di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 15 giugno 2019
Era in imminente pericolo di vita al regime duro del carcere di Terni, per questo subito ricoverato d'urgenza all'ospedale, sempre in regime di 41 bis. I familiari sono riusciti ad ottenere un permesso speciale dal tribunale di Marsala per poterlo andare a trovare un'ora al giorno. Ma non hanno fatto in tempo a vederlo vivo. Dopo una nota del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, infatti, il tribunale ha fatto dietrofront, ripristinando il colloquio di un'ora al mese. Parliamo di Rosario Allegra, uno dei cognati del super latitante Matteo Messina Denaro - arrestato ad aprile dell'anno scorso - e ristretto al 41 bis, in custodia cautelare, dal 5 maggio scorso.
Il detenuto, come detto, versava - così scrivono i medici - "in gravissime condizioni di salute irreversibile" e così il suo avvocato aveva presentato, il giorno dopo il ricovero, avvenuto il 23 maggio, istanza di revoca della misura o di autorizzazione almeno ad una visita - ulteriore rispetto a quella prevista per il mese successivo a norma di legge -, affinché incontrasse la moglie e i figli. Il motivo della richiesta era l'imminente pericolo di vita. Il Tribunale di Marsala ha rigettato la richiesta di revoca della misura ma, visto che nel frattempo il detenuto iniziava a versare in condizioni terminali e si trovava in ospedale in stato praticamente di incoscienza, ha autorizzato la moglie e i due figli al colloquio di un'ora al giorno per vederlo in via straordinaria. Nell'occasione il Tribunale ha osservato che, se è vero che i detenuti in 41 bis possono usufruire di un solo colloquio al mese, è vera anche la previsione che, in caso di eccezionali circostanze, sia consentito di prolungare la durata del colloquio per i congiunti e conviventi. Pertanto, ritenendo la veridicità del pericolo di vita, evidenziato dalle risultanze degli atti medici prodotti dalla difesa, il Tribunale di Marsala, in un'articolata e motivata ordinanza completa di richiami normativi all'ipotesi della eccezionalità, ha applicato la norma che consente il prolungamento dei colloqui almeno fino al mutamento dell'eccezionale urgenza e dell'imminente pericolo di vita. Per questo, il Tribunale ha autorizzato i colloqui supplementari giornalieri ai figli e alla moglie nel luogo di degenza. Questo è accaduto il 6 giugno scorso, dietro istanza del difensore. Lo stesso giorno il Dap scrive però una nota al Tribunale di Marsala e lo invita a rivisitare il provvedimento, segnalando che il ministro aveva già autorizzato un colloquio visivo "viste le gravi condizioni di salute, in cui versava".
Il tribunale di Marsala il 7 giugno ha recepito la nota e "melius re perpensa" ha revocato l'ordinanza del precedente 6 giugno, nella parte in cui aveva autorizzato per un'ora al giorno i colloqui con la moglie e i figli. Il tutto accade dietro la deduzione di un'attesa valutazione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria sulla effettiva ricorrenza dell'ipotesi dell'imminente pericolo di vita. Ciò, anche se il paziente era in effetti "in imminente pericolo di vita", come si evinceva dalle carte mediche, ed anche se necessitava di "supporto per tutte le funzionalità" secondo il bollettino clinico del 2 giugno dell'Azienda Ospedaliera di Terni - in possesso anche dell'Amministrazione del carcere.
In soldoni, nel giro di poche ore il tribunale ha revocato l'autorizzazione, prima concessa ai congiunti prossimi, di vedere un'ora al giorno il detenuto. Giovedì mattina, Rosario Allegraè morto e, almeno fino al pomeriggio i suoi figli - incensurati - non hanno potuto vederlo. Tutto questo - con tanto di documentazione - lo denuncia a Il Dubbio l'avvocato Michele Capano, componente del Comitato di Radicali Italiani.
"A parte la chiara e vergognosa sudditanza del potere giudiziario a quello esecutivo che il carteggio prova - spiega Capano - è una questione che testimonia del degrado nella magistratura ben più che le vicende di Palamara & company: la prova di disumanità di una Repubblica che - dopo non avere consentito gli estremi conforti al moribondo - ha anche "trattenuto" la salma, evidentemente per non meglio precisate operazioni da compiere".
