di Andrea Cegna
Il Manifesto, 15 giugno 2019
L'ultima a essere uccisa, Norma Sarabia, indagava sulla corruzione nella polizia. Lo scrittore Juan Villoro: "In questo momento la libertà di espressione non è del tutto garantita". Marco Miranda, giornalista dello Stato di Veracruz, è stato sequestrato nella giornata di mercoledì, mentre martedì una giornalista che si occupava di cronaca nera, Norma Sarabia, è stata uccisa in un agguato mentre tornava a casa nel Tabasco, lo Stato nel sud-est del Messico dov'è nato il presidente Andrés Manuel López Obrador, Amlo. Due uomini mascherati a bordo di una moto le hanno sparato numerosi colpi. Il suo giornale, Tabasco Hoy, ha fatto sapere che indagava su episodi di corruzione nella polizia e che aveva ricevuto minacce anonime.
Si tratta dell'ottavo omicidio di un giornalista dall'inizio dell'anno in Messico, il decimo dall'inizio del governo Obrador. Lo scorso anno furono 8 tra giornaliste e giornalisti ad essere uccisi. Se iniziamo a contare dal 2000 arriviamo a quota 129. Spesso non si sa nulla del perché dell'omicidio, a volte chi è stato ucciso si era imbattuto nelle promiscuità tra trafficanti di droga, apparati dello Stato e operatori di economie legali. Quasi sempre si è data la colpa ai fantomatici "cartelli", soggetti quasi mitologici a cui vengono attribuite le colpe di ogni male del Paese, quasi come un mantra buono e utile a non affrontare i singoli casi.
Juan Villoro, scrittore e giornalista ci dice: "Da quando Obrador è presidente la violenza non è diminuita. Non si tratta certo di una responsabilità dell'attuale governo, perché siamo davanti a un problema strutturale che esiste da decine di anni. Jorge Ramos, giornalista messicano che lavora negli Usa, ha assistito a una delle conferenze stampa mattutine di Amlo e ha fatto domande sulla violenza. Il presidente ha risposto dicendo che l'aritmetica non è il suo forte ma in sostanza ha confermato i tragici numeri elecati da Ramos. Non tenta di negare il problema". Secondo Villoro "in questo momento la libertà di espressione non è del tutto garantita. C'è il timore che gli uffici pubblici che si occupano di comunicazione si convertano in uffici di propaganda. L'agenzia Notimex ha licenziato tutti i suoi corrispondenti per assumere persone vicine al governo Obrador. Preoccupa che invece che attivare percorsi di protezione dei giornalisti si chiudano gli spazi di critica. Gli organi informativi pubblici debbono essere di Stato e non di governo".
Se guardiamo alla violenza, continua lo scrittore: "A città del Messico pochi giorni fa è stato ucciso uno studente universitario. Non ci sono passi in avanti nell'inchiesta su Ayotzinapa, anche se è stata creata una commissione d'inchiesta. Ma il governo di Obrador è in carica da soli sei mesi, impossibile pensare che potesse cambiare tutto in un periodo così breve. Ha creato la Guardia nazionale, scelta molto criticata da settori che pensano che accresca la militarizzazione del Paese, e per attribuirle poteri e competenze son stati modificati 10 articoli della Costituzione. Però con l'accordo firmato con gli Usa di Trump la Guardia nazionale sarà usata soprattutto per arrestare migranti, e non contrastare la violenza nel Paese".
di Anna Bono
Italia Oggi, 15 giugno 2019
Contro questo rischio i cittadini di Sudan, Algeria e Liberia scendono in piazza per protestare. Alla base di tutto il familismo e la corruzione endemica. Protestano i cittadini di tre paesi africani (Sudan, Algeria, Liberia) sfilano per le strade delle capitali, erigono barricate. In Sudan e Algeria le manifestazioni sono cominciate mesi fa.
In Sudan fino ad aprile la gente è scesa in strada contro il presidente Omar al-Bashir, da 30 anni al potere, talmente feroce nel reprimere ogni opposizione e nella realizzazione del suo progetto di arabizzazione del paese, costato milioni di morti e di profughi, da aver meritato nel 2009, primo presidente al mondo, di essere incriminato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità, crimini di guerra e genocidio. Dopo che l'11 aprile i militari lo hanno deposto, le proteste sono riprese non appena si è capito che un nuovo regime rischia di sostituire quello precedente.
