di Giorgio Varano
Il Riformista, 8 maggio 2020
Le esternazioni (definiamole così) del dott. Di Matteo, consigliere in carica del Csm, portano alla ribalta un tema sempre passato sotto silenzio, un "incredibile ma vero" che dura ormai da troppi anni: le linee guida del Csm sulla comunicazione dei magistrati non valgono per i magistrati che siedono a Palazzo dei Marescialli. In Italia, dunque, tutti i magistrati devono attenersi alle regole deliberate dai consiglieri del Csm sulla comunicazione, tranne loro.
Il perché? "Incredibile ma vero 2": "L'aspetto precettivo e sanzionatorio, infatti, mal si concilia con lo svolgimento di un simile elevato compito istituzionale essendo lecito ritenere che la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione sia connaturata al livello etico dei componenti eletti".
Così ha stabilito il Csm stesso, in una delibera del 2010. Ora, le esternazioni di un consigliere del Csm, per una questione di due anni prima dal tenore personale o equivocabilmente ben peggiore, espresse in diretta tv contro il ministro della Giustizia in carica (grazie anche alla retorica dell'antimafia da tv) rendono lecito ritenere che non ci si possa più affidare a una presunzione assoluta di consapevolezza dei doveri insiti nella funzione.
Perché il Csm, che ha affermato di voler superare in maniera strutturale la devastante crisi a cui l'istituzione è stata sottoposta, non rende obbligatorie le linee guida anche per i propri consiglieri? Certo, poi nascerebbe un imbarazzo. Quello di valutare il comportamento di un proprio appartenente, magari vicino di sedia nel plenum.
Ma questo imbarazzo potrebbe essere superato esaminando la condotta del singolo componente in relazione ai doveri dei consiglieri. Doveri? "Incredibile ma vero 3", non ce ne sono. Leggendo infatti il regolamento interno del Csm (2018), scorrendo le cento trentuno pagine non troverete mai la parola "dovere". Non ne è previsto alcuno specifico relativo al ruolo di consigliere, tutto viene rimandato quindi ai codici etici delle singole categorie di appartenenza, come se il consigliere, togato o laico che sia, non avesse dei doveri specifici impostigli dal ruolo.
La volontà del Csm di uscire dalla crisi, di "autoriformarsi", è rimasta dunque una mera dichiarazione di intenti sotto molti aspetti. Il magistrato "quisque de populo" ha l'obbligo di tenere presente che "la fiducia nella giustizia è in qualche modo collegata alla rappresentazione che della stessa viene data attraverso i mezzi di informazione", pertanto la comunicazione diventa "strumento principale per la costruzione di un rapporto fiduciario tra i cittadini e il sistema giudiziario", e deve evitare la "costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell'informazione", "l'espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi" (risoluzione 2010).
Per i consiglieri del Csm tutto questo non vale. Perché non estendere semplicemente il dovere di osservanza delle linee guida sulla comunicazione dei magistrati anche ai componenti del Csm? Perché non prevedere nel regolamento interno anche dei doveri di comportamento dei consiglieri? A proposito, nel 2019 il Procuratore nazionale antimafia, Cafiero De Raho (serissimo magistrato che infatti lavora nelle procure, non nelle tv), rimosse con provvedimento immediatamente esecutivo il Dott. Di Matteo dal pool che indaga sulle stragi.
A seguito di una intervista di quest'ultimo - a sua discolpa, all'epoca non era consigliere del Csm, quindi non aveva "la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione" - De Raho ritenne "incrinato il rapporto di fiducia all'interno del gruppo".
A oggi il Csm, in quanto organo, nemmeno attraverso il proprio ufficio stampa, ha preso le distanze dal comportamento del Dott. Di Matteo. Dunque, possiamo stare sereni: non appare incrinata la fiducia all'interno del gruppo.
P.s. Nel frattempo un primo risultato miracoloso queste esternazioni l'hanno ottenuto. Il ministro Bonafede parlando alla Camera ha affermato che, alla luce del nuovo quadro sanitario nazionale, sta valutando l'emissione di un decreto per fare ritornare in carcere i detenuti scarcerati perché maggiormente esposti al rischio di contrazione del virus, a causa delle loro precarie condizioni di salute.