Continua l'attivista dei Radicali Italiani: "In questa maniera impediscono anche che i familiari si raccolgano nel pianto vicino al cadavere: sono punti di non ritorno nell'imbarbarimento del sistema detentivo". E conclude: "Così viene meno ogni credibilità istituzionale nella lotta alla mafia e si guadagna consenso alla mafia".
di Eleonora Martini
Il Manifesto, 15 giugno 2019
Il perito Francesco Introna rettifica se stesso e ammette. Se Stefano Cucchi non fosse stato
pestato fino a spezzargli la schiena, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, mentre era trattenuto dai carabinieri che lo arrestarono, "verosimilmente" non sarebbe morto. A riferirlo ai giudici della Prima Corte d'Assise, nell'udienza del processo bis che si è tenuta ieri in via straordinaria nell'aula bunker del carcere di Rebibbia, non è un testimone di parte civile ma il prof. Francesco Introna, coordinatore del collegio di periti nominati nel 2016 dal Gip Elvira Tamburelli che eseguirono a quel tempo l'incidente probatorio necessario a stabilire le cause esatte di morte del geometra romano deceduto una settimana dopo il suo arresto nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini.
Proprio quel Francesco Introna alla cui nomina inizialmente si era opposta la stessa famiglia Cucchi e il loro avvocato Fabio Anselmo perché lo consideravano "molto vicino a Ignazio La Russa e a Cristina Cattaneo, il medico legale che firmò la prima perizia d'ufficio sul corpo di Stefano in cui non c'erano tracce delle vertebre fratturate di recente".
Ieri però il capo dei periti, medico legale al Politecnico di Bari, incalzato dalle domande del presidente della Corte, il giudice Vincenzo Capozza, ha ammesso: "Nessuno può avere certezze, però se Stefano Cucchi non avesse avuto la frattura della vertebra S4 non sarebbe stato ospedalizzato; era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per problemi connessi alla frattura. Cucchi non avrebbe avuto la vescica atonica, probabilmente avrebbe avuto lo stimolo alla diuresi e verosimilmente la morte o non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un momento diverso".
Introna, così come gli altri esperti del collegio peritale sentiti ieri in udienza (Cosma Andreula, Vincenzo D'Angelo e Franco Dammacco), hanno di fatto rivisto quanto affermarono nel 2016 in fase di indagine preliminare, prendendo atto evidentemente del bagaglio di evidenze emerse durante il dibattimento e alla luce dell'inchiesta integrativa sui depistaggi aperta dal pm Giovanni Musarò. Anche se il capo del periti, rispondendo alle domande della difesa di uno dei cinque carabinieri imputati, ha ammesso di aver dato in passato una diversa interpretazione, peraltro già più volte confutata durante il processo bis, che presupponeva una condizione di deperimento fisico di Stefano prima di essere arrestato, non si sa bene se dovuta al suo passato da tossicodipendente, alla sua magrezza strutturale o all'epilessia di cui soffriva. Condizioni che, secondo l'accusa e la famiglia della vittima, nulla hanno a che vedere con la morte di un giovane di 32 anni che fino al giorno del suo arresto si era allenato in palestra e che ambiva a praticare costantemente la boxe. "Cucchi è morto per una concatenazione di diverse cause, non abbiamo mai detto che l'epilessia fosse l'unica causa della morte", hanno precisato ieri i periti che stranamente dimenticano, tra le "concause della morte", la frattura della vertebra L3 avvenuta contestualmente alla frattura della S4, evidentemente considerando poco influente le conseguenze psico-fisiche di un trauma di questo genere sulla vittima.
Di fatto però il processo ha subito ieri l'ennesima accelerazione verso quella "verità processuale" che la famiglia Cucchi auspica e attende da tempo. "Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale - ha commentato infatti Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, a fine udienza - e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto". "Ora - ha aggiunto l'avvocato Fabio Anselmo - nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria".