Dall'inizio di giugno, quando il Consiglio militare di transizione ha ordinato alle Forze speciali paramilitari di aprire il fuoco sulla folla inerme per disperderla e liberare le strade dalle barricate, i morti sono già decine, forse più di 100. In Algeria le proteste erano iniziate a febbraio, all'annuncio che il presidente Abelaziz Bouteflika, in carica dal 1999, si sarebbe candidato per un quinto mandato alle elezioni in programma il 18 aprile.
La rivolta era contro "le pouvoir", il potere: così gli algerini chiamano il sistema corrotto e clientelare consolidatosi nei 20 anni di Bouteflika. L'11 marzo l'ufficio di presidenza annunciava la rinuncia del presidente a candidarsi, l'imminente formazione di un nuovo governo e il rinvio delle elezioni sine die. Ma le proteste sono continuate: anche dopo le dimissioni di Bouteflika, rassegnate il 2 aprile, dopo la nomina del presidente del consiglio Abdelkader Bansalah a capo dello stato ad interim e dopo l'annuncio della data delle elezioni, fissata al 4 luglio. La popolazione contesta la persistenza al potere, neanche dissimulata, della vecchia leadership e le ingerenze dei militari negli affari politici.
Per tutta risposta il 3 giugno il Consiglio costituzionale ha annullato il voto del 4 luglio. Le ragioni dei manifestanti a Khartoum e ad Algeri sono chiare: protestano contro regimi corrotti e violenti e contro chi li vuole rimpiazzare senza che però niente cambi. Che la Liberia sia in rivolta invece sembra insensato. Il paese è stato governato per 12 anni, dal 2006 al 2017, da Ellen Johnson Sirleaf, premio Nobel per la pace 2011.
Alla scadenza dei suoi due mandati, nel gennaio del 2018, la carica è passata a George Weah, ex giocatore di calcio, vincitore di elezioni giudicate dagli osservatori internazionali "fair and free", trasparenti e libere. Nel 2006 la Liberia usciva da due guerre civili e 14 anni devastanti. Johnson Sirleaf promise che la lotta alla corruzione sarebbe stata il "nemico pubblico numero uno". Invece ha lasciato che la corruzione continuasse a dilagare. "Fedele" alla consuetudine dei leader africani, ha assegnato cariche governative importanti a tre fi gli e a una sorella. A chi la criticava rispondeva: "Dov'è il problema? Avevo bisogno di persone di fiducia".
Alla sua seconda vittoria ha contribuito il sostegno politico di Prince Johnson, ex leader del gruppo armato National Patriotic Front of Liberia, protagonista della prima guerra civile, combattuta dal 1989 al 1996. Nel 1990 il suo Fronte riuscì a rapire il presidente Samuel Doe che fu torturato per molte ore prima di essere ucciso. Torture ed esecuzione furono filmate e il video diffuso in tutto il mondo. Riprende Johnson che assiste alle torture, che beve birra, mentre i suoi uomini tagliano un orecchio al presidente.
Tuttavia, nel 2005 Johnson ha vinto un seggio al Senato e tuttora vi rappresenta la contea Nimba. George Weah, all'indomani del suo insediamento, ha detto di aver ereditato un paese "fallito, impoverito dal malgoverno", e ha dichiarato un impegno totale per garantire d'ora in poi trasparenza e buon governo. Dopo un anno e mezzo, però, ancora nulla è cambiato. Invece, nel frattempo, Weah ha avviato l'ampliamento dei poteri presidenziali e la concomitante riduzione dell'autonomia di istituzioni come la Commissione anticorruzione.
Per gli enormi problemi economici del paese, il 5 febbraio scorso ha esortato la popolazione a pregare Dio due ore al giorno affinché intervenga a risolverli e ha chiesto a tutti i credenti di dedicare alla preghiera l'intera notte precedente l'ultimo venerdì di ogni mese, per chiedere a Dio di benedire il governo. Weah ha voluto come vicepresidente Jewel Taylor, ex moglie dell'ex presidente liberiano Charles Taylor, condannato e attualmente in carcere per crimini di guerra. Jewel, che ebbe un ruolo attivo durante la presidenza del marito, è stata anche nominata presidente del Comitato Sanità e Welfare del Senato su gender, donne e infanzia.