Li renderà dunque immuni per sempre, per decreto-miracolo, spazzando il pericolo del contagio nelle carceri. Nei tribunali non c'è ancora riuscito a spazzarlo via, ma i miracoli si fanno uno alla volta, lo sanno tutti. I miscredenti magistrati di sorveglianza che non crederanno al decreto-miracolo saranno mandati al rogo senza nessuna "pratica a tutela" da parte del Csm, come avvenuto finora?
di Gennaro Lepre
Il Riformista, 8 maggio 2020
Ritengo spropositato l'allarme suscitato dai nuovi contagi registrati presso il tribunale di Napoli di cui si è appreso in questi giorni, giustappunto nel corso dell'accavallarsi più recente delle disposizioni dei vertici giudiziari in vista della ripresa dei processi civili e penali.
Non per aggiungermi, in alternativa, al coro delle sacrosante proteste contro l'emarginazione reale del diritto di difesa attraverso la spersonalizzazione telematica del processo penale: a mio modo di vedere tali proteste mancano infatti di trarre le conclusioni cui dovrebbero pervenire.
Mi riferisco alla funzione giudiziaria intesa come servizio pubblico essenziale e a ciò che discende da tale concetto anche in regime di emergenza sanitaria. Esso ha imposto nelle scorse settimane il sacrificio addirittura della vita a medici e infermieri; ha esentato da qualsiasi chiusura ed esposto così a rischi di contagio assai maggiori non solo gli operatori commerciali nel settore degli alimentari, ma anche ferramenta e persino tabaccai.
Trovo perciò immorale che non abbia imposto allo stesso modo la prosecuzione ininterrotta di tutti, dico tutti, i processi civili e penali. Né il servizio pubblico essenziale di giustizia può tollerare mediazioni al ribasso. Come quelle con cui vengono turlupinati, per esempio, i principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di presunzione di non colpevolezza prevedendo limitatissime deroghe (il più delle volte solo astratte) alla prassi generalizzata dei rinvii d'ufficio; principi costituzionali infatti sostanzialmente rinnegati - con la complicità oggettiva degli avvocati - attraverso la sospensione dei termini della prescrizione, di custodia cautelare, di conclusione delle indagini e così via.
I difensori - quali privati esercenti un pubblico servizio - avrebbero altrimenti dovuto pretendere, senza condizioni, la continuazione indifferenziata delle udienze, riservando al dopo ogni sacrosanta critica relativa alla prevedibile inadeguatezza delle misure di contenimento del rischio di contagio; la stessa inadeguatezza con cui comunque continueremo a misurarci anche nella fase di ripresa. Proprio come i medici che non hanno assistito i malati anche se le mascherine erano inadeguate e in numero insufficiente. Dunque anche a costo che pure gli operatori di giustizia paghino un prezzo di morti. Senza che il contagio di questo o quel magistrato potesse affatto legittimare - non è accaduto solo a Napoli - quel generalizzato, isterico sciogliete le righe che subito poi ci ha paralizzato.
Senza perciò che il pessimo esempio di troppi magistrati e cancellieri - tranne rare eccezioni latitanti come fossero in vacanza - venisse immediatamente emulato da un'avvocatura tremebonda, succube della cultura del rinvio e soprattutto ignara del proprio ruolo e delle responsabilità sociali correlative, certo non inferiori a quelle di tabacchini e ferramenta. L'avvocatura pagherà tale ignavia con l'ulteriore emarginazione nell'ambito del servizio pubblico di giustizia e, più in generale, con la perdita di peso politico e culturale: non li si può rivendicare solo a chiacchiere. Ma non andrà meglio ai magistrati ed ai funzionari.
Quella che viene oggi messa in discussione è la stessa rilevanza civile e sociale della funzione giudiziaria sicché a torto immaginano di non doverla difendere a propria volta insieme a quel protagonismo culturale e sociale che da essa riverbera a loro vantaggio. Si spiega così l'increscioso avallo con cui l'avvocatura ha legittimato in queste settimane, tra l'altro, il diffuso ventisettesimo dei dipendenti pubblici loro interlocutori nell'ambito della funzione giudiziaria, specie quando fittiziamente giustificato evocando quello smart working in realtà impraticabile in ragione della notoria arretratezza e segnatamente dalla non accessibilità da remoto dei sistemi informatici giudiziari.
Sono pertanto contrario a qualsiasi ipotesi di astensione degli avvocati anche laddove gli uffici giudiziari non provvedano a dotarsi, in vista di lunedì prossimo, dei banali accorgimenti organizzativi di cui si discute in questi giorni: gli stessi giù in uso altrove nel rispetto di scontate misure di igiene, da sempre ignorate eccezion fatta per i locali riservati a magistrati e alti funzionari, a cominciare da bagni e ascensori. Sono allo stesso modo fermamente contrario a qualsiasi finta ripresa. Indico come tale la celebrazione di udienze che - invece di spalmare nell'arco di mattina e pomeriggio, sabato compreso, il carico ordinario di un ruolo frattanto ulteriormente appesantito dall'arretrato accumulato nei due mesi trascorsi - si prefigga il contentino formale di sbrigare una porzione irrisoria di tale carico selezionata con criteri sempre altamente opinabili lasciando così addirittura peggiorare l'accumulo incontrollato di arretrato.