Nella prossima udienza, il 26 giugno, saranno sentiti i periti di parte. Nel frattempo, il 17 e il 18 giugno si terranno le udienze preliminari davanti al Gup per decidere sul rinvio a giudizio chiesto dalla procura di Roma per otto carabinieri (il generale Alessandro Casarsa, i colonnelli Lorenzo Sabatino e Francesco Cavallo, il maggiore Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, il capitano Tiziano Testarmata e i militari Luca De Cianni e Francesco Di Sano) accusati a vario titolo di aver depistato e insabbiato la verità per quasi dieci anni.
barlettanews.it, 15 giugno 2019
Il certificato di collaudo tecnico-amministrativo relativo al nuovo padiglione dell'istituto penitenziario di Trani verrà rilasciato presumibilmente entro il mese di luglio 2019. È quanto si apprende dal funzionario responsabile del Provveditorato interregionale opere pubbliche presso il Ministero delle Infrastrutture e trasporti in risposta alla richiesta formulata nel mese di aprile dal sen. Dario Damiani (Forza Italia). In data 12 aprile scorso, infatti, il senatore Damiani aveva effettuato un sopralluogo nella nuova ala del carcere tranese, un padiglione da 200 posti ultimato ma ancora inagibile per ritardi nel rilascio della documentazione tecnica.
L'indicazione del mese di luglio prossimo fa quindi ben sperare in una soluzione rapida della grave problematica, che comporta per i detenuti e per gli agenti penitenziari in servizio una seria compromissione dei propri diritti essenziali.
"A breve finalmente l'opera già ultimata potrà entrare nella piena disponibilità dell'ente penitenziario. Anche a seguito del mio interessamento, sono state attivate le opportune verifiche che consentiranno, a luglio, di rendere la struttura fruibile - commenta con soddisfazione il sen. Damiani - Continuerò a seguire la vicenda, affinché non resti un'ulteriore opera incompiuta.
È inaccettabile che i detenuti continuino a subire condizioni di sovraffollamento e di emergenza igienico-sanitaria nella vecchia struttura ormai fatiscente e che gli agenti siano costretti a svolgere il proprio lavoro con aggravio di mansioni e carenza di sicurezza".
salto.bz, 15 giugno 2019
Il presidente della Provincia Kompatscher incontra la nuova direttrice Francesca Gioieni. "Massimo impegno della Provincia per il cantiere". La data è un anticipo rispetto al 2021 indicato. L'attuale struttura è in condizioni critiche e quella nuova è per ora solo sulla carta, condizionata dalle incognite che interessano l'azienda vincitrice dell'appalto, Condotte spa, tutt'altro che fugate. Arno Kompatscher assicura però "il massimo impegno della Provincia affinché i lavori del possano iniziare nel 2020, nonostante le ben note difficoltà di carattere economico che stanno colpendo la società".
La Provincia si impegnerà al massimo affinché i lavori del possano iniziare nel 2020, nonostante le ben note difficoltà di carattere economico che stanno colpendo Condotte spa (Arno Kompatscher)
Così interviene il Landeshauptmann a margine dell'incontro con Francesca Gioieni, nuova direttrice della casa circondariale di Bolzano. Originaria della Puglia, da marzo Gioieni ha preso il posto di Rita Nuzzaci che per 16 anni è stata alla guida del carcere altoatesino. La dirigente ha incontrato per la prima volta, nel suo ufficio di Palazzo Widmann, il presidente della Provincia Kompatscher. Insieme si sono soffermati sulle note problematiche che affliggono la struttura di via Dante. Il progetto: i dati sul nuovo carcere di Bolzano nel dossier discusso nella clausura di giunta a maggio a Carezza. Oltre al penitenziario la Condotte spa deve costruire anche il nuovo polo bibliotecario
"Francesca Gioieni - sottolinea il governatore, soddisfatto del colloquio - ha dimostrato grande spirito di iniziativa e si pone come obiettivo quello di avviare una serie di misure e iniziative per migliorare la situazione di chi deve scontare la pena, ma anche di chi opera e lavora all'interno del carcere". Francesca Gioieni si pone l'obiettivo di migliorare la situazione di chi deve scontare la pena, ma anche di chi opera e lavora all'interno del carcere.
