di Marco Conti
Il Messaggero, 14 giugno 2019
Non scioglie il Csm per non insabbiare né l'intenzione mostrata dai partiti di cambiare i criteri di elezione, né i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati coinvolti nella "tratta" delle procure. Al termine di una giornata di polemiche e pressing, Sergio Mattarella traduce in un atto la sua preoccupazione per la bufera che sta travolgendo l'organo di autogoverno della magistratura.
In qualità di presidente del Csm, Mattarella fissa elezioni suppletive (che porteranno a un ulteriore slittamento delle nomine per le procure vacanti, a partire da quella di Roma) in modo da evitare che il ritorno al voto con le stesse regole diventi una sorta di colpo di spugna. Dal Quirinale ieri sera spiegavano che "lo scioglimento immediato del Csm comporterebbe la rielezione dei suoi membri con i criteri attuali, mentre diverse forze politiche auspicano un cambiamento e chiedono una riforma delle norme di elezione".
Un argomento in scia alle richieste dei partiti che sembrano scoprire solo ora - e non sono i soli - i meccanismi correntizi sulla base dei quali sono stati sinora assegnati a magistrati i più importanti uffici giudiziari. Una riprova si ha con le suppletive che Mattarella è stato costretto ad indire per rimpiazzare i due dimessi (Antonio Lepre e Sergio Spina) che componevano una lista di quattro (quattro candidati per quattro posti, per quattro correnti) senza quindi possibilità di attingere da una lista di non eletti.
Uno scioglimento dell'intero Csm avrebbe inoltre rinviato di mesi le azioni disciplinari che sono state già istruite dal procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio nei confronti dei cinque togati coinvolti nelle inchieste. Ciò che però interessa soprattutto a Mattarella è che le forze politiche diano seguito alla volontà di cambiare passo procedendo ad una riforma il più possibile condivisa. Dell'importanza di una "reazione" aveva parlato giorni fa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede reduce proprio da un incontro con il presidente della Repubblica.
D'altra parte di riforma dei meccanismi di elezione del Csm si parla anche nel contratto di governo e per il Guardasigilli dovrebbe andare avanti insieme alla riforma dell'ordinamento giudiziario. In queste settimane Mattarella ha avuto continui contatti con i vertici del Csm e con il ministro della Giustizia. In una prima fase il Capo dello Stato aveva dato mandato al vicepresidente David Ermini approfondire la gravità della situazione.
Con la nota di ieri Mattarella spinge affinché si possa "voltare pagina" cambiando i meccanismi di elezione ed evitando che uno scioglimento, e nuove elezioni con le stesse regole, contribuiscano a lasciare le cose come stanno. Obiettivo del presidente Mattarella è quello di restituire alla magistratura quel prestigio e quell'indipendenza che secondo il Quirinale sono stati "incrinati" da ciò che emerge dall'inchiesta.
Un'inchiesta che ha portato all'attenzione dell'opinione pubblica meccanismi che, al netto di eventuali aspetti corruttivi tutti da chiarire, erano già noti. Un vaso di Pandora esploso all'improvviso nel corso di una guerra tra bande, che ha mostrato la commistione tra politica e magistratura i cui effetti vengono mediaticamente ampliati - anche ora che sono coinvolti magistrati - dalla diffusione di trascrizioni di intercettazioni.
Un clima di veleni, millanterie e accuse che ha anche sfiorato la presidenza della Repubblica attraverso conversazioni assai indirette degli intercettati sul ruolo di un presunto informatore addirittura dentro il Quirinale. Voci non circostanziate, subito smentite con nettezza dal Colle, ma che sono il segnale di un degrado del sistema giustizia che va fermato. Ammesso che i partiti ne abbiano la voglia e, soprattutto, la forza.
di Errico Novi
Il Dubbio, 14 giugno 2019
I trojan di Perugia usati pure contro il Colle. A volte le osservazioni giuste vengono dalle persone sbagliate. Da Luca Lotti, per esempio, che le intercettazioni del Gico hanno sorpreso a fantasticare di piani galattici sulle Procure. Tra un "si vira su Viola" e un "ti togliamo Creazzo dai coglioni", l'ex ministro affida finalmente al suo sfogo via Facebook di ieri una bella domanda, anzi due: "Com'è che durante un'inchiesta ancora in corso vengono pubblicate intercettazioni, senza rilievo penale, di non indagati?
Come sono arrivate nelle redazioni dei giornali?". Belle domande davvero. Decisive. Ma di semplice soluzione. Le intercettazioni arrivano nei giornali perché costa nulla pubblicarle. Altrimenti chi le controlla non le farebbe trasudare dal velo del segreto istruttorio. Sia detto meglio: costa non proprio nulla ma pochissimo, 129 euro per la precisione. Che ci si creda o no, a tanto ammonta la cifra che consente di "oblare" il reato previsto all'articolo 684 del codice penale, la pubblicazione di atti giudiziari. Un gettone da 100 euro o poco più e il gioco è fatto. Può mai essere il segreto istruttorio affidato a una tanto ridicola forma di dissuasione?