D'altra parte in una qualsiasi aula di udienza del nostro Palazzo di Giustizia basta già solo fissare i processi a scaglioni orari per ridurre il rischio di contagio a livelli senz'altro assai inferiori a quello cui ci sembra altrimenti del tutto naturale siano state a tutt'oggi ininterrottamente esposte quelle cassiere dei supermercati che nessuno di noi ha smesso di frequentare in queste settimane di lockdown. Nessun Paese civile d'altra parte può davvero attendersi la ripresa dell'economia, delle attività produttive e della stessa vita sociale senza la garanzia di un servizio di giustizia che solo in Italia risulta oggi in ginocchio, ridotto all'impotenza, ancora più malconcio ed inefficiente di quello che anche prima dell'emergenza sanitaria era pacificamente ritenuto già carente e inadeguato.
Sicché - senza certo rinunziare a tutte le misure di protezione - è necessario affrontare anche gli inevitabili rischi cui ci esporrà una effettiva ripresa dell'attività giudiziaria se degna di tal nome. A meno di non abdicare forse irreparabilmente innanzitutto ai nostri doveri; al senso stesso della funzione giudiziaria di cui avvocati, magistrati e funzionari sono motori e non solo attori indispensabili; al ruolo essenziale che la Giustizia deve continuare a svolgere nel nostro Paese se vorremo continuare a ritenerlo civile.
di Luigi Amicone
tempi.it, 8 maggio 2020
Ancora sulla decisione "insensata" della Lombardia di rinunciare ai 900 mila euro della Cassa ammende per alleviare le condizioni dei detenuti all'epoca del coronavirus. Avrei voluto occuparmi dello scontro titanico tra Alba Parietti e Caterina Collovati.
E invece mi tocca prima aggiungere alle ragioni per cui la presidenza del Dipartimento amministrazione penitenziaria fa gola lo stipendio mica male di 320 mila euro anno. Covid o non Covid, finché lo Stato esisterà. E, secondo, chiudere la partita con l'assessore di Regione Lombardia, Stefano Bolognini. Il quale, evidentemente in vena di confidenze, mi scrive "non sono l'assessore alle carceri, mi spiace".
Assessore lei vuole scherzare, vero? O ci vuole dare degli australopitechi prendendola un po' alla larga? Allora per informazione dei nostri lettori, diremo che Stefano Bolognini, assessore alle Politiche sociali, abitative e disabilità, è precisamente la figura della giunta lombarda che avrebbe dovuto istruire la delibera per rendere usufruibili nel circuito penitenziario della Lombardia i fondi statali finalizzati ad alleggerire il sovraffollamento carcerario e a depotenziare il rischio Covid tra i detenuti. E invece l'assessore Bolognini non ha istruito un bel niente. E non si sogna di istruire alcunché in materia di detenuti, neanche lontanamente. Ragion per cui ci risponde con una battuta alla salamandra reale. Giacché non può o non vuole dirci che gli ordini del capo non si discutono.
Ma tutto questo è assurdo. Non sono neanche soldi della Lombardia... Si avverte una certa pusillanimità nella destrezza con cui ci fate il segno dell'ombrello in punta di sogghigno, cari leghisti. A noi, ai detenuti e a tutti coloro che, poliziotti penitenziari compresi, non si alzano al mattino col pensiero di ingraziarsi i consensi del popolo grazie alle disgrazie altrui. Perciò, non contenti di sogghignarci sopra, avete messo in piedi un piccolo circo.
E siccome Bolognini non è l'assessore alle carceri col naso rosso, hanno mandato avanti l'assessore alla famiglia con le gote a pois. "Quei fondi devono essere utilizzati per tutelare la salute degli agenti di polizia penitenziaria, come riconoscimento del lavoro che svolgono". Ma che ragionamento è? Tante volte le autoambulanze trasportano tossici che non stanno in piedi, marocchini fuori di melone, tunisini usciti neri da una rissa con i senegalesi. E allora? Perché non dirottate la benzina dalle autoambulanze alle Mercedes delle pompe funebri, che male non fanno, come riconoscimento del lavoro che svolgono?
Ulteriori argomentazioni che la Lega di governo in Lombardia ha trasmesso per tramite dell'assessore alla famiglia Silvia Piani in una lettera inviata al presidente della Cassa delle ammende. "Manifestiamo tutte le perplessità dell'amministrazione regionale sul programma di intervento che, per fronteggiare l'emergenza epidemiologica negli istituti penitenziari, prevede il reperimento di alloggi per i detenuti".