Il presidente promette il massimo impegno dell'amministrazione locale affinché si dia avvio al cantiere già nel 2020. In realtà, si tratta di un'anticipazione rispetto alla data segnata sul dossier discusso nella clausura di giunta di inizio maggio. Le tappe previste sono: progetto esecutivo a metà 2020, inizio lavori nella primavera 2021, fine lavori a marzo 2023. Il costo dell'opera, compreso l'acquisto dell'area, è di 63 milioni di euro.
di Giampiero Marras
L'Unione Sarda, 15 giugno 2019
La vita dei detenuti al centro dell'incontro organizzato all'università. Dal racconto in prima persona di Federico Caputo, ex detenuto che è stato anche nella struttura di Alghero, alle parole di Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia. "Mio fratello Giovanni una volta disse: 'Non bisogna mai dimenticare che in ognuno degli assassini c'è un barlume di umanità".
È stata una mattinata intensa anche emotivamente quella dedicata all'editoria carceraria nell'ambito di "Dentro & Fuori", il workshop organizzato dal Polo Universitario Penitenziario dell'Università di Sassari insieme a numerosi partner per fornire un contributo significativo al dibattito in corso su dove va, e dove dovrebbe andare, il sistema carcerario italiano.
"La persona non è solo il suo reato, ma è qualcosa di più complesso" ha detto Federico Caputo, che nel 2014 ha finito di scontare una pena di 14 anni, abbreviata di 4 anni, resa ancora più pesante dalle precarie condizioni fisiche. Ha scritto un libro dal titolo "Sensi ristretti" perché, come ha spiegato: "L'odore indefinibile, l'assenza di colori, il silenzio rumoroso interrotto solo dai cancelli che sbattono. Il sapere interpretare qualsiasi rumore. Tutti i sensi si attivano perché devi sopravvivere in carcere. Sono libero da cinque anni, ma quando chiudo gli occhi l'odore del carcere lo sento ancora".
Giovanni Gelsomino, operatore nella Casa di reclusione di Nuchis, a Tempio, ha sottolineato quanto lo studio possa aiutare una persona che vive rinchiusa da anni, senza la cognizione di come si vive fuori. "La metà dei detenuti di Nuchis frequenta la scuola e molti sono avviati alla laurea. Percentuali da record non solo in Italia, ma credo siano tra le più alte d'Europa. Per dare un'idea di cosa voglia dire stare dentro per anni, quando abbiamo accompagnato un detenuto fuori, è uscito sotto la pioggia ad abbracciare gli alberi", ha detto
di Damiano Tavoliere
Alias - Il Manifesto, 15 giugno 2019
Dal braccio della morte di San Quintino ai detenuti del carcere romano: la compassione di un monaco buddista. "Anche un serial killer riesce a fare meditazione, a contattare livelli di calma profonda e avere un'importante trasformazione interiore, persino superiore a quanto avviene con la psicanalisi. Nello Zen si parla di condizionamenti (mentali, sociali, culturali, familiari, storici...) e afflizioni (ignoranza, paura, rabbia, odio...) che offuscano la nostra vera natura luminosa. Chi non è in grado di gestire le proprie emozioni e l'aggressività connaturata all'uomo, finisce preda delle stesse".
Allora che dire dell'attuale ministro degli Interni che chiude i porti e fa morire la gente in mare? "Una persona che si comporta con tutto quest'odio, tutta questa rabbia, quanto sta male? Quanto dolore ha in sé per rovesciare crudeltà su persone che neppure conosce? Poiché chi sta male scarica la sua sofferenza sugli altri; la meditazione (che è il mio percorso, per altri può essere altro) aiuta le persone a contattare la propria sofferenza e prendersene cura, a guardare ansie paure angosce che guidano la propria esistenza, a riconoscere il proprio ego ipertrofico e le ferite profonde dentro di sé invece di proiettarle sull'altro da sé, in questo caso i migranti. Ma -come per chiunque- tale aiuto va desiderato, non imposto".
L'abbraccio di San Quintino - Dario Doshin Girolami nasce a Roma il 29 settembre 1967 da una famiglia di cineasti: figlio del regista Marino e della costumista Silvana Scandariato, fratello dell'attore Enio (Fellini, Visconti...) e del regista Enzo G. Castellari (adorato da Quentin Tarantino e citato in Bastardi senza gloria). Il suo destino sembrava inciso geneticamente, ma a sei anni il medico curante -nonché insegnante di yoga e meditazione- vede nel bambino vibrazioni speciali, gli trasmette disciplina e testi orientali: un imprinting fatale che diviene nel tempo scelta di vita, studio e pratica, senza nulla togliere al gioco o agli amori e all'infinita attrazione per il mare e i suoi sport. Seguono la laurea e l'opzione monastica, con specifici approfondimenti sulle emozioni che lo conducono al Centro Zen di San Francisco, guidato da Eijun Linda Cutts.