Le manifestazioni di protesta in corso in Liberia sono le più grandi dalla fi ne della guerra civile. "Salva lo stato!" scandiscono i partecipanti che chiedono a Weah di combattere la corruzione e mettere fine alle violazioni della costituzione e lo accusano di ignorare le difficilissime condizioni della popolazione e di pensare solo ad accumulare ricchezze. Due scandali in particolare che riguardano la scomparsa di fondi pubblici hanno suscitato l'indignazione generale: i container pieni banconote appena stampate per un valore di 104 milioni di dollari svaniti nel nulla appena sbarcati nei porti liberiani e il cattivo uso di 25 milioni di dollari nel 2018. Nella scomparsa di 104 milioni di dollari, lo scandalo più grosso, è coinvolto il figlio di Johnson Sirleaf, Charles, vice governatore della Banca centrale della Liberia, arrestato a marzo con altri funzionari con l'accusa di sabotaggio economico, uso illecito di denaro pubblico e cospirazione criminale.
Mentre era vice governatore della Banca centrale della Liberia, Charles avrebbe fatto stampare da una ditta svedese delle banconote per un totale tre volte superiore a quello autorizzato dalla banca. La differenza, 104 milioni di dollari (pari a circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo del paese), pare non sia stata depositata nelle casse della Banca centrale. Una parte di quei milioni sarebbe finita nelle tasche del figlio dell'ex presidente. Era stata Ellen Johnson Sirleaf a nominare Charles vice governatore della Banca centrale.
Invece al figlio Robert aveva affidato la presidenza della Compagnia nazionale petroli, fallita nel 2015. La Liberia è al 181esimo posto nell'Indice di sviluppo umano 2018 su 189 paesi classificati. La speranza di vita alla nascita è di 63 anni, 20 meno che in Italia. Il tasso di occupazione dei liberiani di 15 anni e oltre è del 54,3 per cento, il Pil pro capite annuo è 753 dollari. All'epoca dell'epidemia di Ebola, nel 2014-2015, si è scoperto che il paese ha solo 80 posti letto di ospedale ogni 100 mila abitanti e 50 dottori su una popolazione di 4,3 milioni.
Eppure, Ellen Johnson Sirleaf non solo ha vinto il Nobel per la pace, ma ha anche ricevuto il premio Mo Ibrahim, della fondazione Mo Ibrahim, che viene conferito a ex capi di stato e di governo che si siano distinti per eccellenza di leadership, aver sviluppato i loro paesi, rafforzato democrazia e rispetto dei diritti umani. Nel 2011, intervistata dal Corriere della Sera, aveva dichiarato: "La mia presidenza è stata un grande successo.
Per il fatto di essere donna ho portato una quota di sensibilità in più. Grazie al mio istinto materno, siamo stati in grado di rispondere a donne e giovani. Non a caso mi chiamano Mama Ellen. Nel mio Paese mi considerano la madre della nazione". Lo scorso marzo, in Italia, invitata all'Inventing for life-Health Summit, ha illustrato il suo impegno per la salute e l'istruzione delle donne del suo paese. Prima donna africana a essere eletta capo di stato, Ellen Johnson Sirleaf aveva in effetti suscitato grandi speranze nelle donne liberiane. Ma, anche sotto questo profilo, le aspettative sono state deluse.
Aveva avuto a disposizione 12 anni, ma soltanto tre giorni prima di cedere la carica a Weah si è "ricordata" che in Liberia circa metà delle donne subiscono mutilazioni genitali femminili e ha firmato un ordine esecutivo per proibirle alle minori di 18 anni. Se queste sono le performance di un presidente che ha meritato un Nobel per la pace e un premio Mo Ibrahim, si può immaginare quali siano quelle di leader che neanche cercano una parvenza di rispettabilità e si capisce come mai il Mo Ibrahim, il premio più cospicuo al mondo con un assegno di 5 milioni di dollari e un vitalizio di 200 mila dollari l'anno, sia stato assegnato solo sei volte da quando è stato istituito nel 2007.