"Si ritiene di non procedere alla presentazione delle proposte progettuali a valere sul bilancio della Cassa delle ammende, valutando che tali risorse possano più proficuamente essere erogate in via straordinaria e in relazione all'emergenza Covid-19, direttamente agli istituti penitenziari per l'implementazione degli standard sanitari nei luoghi di detenzione, anche in riferimento ai presidi in dotazione agli agenti di polizia penitenziaria".
Morale della favola: a differenza del Veneto, che non ha fatto storie con analoghi fondi destinati ad alleviare le condizioni di detenzione all'epoca di una pandemia (ahi ahi, caro Salvini, Zaia ti ha bagnato il naso coi tamponi e adesso ti dà pure una lezione di educazione civica neanche troppo fanatica), la Lombardia ha deciso di rifiutare i 900 mila euro destinati a progetti di housing per ridurre il sovraffollamento delle carceri e favorire l'esecuzione penale esterna. Così, alla fine, dopo tutto quello che abbiamo detto sui comunisti fuori e dentro, ci tocca dare ragione all'ultima vedova del comunismo che è rimasta in Brianza. Anita Pirovano.
"Non pensavo che la ricerca di consenso (di bassa "lega") e la demagogia che spesso accompagnano il dibattito politico sui temi della giustizia e del carcere potessero arrivare a scelte così insensate". È l'aggettivo giusto. "Insensate".
Il Dubbio, 8 maggio 2020
Gennarino De Fazio (Uil-Pa): "Il Covid-19 continua a espandersi ed a fare vittime. È deceduto nella notte a Bologna, difatti, un altro detenuto con Coronavirus".
"Mentre il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria sembra ancora fermo ai box per riparare la macchina, dopo anni di mancati tagliandi, nelle carceri, in cui l'attenzione vienecatalizzata soprattutto da scarcerazioni e ritardi, il Covid-19 continua a espandersi ed a fare vittime. È deceduto nella notte a Bologna, difatti, un altro detenuto con Coronavirus".
A commentare la notizia, per la Uil-Pa Polizia Penitenziaria nazionale, è Gennarino De Fazio. Il leader sindacale spiega: "Si tratta di un detenuto arrestato verso la metà di febbraio di quest'anno e che, presumibilmente, proprio durante la detenzione potrebbe aver contratto il virus. Il malcapitato aveva 67 anni, pare fosse affetto da altre patologie, e si trovava ricoverato al reparto Covid dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna", dice De Fazio.
"Ora le polemiche imperversano e il ministro Bonafede è nell'occhio del ciclone, ma noi lo avevamo detto per tempo che l'emergenza pandemica, sommandosi alle inefficienze ancestrali del Dap e alla disattenzione della politica, avrebbe prodotto conseguenze nefaste sia sotto il profilo sanitario sia per la tenuta della sicurezza", insiste il leader sindacale.
"Non a caso avevamo chiesto più volte che la gestione carceraria venisse assunta pro-tempore direttamente sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Del resto l'unico modo per evitare le scarcerazioni era quello di creare le condizioni affinché fosse pienamente tutelato, nei penitenziari o in altre idonee strutture preventivamente individuate, il diritto alla salute, che rimane inviolabile per chiunque.
È dunque mancata una progettualità, che peraltro ancora non s'intravede: basti pensare che, diversamente che per gli altri settori del Paese, per gli operatori del Corpo di polizia penitenziaria non esiste ancora un protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro condiviso con le Organizzazioni Sindacali e, ancora oggi, non vengono forniti i dati sui contagi", spiega ancora De Fazio. Che poi conclude: "Anche questo diremo al Vice Capo del Dap Roberto Tartaglia durante la prima riunione di 'reciproca conoscenza' che ha convocato per la mattinata. Ma gli diremo pure che per tirare fuori dalle secche la nave arenata, che è oggi il Dap, non basta un bravo Comandante e neppure un ottimo equipaggio, ma che è altresì necessario un repentino cambio di rotta".
redattoresociale.it, 8 maggio 2020
L'Ong ha svolto un ruolo importante nella creazione di un reparto Covid-19 a San Vittore, nel quale confluiscono i detenuti contagiati degli istituti penitenziari della regione. Il riconoscimento da parte del Naga all'operato di Msf.