Lì lo Zen intreccia valori essenziali in Occidente: "la democrazia, il femminismo, l'uguaglianza di genere, infatti è la badessa la mia maestra, quella che mi ha trasmesso il Dharma, ossia l'autorizzazione ad insegnare a mia volta, mentre in Oriente c'è separazione uomini/donne e queste sono subordinate". Girolami fa esperienza nel penitenziario di San Quintino coi detenuti condannati a morte ("uno di loro mi disse che ero la prima persona ad averlo abbracciato"), poi a Roma fonda il Centro Zen l'Arco, sposa una fascinosa docente di danza indiana, insegna Taichichuan, tiene seminari e corsi di meditazione all'università e nel carcere di Rebibbia (una sua collaboratrice opera nel settore femminile).
Il famigerato Ashin - La fede buddista è certamente tra le più pacifiche, ma l'inaffidabilità umana fa breccia in tutti gli ambiti e in tutte le epoche, per cui il cronista non può eludere domande sui massacri odierni compiuti esattamente da chi per eccellenza predica la tolleranza: è recente il documentario girato clandestinamente dal regista Barbet Schroeder sul famigerato monaco birmano Ashin Wirathu (Il venerabile W), fautore di una pulizia etnica antimusulmana e di sterminio della minoranza Rohingya, con l'ausilio della giunta militare al potere, il favore pressoché totale del popolo fanatizzato e l'appoggio di San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991 (ora in tanti ne chiedono la revoca); non dissimile il nazionalismo religioso nello Sri Lanka contro cristiani e musulmani. Girolami non si scompone, respira profondamente come volesse assorbire il male del mondo e purificarlo, riabbozza un sorriso di misericordia per le debolezze e le ambiguità costitutive nella nostra specie: "Occorre bloccare e ingessare chi fa del male a sé e agli altri, non girare la testa altrove, come sono fermati e ingessati coloro che incontro in carcere.
Personalmente mi ispiro al modello di Gandhi, faccio del mio meglio per attenermi ai precetti filosofico-religiosi, ma se un malvivente non sente ragione chiamo un carabiniere. Ognuno di noi ha lati oscuri di rabbia e paura che -se non contattati e curati- possono portare alla follia hitleriana, al razzismo, al genocidio. Wirathu va contro gli insegnamenti del Buddha, mi vergogno per la sua condotta, la nostra comunità -soprattutto occidentale- condanna a voce alta il clero buddista birmano legato al regime militare.
Dobbiamo illuminare gli angoli bui che ci affliggono dentro: essere buddisti non significa essere santi, siamo umani e i nostri precetti etici e morali devono orientare il nostro cammino, ma proprio perché umani rischiamo sempre di perdere la bussola. Pure il clero zen giapponese è contravvenuto ai nostri principi di etica, saggezza e compassione: nella Seconda guerra mondiale ha sostenuto lo sforzo bellico nazionalista e -mi duole il cuore a dirlo- alcuni monaci hanno imbracciato le armi violando apertamente l'insegnamento del Buddha".
Dario Girolami è persona assai evoluta, il suo Centro Zen è aperto a tutti senza distinzione di "età, genere, orientamento sessuale, etnia, nazionalità...", la scuola giapponese Soto Zen di cui fa parte consente il matrimonio e le badesse nei templi. Fra le sue varie cariche, egli è membro fondatore di Cmc (Consciousness Mindfulness Compassion), coordinatore Ebu (Unione buddista europea), copresidente di RfP (Religions for Peace).
È cosciente di avere potere su chi gli si rivolge in quanto Maestro, come è cosciente della propria fallibilità in quanto essere umano; perciò, sebbene in teoria autosufficiente e indipendente come Maestro col livello iniziatico più alto (a maggio 2019 diviene Abate del Tempio dell'Arco), la sua continua autosorveglianza s'accompagna alla supervisione della sua storica insegnante spirituale e di uno psicologo, "così verifico che il potere non mi dia alla testa deviando dalla rettitudine e dall'umiltà".
