciopero della fame, interrotto ieri. Arrestata e poi rilasciata su cauzione dopo quasi 12 ore e un clamore internazionale che forse le autorità egiziane non si aspettavano: si chiude così, con una buona notizia, la giornata di domenica per Lina Attalah, 37enne direttrice del portale di informazione. È quasi mezzanotte quando la giornalista, sguardo stanco e mascherina calata sotto il naso a nascondere un sorriso, lascia la stazione di polizia di Maadi e torna "sull'asfalto", come dicono gli egiziani, a piede libero, ma incriminata per aver "filmato una struttura militare senza autorizzazione".
La notizia aveva fatto in poche ore il giro del mondo, rimbalzata prima sui social e poi sui siti dei maggiori quotidiani globali. Mada Masr è infatti non soltanto uno dei pochissimi media indipendenti egiziani ancora in vita, ma rappresenta anche un modello di giornalismo di qualità che ne ha fatto una delle fonti essenziali di informazione sul paese nordafricano.
Malgrado il suo sito sia ormai da anni bloccato in Egitto e nonostante gli attacchi ripetuti (l'ultimo a novembre 2019, un raid negli uffici della redazione e l'arresto per alcune ore di diversi redattori), continua a produrre inchieste e approfondimenti fondamentali. Lina Attalah ha contribuito a fondarlo e ne è una delle forze trainanti.
Domenica, quando è stata arrestata, la giornalista stava semplicemente facendo il suo lavoro. Era andata davanti al carcere di Tora per intervistare Laila Soueif, l'attivista e professoressa universitaria che da settimane quasi ogni giorno presidiava l'ingresso del carcere nel tentativo di far entrare pochi beni essenziali per suo figlio Alaa Abdel Fattah, in sciopero della fame dal 12 aprile.
Disinfettante, salviette, vitamine, una soluzione reidratante, qualche medicina e una lettera: questo il contenuto del pacco che le autorità carcerarie per oltre un mese si sono rifiutate di far arrivare ad Alaa, tra i volti più noti della rivolta egiziana del 2011. Poi ieri la notizia: con un biglietto scritto di suo pugno recapitato alla madre Alaa ha annunciato l'interruzione dello sciopero. Detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tora 2 dal settembre 2019, l'attivista 38enne contestava l'assurda interruzione di ogni contatto con l'esterno, motivata dall'epidemia di Covid-19, e il prolungamento della sua detenzione senza una vera udienza di convalida.
Venuto a sapere che la custodia era stata rinnovata da un giudice, rientrando così almeno formalmente all'interno della legalità, Alaa avrebbe dunque deciso di riprendere gradualmente l'assunzione di cibo. "Soprattutto perché - aggiunge nella sua nota - non voglio che passiate l'Eid [festa islamica di fine Ramadan] preoccupandovi per me".
"L'ingiustizia continua e la lotta anche - ha scritto Ahdaf Soueif, nota scrittrice e zia di Alaa - Ma possiamo riprendere fiato". Ci sono voluti 36 giorni di sciopero della fame, l'arresto di una giornalista tra le più importanti in Egitto, innumerevoli denunce e giorni all'addiaccio sul marciapiede di fronte al carcere, ma forse alla fine queste poche persone, con la loro tenacia e grazie al vasto sostegno che hanno ricevuto, una piccolissima vittoria al regime sono riuscite a strapparla.
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