Corriere della Sera, 15 giugno 2019
Se c'è un paese in cui espressioni come "invasione" o "alterazione etnica" potrebbero avere un senso, questo non è l'Italia ma il Libano. E non è per un presunto "piano Kalergi" ma per la guerra accanto. Tra registrati (938.531 secondo le Nazioni Unite) e irregolari (550.000 secondo il governo di Beirut), dal 2011 un milione e mezzo di rifugiati siriani - cui vanno aggiunti altri 31.000 palestinesi fuggiti dalla Siria - hanno aumentato di un quarto la popolazione del Libano.
Le loro condizioni sono state raccontate in un bellissimo reportage di Marta Serafini. Pur in presenza di denunce di sfruttamento lavorativo e sessuale e di discriminazione, il Libano ha fatto molto più di paesi europei dotati di ben altre risorse. Ma da almeno un anno e mezzo, è stata registrata un'inversione di rotta. Dal dicembre 2017 al marzo 2019, secondo fonti ufficiali, 172.046 rifugiati siriani sono rientrati "volontariamente" nel loro paese. Di "volontario" in realtà c'è ben poco. Sono i servizi di sicurezza siriani, attraverso interrogatori intimidatori, a stabilire chi può rientrare e chi no. Con quale destino, non è dato saperlo.
E a "volontarizzare" le richieste di rientro contribuiscono ulteriori fattori: gli ostacoli frapposti al rinnovo dei permessi di soggiorno, gli sgomberi forzati di accampamenti precari, i tagli ai servizi essenziali, i coprifuoco, gli arresti di massa e - se tutto questo non bastasse - gli attacchi ai campi per rifugiati. Come quello del 5 giugno a Deir al-Ahmar, un campo informale nella valle della Bekaa che ospitava 600 rifugiati siriani e che oggi non esiste più: una cinquantina di uomini, nottetempo, ha dato fuoco a tre tende e ne ha rase al suolo con un bulldozer altre due.
Chi soffia sul fuoco? I sovranisti locali: il Movimento dei liberi patrioti. L'8 giugno ha avviato una distribuzione massiccia di volantini con questi slogan: "La Siria è un paese sicuro e il Libano non ce la fa più", "Proteggiamo i lavoratori libanesi" dalla presenza di rifugiati che accettano salari minori da parte di datori di lavoro (libanesi) senza scrupoli. Tutto il mondo è paese. Soprattutto quando, anziché dare una mano, i leader europei tirano un sospiro di sollievo se vedono un altro paese accollarsi la maggior parte dell'onere dell'accoglienza.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 15 giugno 2019
La decisione di una Corte d'appello di Sacramento. Anche i detenuti della California possono possedere una modica quantità di cannabis in carcere. È questa la sentenza di una Corte d'appello di Sacramento che ha rovesciato le condanne di cinque detenuti che erano stati trovati in possesso di marijuana, facendo riferimento al referendum del 2016 in cui si è legalizzato il possesso di cannabis per tutti i californiani, anche per quelli che sono in prigione.
Nella sua sentenza il presidente della Corte d'appello del terzo distretto, Vance W. Raye, ha infatti ricordato che il codice penale californiano criminalizza il consumo di cannabis per i detenuti, ma non affronta la questione del possesso. Quindi, secondo il giudice, le prigioni hanno la possibilità di regolare il possesso di cannabis, come fa con sigarette ed alcol, ma i detenuti non rischiano allungamenti della pena se scoperti.
Una sentenza che fa discutere negli Usa, ma inevitabilmente si ripercuote anche nel nostro Paese dove possedere la cannabis è proibito per tutti e dove, addirittura, si è messo in discussione anche quella "light" grazie alla famosa sentenza della Cassazione che vieta la vendita di oli, resina, inflorescenze e foglie di marijuana sativa perché la norma sulla coltivazione non li prevede tra i derivati commercializzabili. A proposito della cannabis illegale Rita Bernardini del Partito Radicale da anni sta facendo disobbedienza civile coltivando numerose piantine di marjuana, tant'è vero che stasera, a partire dalle 17 e 30, parteciperà assieme all'associazione La Ripiantiamo alla manifestazione "Notte verde per la vita di Radio Radicale", proprio a largo Argentina, vicino alla sede del Partito Radicale. È per denunciare, ancora una volta, l'urgenza di un cambiamento sul tema della cannabis terapeutica.