Insensatezza e compassione - "L'unica risposta possibile all'insensatezza della realtà nella quale viviamo è la compassione, volerci bene e sostenerci, senza distogliere lo sguardo dalla sofferenza di tutti gli esseri viventi, senzienti e non senzienti, poiché siamo tutti interrelati e interconnessi in una dimensione impermanente: il carcere è un buco nero che nessuno vede, la società lo rimuove, ma lì ci sono umani sofferenti; troppo facile condannarli: che vita han fatto per finire lì?, e noi, la buona società, cosa abbiamo fatto per loro?
Siamo individui unici e irripetibili, ma siamo pure una sola natura in una società definita. Quando entro in carcere so di incontrare dei malfattori, magari degli assassini, ma io li incontro come esseri umani (né m'interessa il reato commesso), mi preme dargli rispetto, affetto, attenzione, è questo che può cambiare la persona, insieme all'investigazione interiore per capire da quali ferite profonde originano il male e le difese di rabbia e odio. In una lettera bellissima un ex detenuto mi ha scritto: tu sei il primo che mi ha fatto sentire di valere qualcosa".
Redattore Sociale, 15 giugno 2019
Cento detenuti coinvolti ogni anno, 40 spettacoli realizzati e 9 laboratori. Gli operatori si incontrano per la prima volta a Ferrara per creare un coordinamento. Martiello, (Csv): "È il momento di rendere stabili queste esperienze".
Sono più di cento i detenuti coinvolti ogni anno in attività teatrali in Emilia Romagna: 9 i laboratori attivi al momento e 40 gli spettacoli realizzati negli ultimi anni, la maggior parte dei quali rappresentati anche all'esterno delle prigioni. Sono i numeri dell'indagine sul teatro in carcere presentata oggi a Ferrara nel forum sul tema, che riunisce per la prima volta gli operatori delle varie esperienze presenti in regione.
"La funzione trattamentale del teatro è ormai ampiamente dimostrata - spiega Vito Martiello, coordinatore del Centro servizi per il volontariato di Ferrara, che ha contribuito a realizzare la mappatura: ora ora queste esperienze hanno bisogno di un riconoscimento". L'obiettivo del forum, prosegue Martiello, è appunto "la costituzione di un coordinamento di tutte le attività di teatro carcere in regione, come già successo in Toscana". Un riconoscimento ufficiale, insomma, ma anche un modo per rendere più stabili le esperienze che si sono sviluppate in questi anni. "Si tratta di progetti sempre precari - sottolinea Martiello - che nascono su iniziativa dei teatranti e che ogni anno devono lottare per trovare finanziamenti".
Qualcosa in questo senso si sta già muovendo, tanto è vero che il censimento delle esperienze teatrali è stato commissionato al Comune di Ferrara dall'assessorato alle Politiche sociali della regione. Comune e Csv di Ferrara hanno così realizzato schede per ognuno dei laboratori presenti in Emilia: 3 a Bologna, 2 a Modena (contando la casa circondariale di Castelfranco Emilia) e uno rispettivamente a Ferrara, Parma, Reggio Emilia e Rimini. L'ingresso del teatro in carcere, avvenuto negli anni 80, si è dimostrato quindi efficace. "Per i detenuti e per il pubblico il teatro rappresenta la possibilità di vedersi sotto un'altra veste - commenta Martiello -: si tratta di esperienze fondamentali per mettere in contatto le carceri e le città che le ospitano".
La mappa presentata a Ferrara mostra una realtà viva e dinamica, nonostante le inevitabili difficoltà. Fra le esperienze più longeve c'è quella bolognese del Teatro del Pratello, che dopo dieci anni di lavoro con i ragazzi dell'omonimo carcere minorile, nel 2008 ha visto per la prima volta il regista Paolo Billi dirigere detenuti adulti nello spettacolo "Cantico degli Yahoo", presentato nel cartellone dell'Arena del Sole. Sempre a Bologna, dal 2001 l'associazione La città invisibile lavora con i detenuti della sezione alta sicurezza, che finora non hanno però potuto esibirsi al di fuori dalla casa circondariale.