Nel carcere di San Vittore a Milano è stato creato un reparto Covid-19, nel quale vengono trasferiti i detenuti contagiati degli istituti penitenziari della Lombardia. Per ora in Lombardia risultano "39 detenuti contagiati e 230 in quarantena perché entrati in contatto con altri positivi o perché essi stessi sospetti, mentre i tamponi effettuati sono stati 1167", come scrive il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, in un suo report sulla riunione della commissione speciale carceri del consiglio regionale.
E forse la scelta di aver creato un reparto Covid-19 nella storica casa circondariale di Milano si sta rivelando azzeccata nel contenere la diffusione del virus nelle carceri. Una scelta in cui un ruolo determinante lo sta svolgendo Medici senza frontiere, come testimoniano i volontari dell'associazione Naga.
"La direzione sanitaria di San Vittore per gestire la gravità della situazione ha chiesto e ottenuto il supporto di Medici senza frontiere - scrive il Naga sul proprio sito web-, e così in breve tempo si è riusciti a trasformare il locale Centro clinico, un reparto in tempi normali ad alta problematicità, in una unità Covid in grado di gestire farmacologicamente i casi di media gravità di tutte le carceri regionali e di diagnosticare chi dovesse necessitare di terapia intensiva presso l'Ospedale San Paolo.
Sempre grazie a questa collaborazione si è potuto inoltre organizzare in parallelo un lavoro capillare di informazione e prevenzione per detenuti e personale penitenziario che sono stati dotati dei presidi necessari". "In una situazione di emergenza un'istituzione come il carcere -commenta il Naga- ha lavorato in sinergia con il personale di diverse Ong, dissipando così nella concretezza dei fatti e di un agire comune la cappa di infame discredito che le politiche degli ultimi anni hanno gettato sull'operato delle associazioni non governative".
L'altra Ong che ha collaborato con l'amministrazione carceraria in Lombardia è Emergency, che ha curato la formazione dei detenuti sulle norme igieniche e di prevenzione dal contagio.
di Mary Liguori
Il Mattino, 8 maggio 2020
Sul caso Zagaria è quasi inciampato il ministro, un capitombolo mediatico parato solo con il cambio della guardia al Dap, che però non ha evitato a Bonafede le corde del question time, dove si è visto addirittura tenuto a promettere un decreto blocca-boss in cella. Una diga nel mare in tempesta in un bicchier d'acqua, scatenato dai domiciliari a tempo concessi al fratello minore del capo dei capi dei Casalesi, sopraggiunta con un anno di anticipo rispetto al fine pena e concessi per soli cinque mesi.
Un caso che sta avendo ripercussioni anche sulla sanità sarda. Ché, nella stesura delle otto pagine che mandano Pasquale Zagaria a curarsi ai domiciliari, in provincia di Brescia, per un tumore, i giudici della sorveglianza ripercorrono il carteggio avuto con l'amministrazione penitenziaria del carcere di Bancali, Sassari, e con l'ospedale di Cagliari. Ed è all'azienda ospedaliera del capoluogo, il Brotzu, che si sono inaspettatamente decise le sorti del camorrista.
E si sono decise con una telefonata durante la quale un dirigente medico, scrivono i giudici di sorveglianza, ha negato al detenuto la possibilità di curarsi al Brotzu. A che titolo lo abbia fatto, quel dirigente, al momento non è dato sapere. E lo vuol sapere, a ragion veduta, la direzione dell'azienda ospedaliera cagliaritana che sul caso ha avviato verifiche interne.
Ché, oltretutto, per Zagaria era possibile, il 23 aprile, ottenere il ricovero e le cure in sicurezza in quell'ospedale, dal momento che non c'erano particolari criticità dovute all'emergenza coronavirus e, come se non bastasse, gli avvocati del camorrista avevano chiesto - lo scrivono i giudici - le cure, anche in carcere, per il sessantenne, e non la scarcerazione che è stata la conseguenza dell'impossibilità di somministrargli, nel penitenziario in cui era detenuto al 41bis o in un altro, le "indifferibili" terapie. La scarcerazione, ormai è chiaro, è stata disposta solo in seguito alle mancate risposte del Dap e, soprattutto, al diniego da parte del medico del Brotzu al ricovero di Zagaria. Adesso l'azienda ospedaliera, che dovrà di certo riferire al ministero, si ritrova a ricostruire una vicenda senza un supporto documentale. In pratica se il contatto tra il carcere e l'ospedale c'è stato, non è avvenuto attraverso canali ufficiali e, quindi, non ci sono atti del rifiuto. In pratica, "ufficialmente" l'ospedale di Cagliari non ha mai respinto il ricovero di Zagaria.