Ogni ora che passa si scopre qualcosa. Ieri altre intercettazioni captate originariamente per l'indagine di Perugia su Luca Palamara sono divenute pubbliche. Anche per via dell'atto di incolpazione firmato dal pg della Suprema corte, Riccardo Fuzio, contro i togati coinvolti nel caso Csm, atto disponibile on line da mercoledì sera, su fonti "aperte". Si scopre per esempio che nella cena con Lotti e Cosimo Ferri, deputato e presunto leader ombra del gruppo di Magistratura indipendente, il consigliere (ora autosospeso) Corrado Cartoni, pure lui di "Mi", dice che David Ermini "si deve svegliare".
Il vicepresidente del Csm non recepisce le "sveglie" congiunte del Pd e di vari togati, soprattutto su alcune scelte della sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. Ne esce da persona specchiata e seria qual è, Ermini. Ma non è che si può giocare alla roulette russa delle intercettazioni. La credibilità di organi di rilievo costituzionale non può essere affidata al caso. Cioè al fatto che qualcuno parli bene di te mentre ha un trojan nel cellulare.
Anche perché nella roulette russa finisce che in un altro brano segreto, reso ovviamente pubblico da alcuni giornali di ieri, viene citato un consigliere del Capo dello Stato. Secondo Ferri, verrebbe da tale consigliere la prima rivelazione sul trojan "inserito" nel portatile di Palamara. E chi può escludere che la frase di Ferri debba in realtà dissuadere gli inquirenti dall'approfondire il materiale intercettato, visto il rischio di chiamare in causa persone rispettabili? Siamo a questo. È il caso di fermarsi?
Ieri il presidente dell'Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza ha chiesto un "tavolo" con le toghe per trarre le conclusioni dal terremoto Csm: "Va temperata l'obbligatorietà dell'azione penale", ha ribadito. Sarebbe bello se i magistrati eventualmente chiamati a discutere con il leader dei penalisti proponessero a loro volta di rendere davvero vietata la pubblicazione di intercettazioni.
Sarebbe bello se nella commissione d'inchiesta proposta ieri da parlamentari di Fratelli d'Italia, gli stessi magistrati ammettessero di aver troppo spesso usato i giornali per ottenere il tifo degli italiani per le loro indagini. E non sarebbe male se il Parlamento chiedesse ad avvocati e giudici di scrivere insieme una legge seria per impedire che le conversazioni segrete siano usate, ancora in futuro, come arma letale.
Certo, il massimo desiderabile sarebbe se i magistrati si rendessero conto da soli che il gioco al massacro non può andare avanti. Che si rischia di travolgere con il solito fango le più alte istituzioni della Repubblica, presso le quali i magistrati stessi giurano dopo aver vinto il concorso. Se poi vogliamo sognare in grande, dobbiamo illuderci che a chiedere di smetterla con l'uso letale delle intercettazioni possa essere Giuseppe Marra, primo dei non eletti nella "sezione" da cui proveniva Gianluigi Morlini, il secondo togato dimessosi dal Csm (preceduto da Luigi Spina e seguito ieri da Antonio Lepre).
Marra subentrerà a Morlini: il plenum ha già votato il suo rientro in ruolo al massimario della Cassazione, presupposto necessario per l'ingresso a Palazzo dei Marescialli. Lascia la direzione assunta pochi mesi fa al dipartimento Affari di giustizia del ministero. Marra era candidato al Csm per Autonomia & indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo.
La più pessimista, diciamo, sulla moralità delle classi dirigenti. Visto che anche la magistratura è classe dirigente, e non la si può abbattere a colpi di trojan, davvero non sarebbe male se le contromisure fossero proposte da chi condivide quel pessimismo con Davigo. Perché adesso è difficile crederlo, ma magari anche i piani galattici di Lotti e Palamara per il "danneggiamento di Creazzo" potevano essere arginati senza che tutta Italia li conoscesse in anticipo.
Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2019
Corte Ue - Sentenza 13 giugno 2019 - Causa C-646/17. È legittima la normativa italiana che consente agli imputati di patteggiare in dibattimento unicamente quando mutano i fatti contestati e non quando muta la loro qualificazione giuridica. Lo ha stabilito la Corte Ue, sentenza nella Causa C-646/17, del 13 giugno.