"Non so se piangere o ridere - commenta Rita Bernardini a Il Dubbio in merito alla vicenda californiana - a leggere questa notizia che metto in relazione alla disastrosa situazione italiana. Mentre in California si discute se regolamentare o meno il possesso di marijuana anche in prigione, visto che fuori è legalizzata, qui da noi è tutto proibito ma tutto è disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte, sia in galera che fuori. Da noi, infatti, si preferisce fare la faccia feroce "contro la droga", scegliendo così oggettivamente di favorire i profitti delle mafie anziché regolamentare un fenomeno che riguarda milioni di consumatori".
Rita Bernardini poi fa un riferimento alla Direzione Nazionale Antimafia, la quale ha affermato che le azioni di contrasto finora svolte non hanno determinato "non solo, una scomparsa del fenomeno (che per quanto auspicabile appare obbiettivamente irrealizzabile), non solo un suo ridimensionamento, ma neppure un suo contenimento". L'esponente del Partito Radicale conclude: "Di fronte a queste dichiarazioni del massimo organo di contrasto alle organizzazioni mafiose, che vuol fare il governo attuale, riempire ancor di più le carceri e celebrare milioni di processi come se fossero pochi quelli che intasano i tribunali italiani?".
di Ornella Favero*
Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2019
La Corte europea dei Diritti dell'Uomo, sentenza "Viola contro Italia": "È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura".
Stella L., studentessa di un liceo delle scienze sociali entrata in carcere con la sua classe per confrontarsi con le persone detenute: "Una delle cose che mi ha colpito di più è stata venire a confronto con l'idea e il concetto dell'ergastolo ostativo e con le persone che vivono tale realtà. L'ergastolo ostativo non è una pena di morte in senso proprio, ma non ne è lontano. Forse in effetti l'unica differenza tra la pena di morte ed un ergastolo ostativo è l'incognita della morte, che invece di essere programmata per un giorno fisso, avverrà naturalmente per tutti, ergastolo o meno.
Vorrei ringraziare in particolare i detenuti che ci hanno parlato, per averci offerto un incontro unico e di grande valore per la nostra vita. In un certo senso forse hanno contribuito a creare un futuro migliore e più sensibile a questi fatti, dato che i giovani di oggi che li hanno ascoltati saranno gli adulti del domani".
di Maria Brucale*
Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2019
L'art. 3 della CEDU esprime con chiarezza un concetto assoluto, il divieto di tortura: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La potenza cogente di tale disposizione si manifesta in molteplici ambiti e racchiude in sé numerosi precetti posti a tutela di diritti inalinenabili: alla vita, alla libertà, alla sicurezza, a un equo processo, a un trattamento sanzionatorio equo, al rispetto dei rapporti affettivi e della sfera familiare, tutti connotanti un paradigma superiore e immanente, la dignità dell'uomo.
di Claudio Cerasa
Il Foglio, 14 giugno 2019
Storica e giusta sentenza della Corte di Strasburgo contro l'ergastolo ostativo. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto all'Italia di rivedere le norme che regolano l'ergastolo ostativo (il carcere a vita), affermando che queste sono contrarie all'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti inumani e degradanti.
di Mattia Feltri
Il Secolo XIX, 14 giugno 2019
La sensibilità penale italiana poggia su due capisaldi: "buttare le chiavi" e "marcire in cella". La Cedu, che non è l'università di Del Piero ma la Corte europea dei diritto dell'uomo, dunque per la maggioranza degli italiani fumisteria da professoroni, ha giudicato inumano e degradante l'ergastolo ostativo cui fa ricorso la giustizia italiana.
di Angela Azzaro
Il Dubbio, 14 giugno 2019
Il ruolo dei Tg, il racconto mediatico, il lavoro svolto dai giornalisti: così si crea una percezione sbagliata. Nel 2017, i casi di legittima difesa sono stati 27, di cui quattordici non sono stati neanche rinviati a giudizio.