Ma andiamo al dispositivo. Scrivono i giudici in merito alla richiesta di individuare un istituto in cui sottoporre il detenuto a cure che nell'ospedale di Sassari, focolaio di contagio, non erano possibili: "Dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria non è giunta risposta alcuna, mentre il responsabile sanitario della Casa Circondariale di Sassari ha fatto pervenire ulteriore certificato del 23 aprile 2020 nel quale specifica quanto segue: Il paziente non può effettuare i controlli endoscopici previsti (necessari per poter proseguire la terapia) né presso l'Aou di Sassari né all'interno della Cc di Sassari (si eseguono solo in ambito ospedaliero). Contattato personalmente il dottor Ayyoub Mohammed, dirigente medico del Reparto di Urologia dell'Azienda Ospedaliera Brotzu (Cagliari) per chiedere la disponibilità a prendere in carico il paziente, mi è stato risposto che al momento possono garantire l'assistenza esclusivamente ai loro pazienti. Per il trattamento all'interno della Cc di Uta vale lo stesso discorso fatto per Sassari. Inoltre, si conferma la indifferibilità del programma diagnostico-terapeutico previsto".
Passaggi, questi, ripercorsi nei giorni scorsi anche dall'Unione Sarda e che ormai sono agli atti dell'approfondimento che il ministero della giustizia conduce su questa e altre scarcerazioni eccellenti avvenute in Italia dall'inizio della pandemia. Eppure è stata la circolare del 21 marzo scorso che la Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, organismo in seno allo stesso ministero, a invitare le direzioni a comunicare con solerzia all'autorità giudiziaria il nominativo di detenuti in condizioni di salute tali da renderli più vulnerabili al Covid-19.
Condizioni in cui si trova Zagaria, valuta il tribunale di Sorveglianza di Sassari sulla base della documentazione medica pervenuta all'atto dell'istanza visto che, scrivono ancora i magistrati, "oltre a trovarsi di fronte all'impossibilità di ricevere le indifferibili cure per la sua patologia, si trova anche esposto al rischio di contrarre la patologia Sars-Cov-2 in forme gravi. Benché il detenuto sia sottoposto a regime differenziato e in cella singola", è comunque "esposto al contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili e - concludono - la tutela del diritto alla salute del detenuto deve essere declinato anche in termini di prevenzione".
Va aggiunto che, nel motivare il differimento, il tribunale di sorveglianza di Sassari cita anche la Corte di Appello di Napoli che, il 22 gennaio del 2015, scrisse: "L'appartenenza dello Zagaria alla associazione camorristica, attuale all'epoca del decreto emesso nell'anno 2004, fosse tale anche nell'anno 2011, atteso che il prolungato periodo di detenzione, posto in correlazione con la circostanza che il detenuto si costituì spontaneamente in carcere e, nel corso del processo penale, rese confessione in ordine a gran parte dei reati contestati, condotta che rappresenta un inequivocabile sintomo di iniziale ravvedimento, inducono a escludere la concreta operatività della presunzione di perdurante al momento della formulazione del giudizio".
Per i magistrati sardi le conclusioni della Corte d'Appello di Napoli sono "rassicuranti e - si legge ancora nel dispositivo - il detenuto ha mostrato interesse esclusivamente per soluzioni di cura, anche in altri istituti penitenziari, e non univocamente per soluzioni extra-murarie". Ma, come ormai è noto, una leggerezza, quella di un medico, e una mancata risposta, quella del Dap, ne hanno consentito la scarcerazione seguita da uno strascico di polemiche che tutt'oggi continuano ad avere ripercussioni.
targatocn.it, 8 maggio 2020
A confermarci i dati il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Paolo Allemano: "In proporzione, i medici del penitenziario pagano il prezzo più alto. Grande sforzo, reso necessario dalla situazione difficile creatasi in seguito al trasferimento di detenuti da altri istituti di pena a seguito della rivolta di inizio marzo". Si registrano anche i primi guariti.
Giungono buone notizie dal carcere di Saluzzo, dove nei giorni scorsi la diffusione del Coronavirus aveva coinvolto più di venti persone, tra detenuti, agenti di Polizia penitenziaria e personale sanitario. Il 29 aprile, le organizzazioni sindacali Sappe, Uil-Pa, Fns-Cisl, Cnpp e Fp-Cgil avevano infatti diramato una nota stampa nella quale si parlava di 14 detenuti contagiati, ai quali si sommano quattro agenti di Polizia penitenziaria e due medici. Nella casa di reclusione di Regione Bronda sono stati eseguiti Covid-test a tappeto. Paolo Allemano, ex sindaco della Città ed ex consigliere regionale, da novembre è il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. "Credo che quello di Saluzzo - ci spiega - sia l'unico Istituto penitenziario in tutta Italia dove sono stati fatti tamponi a tappeto". Il numero di tamponi effettuati all'interno del carcere ammonta a 428.