Il caso - In un procedimento penale italiano, l'imputato, accusato di ricettazione, ha confessato di averli rubati. Nel corso del dibattimento, il pubblico ministero non ha però modificato l'imputazione - da ricettazione a furto - lasciando espressamente al giudice del Tribunale di Brindisi il compito di riqualificare i fatti. Questa decisione del Pm ha provocato il rigetto della domanda di patteggiamento presentata dall'imputato. Dopo l'inizio del dibattimento, infatti, il patteggiamento è ammissibile solamente se l'imputazione viene modificata per l'addebito di un fatto storico nuovo o diverso, mentre, nel caso di specie, era necessaria soltanto una riqualificazione giuridica del medesimo fatto.
Il rinvio - A questo punto il Tribunale di Brindisi si è rivolto alla Corte di giustizia per chiedere se una simile differenziazione tra gli effetti della modifica dell'accusa - a seconda che si tratti di modifica in fatto o di modifica in diritto - che comporta anche delle sostanziali disparità in merito all'esercizio del diritto di difesa, come l'ammissibilità o meno dell'istanza di patteggiamento, sia compatibile con il diritto dell'Unione.
La decisione - Per la Corte di Lussemburgo il diritto dell'Unione non osta a una normativa nazionale, come quella italiana, secondo cui l'imputato può domandare, nel corso del dibattimento, il patteggiamento nel caso di una modifica dei fatti su cui si basa l'imputazione, e non, invece, nel caso di una modifica della qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell'imputazione. Con riferimento al dibattimento penale, più specificamente, la Corte rileva che l'effettività della difesa non esclude che la qualificazione giuridica dei fatti contestati possa essere modificata o che nuovi elementi di prova possano essere inseriti nel fascicolo nel corso della discussione. In ossequio al fondamentale diritto di difesa, siffatte modifiche e siffatti elementi devono però essere comunicati all'imputato o al suo avvocato in un momento in cui questi ultimi abbiano ancora la possibilità di reagire in modo effettivo, prima della deliberazione.
La Corte sottolinea poi che gli Stati membri restano comunque liberi di assicurare un livello di tutela più elevato di quello garantito dal diritto dell'Unione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Infine, la Corte conclude che sia il diritto all'informazione garantito dalla direttiva sia il diritto di difesa garantito dalla Carta risultano rispettati. Infatti, né l'uno né l'altro implicano l'obbligo di riconoscere all'imputato la facoltà di chiedere il patteggiamento nel corso del dibattimento.
edizionecaserta.com, 14 giugno 2019
"Angelo stava bene. Non ha mai avuto un problema". Lo ripetono comunque un mantra. I familiari di Angelo Serra, ma anche i suoi compagni di cella. Nessuno riesce a spiegarsi come, quel ragazzone di 38 anni, sia morto all'improvviso. Coloro che condividono con lui la camera alla casa circondariale ieri mattina sono andati a svegliarlo e hanno fatto la drammatica scoperta.
Inutili i soccorsi, il 38enne di Caivano era già deceduto da tempo probabilmente per un malore ma questa resta solo una delle ipotesi. Al momento le indagini vanno avanti in un riserbo stretto ed anche il suo legale di fiducia, l'avvocato Daniele Delle Femmine, attende di conoscere i primi atti dell'indagine. La famiglia al momento non ha presentato denuncia, ma la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha voluto comunque predisporre l'esame autoptico.
La salma è stata così sequestrata e trasferita all'istituto di medicina legale di Caserta dove domani mattina sarà effettuato il test, a questo punto indispensabile per conoscere la verità sul decesso. Soltanto dopo l'autopsia i familiari potranno rivedere il corpo del loro caro. Serra era recluso in quanto stava scontando una condanna per rapina: l'ultimo arresto era avvenuto proprio a Caserta nel gennaio 2018: venne bloccato dagli agenti della questura in piazza Carlo III dopo aver depredato una donna della sua borsa, sotto minaccia di una pistola rivelatasi poi finta. Un'esistenza piena di tunnel e costellata di problemi con la giustizia, dalla quale ora chi gli ha voluto bene attende una parola definitiva sulla sua morte.
milanotoday.it, 14 giugno 2019
Un uomo di 59 è morto all'interno del carcere milanese di San Vittore. La scoperta del cadavere è arrivata all'alba di venerdì. Attorno alle 5 sul posto - via Gian Battista Vico - è intervenuto il 118 con un'automedica e un'ambulanza. Il personale dell'Azienda Regionale Emergenza Urgenza, però, non ha potuto fare nulla per salvare la vita dell'uomo. Non ci sarebbero dubbi sulla natura suicidaria del gesto. Le indagini sull'accaduto sono in mano alla Polizia penitenziaria.