Se accendete la tv o leggete i giornali o andate a un comizio di Matteo Salvini, vi convincerete che le persone accusate e condannate per aver sparato a un ladro che stava entrando in casa, siano mille, duemila, un milione. Comunque tanti, troppi casi, al tal punto da pensare che la questione sia una emergenza e che ha fatto bene il ministro dell'Interno a modificare la legge.
Stesso ragionamento, vale per i reati. I dati del Viminale dicono che negli ultimi dieci anni sono dimezzati furti, rapine, omicidi. Ma la percezione delle persone è opposta, a tal punto che tra gli italiani crescono - come raccontato in questi anni dal Censis - odio e paura. Come mai?
È la domanda che si sono fatti sul Corriere della sera Milena Gabanelli e Luigi Offedu. La risposta la hanno trovata mettendo sotto accusa i nostri Tg. Nei cinque principali telegiornali il 36,4 per cento dei servizi è occupata dalla cronaca contro il 18,2 per cento della tv tedesca. La considerazione è esatta ma va ampliata tenendo conto di tutta la televisione italiana e ancora più in generale di tutta l'informazione. Sembra infatti che la responsabilità sia sempre degli altri (in questo caso i Tg) quando tutto il sistema mediatico italiano in questi anni ha soffiato sul fuoco, costruendo l'idea diffusa che siamo un Paese ad alto rischio criminalità e che lo Stato è assente in difesa dei propri cittadini.
Qualche tempo fa, partecipando a una trasmissione, il conduttore mi ha chiesto: "Ma se i reati diminuiscono perché le persone hanno questa percezione?". La risposta era insita nel suo programma, nelle ore e ore di servizi dedicati alle rapine, ai furti, ai furbetti del cartellino sottoposti alla gogna del pubblico e dopo qualche tempo assolti senza avere diritto di replica. L'attenzione va infatti posta non solo e non tanto sui Tg, quanto sull'intera programmazione della tv pubblica e privata. Dalla mattina fino a tarda notte chi guarda il piccolo schermo viene bombardato da servizi dedicati alle rapine, ai furti, alle persone che delinquono o alle persone che vengono accusate di aver commesso un reato e solo per questo sono considerate colpevoli. È una dinamica che si fonda su alcuni fattori chiave.
Proviamo a metterne in risalto alcuni. Il primo è quello della ridondanza: la stessa rapina viene mandata in onda più volte, con un montaggio e una musica che tendono a enfatizzare gli elementi violenti. Il secondo è quello della saturazione: tutto il palinsesto è costruito mettendo in evidenza gli aspetti negativi che accadono nella realtà. Il terzo è quello della "colpevolezza": se si parla di una inchiesta viene presentata come una sentenza. Basta cioè un avviso di garanzia per essere giudicati colpevoli. Se questo vale per l'informazione di carta, su cui bisogna rileggere la validissima ricerca fatta dall'Osservatorio informazione dell'Unione Camere penali, ancora di più è vero per la televisione, in cui l'impatto emotivo è più forte.
Le immagini abbassano il livello di criticità, siamo più proni a pensare che ciò che vediamo sia vero, dimenticando - anche quando lo sappiano - che dietro c'è un punto di vista, una costruzione discorsiva, una visione del mondo. Per questo leggendo Gabanelli, domenica scorsa sul Corriere, sono rimasta un po' allibita. Report per primo ha fatto passare l'immagine di un Paese allo sbando, in preda a bande di corrotti, dove tutto va male. In linea con l'attacco alla cosiddetta "casta" che ha conquistato un pezzo del giornalismo nostrano, il programma di Rai3 ha contribuito ad aumentare la sfiducia nei confronti della politica e dello Stato.