Il bilancio dei contagiati ha riportato lievi aumenti rispetto ai dati resi noti a fine aprile. I detenuti positivi sono saliti da 14 a 22. Numeri che, però, sono già a loro volta in calo, come ci ha confermato il dottor Allemano: "Due detenuti e due agenti sono nel frattempo virologicamente guariti, dal momento che sono risultati negativi ai due tamponi di controllo". Il totale più aggiornato vede quindi positivi 20 detenuti, due agenti e due medici.
"La situazione è quindi gestibile con isolamento e quarantena in carcere - aggiunge il Garante. Faccio notare che, in proporzione, i medici del penitenziario pagano il prezzo più alto, come fuori dal carcere. Si è fatto un grande sforzo, reso necessario dalla situazione difficile creatasi in seguito al trasferimento di detenuti da altri istituti di pena a seguito della rivolta di inizio marzo". Proprio come avevano già sostenuto le organizzazioni sindacali, che avevano parlato di una "tragedia annunciata", riferendosi alla decisione di trasferire a Saluzzo detenuti dalla Casa circondariale di Bologna.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 8 maggio 2020
Ha 86 anni e verserebbe in condizioni gravissime al 41bis del carcere "Opera" di Milano. Ha da giorni una febbre con sbalzi di temperatura, patologie che si sarebbero aggravate a causa di presunte mancate cure e accompagnato da un deterioramento cognitivo. Non stiamo parlando di un detenuto qualunque, ma di Giuseppe Morabito, detto U Tiradrittu, considerato a suo tempo il numero uno della 'ndrangheta.
"Il 29 aprile dovevamo sentirlo al telefono - spiega al Il Dubbio l'avvocata Giovanna Beatrice Araniti, il legale del recluso -, ma asserendo che le linee erano occupate (con il colloquio telefonico prenotato da tempo) il carcere di Milano non l'ha fatto chiamare". Dal 2004 è ininterrottamente recluso al 41bis e dall'ultima perizia depositata urgentemente per chiedere un differimento pena per gravi motivi di salute emerge un quadro devastante.
Si legge che presenta una enorme ernia inguinale bilaterale, maggiore a sinistra, condizionante dolore cronico; un voluminoso adenoma prostatico inoperabile in portatore di catetere vescicale a permanenza da circa 15 anni, con ricorrenti infezioni delle vie urinarie; cardiopatia ipertensiva in precario compenso; reiterati riscontri di iperglicemia al DTX, in assenza di accertamenti specifici; broncopneumopatia cronica ostruttiva; insufficienza venosa agli arti inferiori; cataratta bilaterale con indicazione all'intervento; diverticolosi del colon; gozzo multinodulare normofunzionante; artrosi polidistrettuale; sindrome ansioso-depressivo.
Dopo una serie infinita di istanze e solleciti, al Dap, al Garante regionale, al Direttore e all'area sanitaria, i familiari hanno deciso di depositare una denuncia- querela al procuratore della Repubblica del tribunale di Milano perché Morabito versa in condizioni gravissime e - a detta loro - totalmente abbandonato a se stesso. Secondo i familiari, Giuseppe Morabito sarebbe stato lasciato in una condizione di totale abbandono, degrado igienico- sanitario, con negazione delle cure indispensabili per la sua vita, non solo per l'età ma soprattutto per le importanti patologie che lo affliggono. "Il quadro - si legge nella denuncia - si è aggravato negli ultimi due mesi, a causa di un elevato e costante stato febbrile per il quale è stato isolato, due volte per 15 giorni, negli ultimi due mesi, per come lo stesso ha riferito, faticosamente, nel corso dell'ultimo colloquio e di un'enorme ernia a rischio di strozzamento".
Morabito stesso ha chiesto ripetutamente aiuto, tramite il difensore, che ha inoltrato richieste continue di intervento rimaste ad oggi inevase. Sempre i familiari chiedono al procuratore di valutare "il grave comportamento omissivo, contrario al senso di umanità e ai valori costituzionali e sovranazionali", essendosi trasformato, per il loro vecchio genitore, "lo stato detentivo in una condanna a morte tra atroci sofferenze e torture, che nessun essere vivente merita di sopportare in uno Stato di Diritto, che deve salvaguardare la vita e la salute". Parole forti, ma corroborate dalle continue richieste di intervento avanzate dal loro legale.