A Modena, invece, il progetto è andato oltre il teatro, portando alla nascita di "Buona condotta", un inserto pubblicato su un settimanale di strada locale per comunicare all'esterno quello che succede in carcere. Scorrendo la mappa, si scopre che i detenuti-attori di Castelfranco si sono presi anche qualche soddisfazione artistica, raggiungendo nel 2007 le finali del Premio Ustica con lo spettacolo "Frammenti". E in alcuni casi la recitazione si è trasformata in un vero lavoro, contrattualizzato e retribuito, seppure in modo occasionale.
di Carlo Lania
Il Manifesto, 15 giugno 2019
Matterella firma il decreto sicurezza bis. La commissione Ue: "La Libia non è un porto sicuro". Solo sedici miglia separavano ieri sera la Sea Watch 3 da Lampedusa. La nave della ong tedesca è rimasta tutto il giorno al largo dell'isola senza neanche tentare di entrare nelle acque territoriali italiane per non offrire pretesti al ministro degli Interni Matteo Salvini. "Ciondolano nel Mediterraneo e giocano sulla pelle dei migranti", è tornato ad attaccare il leghista, al quale ieri si è aggiunto anche il premier Giuseppe Conte che da Malta, dove si trovava per il vertice dei Paesi Ue del Mediterraneo, ha chiesto "maggiore trasparenza da parte delle ong".
A bordo della nave, che mercoledì ha salvato 53 migranti tra i quali quattro bambini e nove donne, quello di tornare indietro e di sbarcare i migranti in Libia, come chiede Salvini, è un pensiero che non sfiora nemmeno le menti del comandante e dell'equipaggio. Con la guerra civile che infuria da mesi provocando morti e feriti, il Paese è lontano dall'essere il porto sicuro richiesto dai trattati internazionali nel quale poter sbarcare uomini, donne e bambini.
E questo anche se giovedì le autorità del Paese nordafricano hanno indicato alla Sea Watch 3 proprio Tripoli come porto dove effettuare lo sbarco. Un'indicazione che, visto come vanno le cose in Libia tra guerra civile e violenze sui migranti, ha tutto il sapore della provocazione. "Il fatto che la Libia non sia un porto sicuro non lo diciamo noi, che riportando indietro i migranti commetteremmo un crimine", ha spiegato la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi. "Lo dice la stessa missione Onu in Libia, l'Unhcr, la Commissione europea, la Farnesina e lo ha ammesso lo stesso ministro degli Interni".
Parole confermate ieri dalla portavoce della commissione Ue che, pur riconoscendo che la commissione non ha competenze per quanto riguarda l'assegnazione di un porto sicuro, ha però ricordato come "tutte le navi con bandiera europea devono seguire le regole internazionali, che significa che devono portare le persone in un porto che sia sicuro. La commissione - ha concluso al portavoce - ha sempre detto che queste condizioni non ci sono attualmente in Libia".
Ieri sera il presidente Mattarella ha firmato il decreto sicurezza bis che diventerà operativo oggi con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Questo significa che il comandante della Sea Watch 3 rischia i sequestro della nave e una multa tra i 10 mila e i 50 mila euro, e ha permesso a Salvini di affermare che "ci sono in acqua tutti i mezzi e gli strumenti legislativi necessari per evitare che questi aiutanti dei trafficanti, nei fatti, arrivino in Italia".
In attesa che la situazione si sblocchi alcune città tedesche, tra le quali Berlino, si sono offerte di accogliere i migranti che si trovano sulla Sea Watch. "Se necessario sono pronto a mandare degli autobus per prendere queste persone", ha detto il sindaco di Rottenburgs, nel Land del Baden-Württemberg. Perché questo possa accadere, però, è necessario che prima la Sea Wach 3 possa trovare un approdo. Cosa che la momento appare difficile. "I porti italiani restano chiusi, non pensino di passarla liscia", tuonava ancora in serata Matteo Salvini
iisroncalli.edu.it, 15 giugno 2019
Si è svolta mercoledì 5 giugno, presso la casa circondariale di Ranza, nel comune di San Gimignano, una partita di calcio organizzata dall'area educativa del carcere in collaborazione con l'IIS Roncalli di Poggibonsi. Protagonisti gli studenti dell'IIS Roncalli: quelli detenuti che frequentano il corso Turismo della scuola carceraria dell'IIS Roncalli e gli studenti della Vafm dell'Istituto valdelsano, accompagnati dalla docente Angela Ferretti, dal Dirigente Scolastico e dal professor Luigi Zonno, coordinatore della sezione carceraria.