Quello cioè che mi ha colpito dell'articolo della giornalista è la mancanza di un "mea culpa". Un "mea culpa" che invece va fatto. Oggi infatti è facile, se non banale, attaccare Salvini che usa il tema della legittima difesa come una bandiera che produce consenso. I dati sul calo dei reati si sa da diversi anni, ma l'informazione sembra accorgersene solo ora, quando - da alcuni punti di vista - è quasi troppo tardi. Il ministro dell'Interno ha sfruttato quella percezione, diffusa nella popolazione italiana, creata da alcuni politici, lui compreso, e da quasi la totalità dell'informazione italiana.
È facile prendersela con lui, quando la vera critica dovrebbe essere mossa verso il modo in cui si sono date, per anni, le notizie. Certo, il piano emotivo- simbolico agito dalle forze politiche non può essere trascurato. Tutt'altro. Ma pensiamo in primis alle nostre responsabilità. In nome dell'audience o delle vendite si è fatto credere che eravamo un Paese violento, corrotto, sotto scacco a causa delle caste, e oggi è molto difficile tornare indietro. Ma va fatto, a tutti i costi. O almeno il mondo dell'informazione smetta di chiedersi come e perché nasca il gap tra fatti e percezione. Di te fabula narratur....
di Marina Caneva*
gnewsonline.it, 14 giugno 2019
Le nuove Strategie sulla prevenzione e la lotta alla radicalizzazione nelle carceri e sulla gestione di terroristi ed estremisti violenti dopo il rilascio sono state recentemente approvate dal Consiglio dell'Unione Europea, una delle quattro più importanti istituzioni della Ue.
Priorità assoluta nell'agenda del Consiglio, la lotta al terrorismo e alla radicalizzazione pone continue sfide nell'ottica di un approccio multi-agenzia, pubblico-privato, in ambito europeo e nelle regioni transfrontaliere. La valutazione delle minacce sul tema dell'antiterrorismo ha evidenziato l'urgenza di identificare misure di contrasto efficaci e progetti di reinserimento alla luce del fatto che numerosi detenuti estremisti violenti o accusati di terrorismo potrebbero essere rilasciati nei prossimi due anni.
Le conclusioni del Consiglio Europeo hanno individuato le iniziative di maggiore impatto, definite 'buone prassi', in vari ambiti, fra cui quello della formazione. Tra le attività formative di maggior importanza sono state segnalate quelle implementate dalle agenzie e dalle reti UE come Cepol (European Union Agency for Law Enforcement Training) e Ran (Radicalisation Awareness Network) e dal progetto europeo Derad (Counter radicalization through the Rule of Law) individuato quest'ultimo come lo standard nella formazione giuridica in materia.
Il Ministero della Giustizia, per il tramite del Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, ha coordinato il progetto Derad in qualità di capofila, e consegue così un risultato senza precedenti, ottenuto grazie ai finanziamenti europei e senza alcun onere per il Ministero. "Gli obiettivi raggiunti e riconosciuti da 28 Paesi Membri - ha dichiarato il Provveditore Enrico Sbriglia - potranno consentire al nostro Paese di avanzare in futuro maggiori aspettative, anche ove si ipotizzasse l'istituzione di un'agenzia europea che, se costituita in Italia, confortata e sostenuta dall'Amministrazione Penitenziaria a livello centrale, rappresenterebbe indubbio vanto per il nostro Paese".
Oltre 1.000 sono state le unità formate in 27 Paesi europei grazie alle attività predisposte, che hanno consentito di dare vita a un campus virtuale, la piattaforma di formazione online Hermes, contenente 7 moduli innovativi, basati soprattutto su filmati originali per esercitazioni pratiche in tutte le lingue della UE, utilizzati per formare magistrati nazionali e della Corte Europea dei Diritti Umani. Infine, 50 punti di contatto nazionali in 27 Paesi membri hanno collaborato alla costruzione del toolkit, che fa da base all'intero programma formativo.
La sicurezza dell'ordine costituito dei Paesi Membri richiede l'istituzione di un fronte unico, che muova anche da una formazione di base omogenea, a contrasto del concreto pericolo derivante dalle tragiche conseguenze che il radicalismo violento può generare. Con il progetto Derad, per la prima volta nella storia delle istituzioni europee, il Consiglio della UE riconosce finalmente al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria un ruolo all'avanguardia nel progetto di omogeneizzazione legislativa e formativa.
*Referente per la comunicazione del Prap Triveneto
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