"Il mio assistito ha 86 anni - spiega a Il Dubbio l'avvocata Giovanna Araniti del foro di Reggio Calabria - e sta scontando un trentennale non per omicidio, ma per reati di droga e associazione mafiosa, ed ininterrottamente detenuto da 16 anni".
L'avvocata denuncia: "Quale che sia il titolo di reato commesso, non è ammissibile che in uno Stato che osa definirsi di diritto, un detenuto vecchio e malato debba morire di carcere, perché sottoposto al 41bis O.P., in totale stato di abbandono". Infine conclude: "Le condizioni deplorevoli in cui è stato lasciato per anni, nonostante le sue gravissime patologie, finalmente, dopo decine di richieste, sono state accertate con perizia di ufficio depositata l'altro ieri, presso il Tribunale di Roma che sta trattando l'ennesimo reclamo avverso la proroga del 41bis". Giuseppe Morabito, come detto, è noto anche come U Tiradrittu. Dal dialetto calabrese vuol dire "spara dritto", ovvero colui che tira dritto senza rispetto di alcuna regola o persona. Lo Stato dovrebbe essere diverso. Stato di Diritto o U Tiradrittu?
leccoonline.com, 8 maggio 2020
Il coronavirus non allenta la presa sul carcere di Pescarenico. Se giovedì scorso davamo notizia di 14 contagi acclarati tra i circa 80 detenuti della casa circondariale di Lecco, quest'oggi il conto chiude a 21 positivi. In una settimana sono emersi altri 7 casi, con altrettanti ospiti dunque isolati e trasferiti, così come i primi "apripista", a San Vittore. Nel penitenziario milanese, infatti, è stato creato un reparto hub dedicato proprio a soggetti nella duplice condizione di detenuto e infettato da covid-19.
La scoperta delle nuove positività si deve a un secondo giro di tamponi a tappeto disposto dall'amministrazione, particolarmente attenta al rispetto delle misure di prevenzione, già dallo scoppio dell'epidemia in città. A Lecco, infatti, come in altre strutture analoghe, si è provveduto all'installazione di una tenda messa a disposizione dalla Protezione civile quale ambiente per l'accoglienza dei nuovi ingressi e dei visitatori prima di permettere loro l'ingresso in carcere.
Si è anche limitato l'accesso di parenti, consentendo ai detenuti di mantenere il rapporto con i famigliari attraverso videochiamate, concedendo altresì loro un maggior numero di colloqui telefonici. Gli operatori indossano poi dispositivi di protezione individuale. Non è però bastato. E proprio a tutela di quest'ultimi ci sia aspetta ora quantomeno che tutti gli agenti della Polizia Penitenziaria siano sottoposti ai test, anche nel rispetto delle loro famiglie, visto il contatto con soggetti positivi.
La Nuova Sardegna, 8 maggio 2020
La direttrice, suor Pietrina Careddu: "Un gesto preziosissimo". Un gesto di solidarietà arriva dalla Colonia penale di Mamone, i cui detenuti hanno raccolto la cifra di 2.300 euro, che hanno poi donato alla Caritas Diocesana di Nuoro per aiutare i bisognosi, aumentati anche a Nuoro in questo periodo di emergenza coronavirus. Per poter avere l'autorizzazione all'iniziativa, denominata "un giorno per beneficenza", i detenuti hanno scritto una lettera alla direttrice Patrizia Incollu.
"In questo tempo di Coronavirus tante persone sono costrette a stare a casa e molti papà non possono lavorare - spiegano - Noi detenuti di Mamone abbiamo pensato di rinunciare al cibo di un giorno a settimana per offrirlo alle famiglie bisognose, ma consegnarli al cappellano che può distribuirli comporta dei problemi.
Se lei ci autorizza, per evitare queste difficoltà, possiamo dare un'offerta in denaro al cappellano che acquisterà i beni e consegnarli alle famiglie bisognose. Abbiamo raccolto le nostre firme, così che lei possa autorizzarci a dare tramite i conti correnti la nostra offerta a don Alessandro Muggianu che ci porterà riscontro di come avrà utilizzato le nostre offerte".
La donazione è puntualmente arrivata alla Caritas nuorese che ora, attraverso la direttrice, suor Pietrina Careddu, ringrazia: "È una somma davvero sorprendente visto che a Mamone scontano pena soprattutto persone extracomunitarie - ha spiegato la responsabile della Caritas.
Questo è l'obolo della vedova di cui parla il Vangelo, il piccolo dono personale eppure preziosissimo, un vero messaggio dal sapore cristiano, ossia universale. La Caritas Diocesana di Nuoro non solo ringrazia questi fratelli ma prende l'impegno di farne sue le motivazioni e sentimenti, di imparare una lezione pratica e coinvolgente".
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