L'incontro si è svolto in tre tempi di 50' ciascuno, il terzo dei quali ha visto confrontarsi due squadre miste di giovani studenti e detenuti. Un momento formativo importante che ha lasciato tutti soddisfatti.
"È stata una bella esperienza - dichiara Niccolò Cibecchini della Vafm - all'inizio avevo un po' di ansia ed ero un po' disorientato, ma poi abbiamo trovato un ambiente accogliente e ci siamo divertiti".
"Ho partecipato personalmente all'incontro che ha rappresentato un momento importante per tutti gli studenti del nostro istituto coinvolti - commenta il Dirigente scolastico Gabriele Marini- per gli studenti della Vafm che hanno avuto l'opportunità di fare un'esperienza didattica significativa, che si inserisce in un più ampio percorso di Educazione alla cittadinanza attiva e partecipata, e di confrontarsi con la complessità della vita carceraria; per gli studenti detenuti, che hanno avuto l'opportunità di un contatto e di un confronto con la realtà esterna, in un'ottica anche riabilitativa della pena. La sezione carceraria si inserisce nell'ambito della nostra offerta formativa dedicata agli adulti e siamo contenti di poter svolgere una funzione così importante come quella educativa e culturale all'interno del carcere di Ranza".
Redattore Sociale, 15 giugno 2019
Donne, madri, detenute ma anche agenti della polizia penitenziaria e addette alla sorveglianza. Sono le protagoniste delle immagini che il fotoreporter ha realizzato nelle case circondariali femminili d'Italia. Dal 15 al 30 giugno in mostra a Bologna.
Donne, madri, detenute, ma anche agenti della polizia penitenziaria, addette alla sorveglianza. Sono tutte donne accomunate, nelle proprie differenze dalla condivisione di uno spazio limitato e definito, il carcere. Sono le protagoniste delle immagini del fotoreporter Giampiero Corelli che, con i suoi scatti, ha raccontato la realtà degli istituti femminili italiani. "La bellezza dentro", questo il titolo della mostra promossa dall'associazione il Poggeschi per il carcere e dal Comune di Bologna, sarà visibile dal 15 al 30 giugno a Palazzo d'Accursio. Corelli, che da trent'anni collabora con diverse testate giornalistiche e ha realizzato, tra gli altri, un reportage sulle donne soldato in Afghanistan, è entrato in quasi tutte le case circondariali femminili d'Italia: da Palermo a Trento, passando per Rebibbia, San Vittore e Bologna.
"Le foto fanno emergere l'umanità rinchiusa dentro la realtà delle case circondariali, dove le persone condividono anche le situazioni più intime e personali e i sentimenti positivi e negativi si esaltano. Il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione del ministero della Giustizia, al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, alle case circondariali con il loro personale "ma anche alla direzione, agli educatori, agli agenti di polizia penitenziaria e alle tantissime donne, detenute che si sono prestate a essere fotografate, in un momento della propria vita non certo facile".
I temi della mostra saranno approfonditi il 20 giugno nella tavola rotonda "Alla ricerca della bellezza dentro" che si terrà nella Sala Anziani di Palazzo d'Accursio a partire dalle 17. Sono previsti intervisti di Cecilia Alessandrini, presidente dell'Associazione Il Poggeschi per il carcere, Antonio Ianniello, garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Marcello Marighelli, garante per i diritti delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, Susanna Zaccaria, assessore alle Pari opportunità, Contrasto alle discriminazioni e Patto per la Giustizia del Comune di Bologna, Massimo Ziccone, direttore area educativa Casa Circondariale di Bologna.
- Messico. Mattanza di cronisti, già dieci vittime da quando Obrador è presidente
- Africa. Cambiare affinché nulla cambi
- Libano. Quei ritorni tutt'altro che "volontari" dei rifugiati siriani
- Stati Uniti. In California anche i detenuti possono avere una modica quantità di cannabis
- "L'ergastolo ostativo non è una pena di morte in senso proprio, ma non ne è lontano"