umbria24.it, 14 giugno 2019
Rosario Allegra, cognato del boss latitante Matteo Messina Denaro, è morto il 13 giugno 2019 all'ospedale di Terni. Il sessantacinquenne era stato arrestato dai pm di Palermo che lo consideravano il reggente designato del mandamento di Castelvetrano in assenza del padrino ricercato. Allegra era detenuto da molti anni in regime di 41bis e il 28 maggio scorso a suo carico si era aperto anche il processo per l'operazione Anno zero a carico di 18 presunti mafiosi e fiancheggiatori di Cosa nostra nel Belicino. Davanti al tribunale di Marsala per rispondere dell'imputazione di associazione mafiosa Allega, però, non è comparso. Il sessantacinquenne, infatti, era già stato ricoverato all'ospedale di Terni a causa di un aneurisma, che dopo oltre due settimane di ricovero gli ha stroncato la vita.
Redattore Sociale, 14 giugno 2019
Sessanta detenuti, uomini e donne, impareranno a preparare il cannolo, la pupa di zucchero, il torrone e la pasta reale. Tra gli obiettivi anche la realizzazione di una cooperativa e tirocini formativi esterni. Apprenderanno la millenaria arte della pasticceria siciliana con i suoi dolci più tipici. Si tratta di 60 detenuti (uomini e donne) del carcere di Palermo, su 120 partecipanti selezionati, che verranno coordinati dal maestro pasticcere Salvatore Cappello, che vanta una tradizione familiare centenaria tramandata di padre in figlio. Nello specifico, 32 uomini e 8 donne, parteciperanno alle varie fasi del progetto mentre altri 20 detenuti avranno la possibilità di fare i tirocini formativi che si potranno svolgere all'interno o all'esterno del carcere secondo quanto prevede l'articoli 21 del codice penale.
La presentazione è avvenuta ieri mattina nel teatro della Casa circondariale "Pagliarelli - Antonio Lorusso". Il progetto "Sprigioniamo Sapori" è finanziato dal Dipartimento Regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali nell'ambito dell'Avviso 10/2016. Tutto il percorso è gestito dall'associazione I.D.EA. presieduta da Fabrizio Fascella, in partenariato con l'associazione Orizzonti onlus e la pasticceria Cappello con la collaborazione del "Pagliarelli" che, attraverso varie attività (orientamento, formazione, laboratori e tirocini), favorirà l'inclusione sociale e lavorativa dei detenuti. Il progetto è già iniziato lo scorso novembre con la prima fase di orientamento professionale dedicata alle 70 donne di tutta la sezione femminile da cui sono state scelte adesso 8 recluse.
"Il nostro progetto - spiega Aurelia Graná, direttore del progetto - prevede un corso di formazione di 600 ore per 8 donne che potranno acquisire una formazione spendibile a livello europeo, sempre grazie al maestro Cappello. Quattro, poi, saranno i corsi brevi dedicati e pensati per insegnare ai detenuti la realizzazione di dolci tipicamente siciliani come il cannolo, la pupa di zucchero, il torrone e la pasta reale che poche pasticcerie sanno fare a livello esclusivamente artigianale.
Speriamo così di dare loro l'occasione per diventare esperti e competenti. Ci saranno, poi, 24 borse di tirocinio che, in parte si faranno dentro il carcere come impresa simulata e in parte fuori, attraverso alcune associazioni di categoria del settore della pasticceria finalizzate all'inserimento più rapido nel mondo del lavoro. L'obiettivo è quello di accompagnarli verso un concreto reinserimento sociale che parta proprio dal lavoro come già abbiamo sperimentato a Siracusa. Un altro obiettivo per i detenuti è quello di creare una cooperativa di produzione al linterno finalizzata alla commercializzazione".
"Insieme a mio figlio abbiamo partecipato dentro al carcere a parecchie iniziative come volontari. Questa volta invece si tratta di un progetto diverso che è finanziato e che vuole dare delle opportunità professionali significative ai detenuti, uomini e donne - sottolinea il maestro pasticciere Salvatore Cappello.
Abbiamo già, infatti, iniziato da tre mesi con 8 donne che, ieri durante la presentazione del progetto, ci hanno commosso per la testimonianza poetica che ci hanno voluto dare finora sull'esperienza svolta. Speriamo che sapranno sviluppare in futuro le competenze che in questi mesi acquisiranno. La pasticceria artigianale è una attività molto impegnativa che, proprio perché richiede dedizione e sacrificio, fanno oggi in pochi ma che invece va pienamente valorizzata rispetto ai dolci industriali".
infoaut.org, 14 giugno 2019
Grazie al coraggio di due detenute si torna a parlare delle vergognose condizioni detentive al carcere de L'Aquila. Lo sciopero arriva nel contesto di un tentativo di inasprimento del regime del 41bis. Il 6 giugno scorso il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha ipotizzato un ulteriore restrizione della possibilità di interrompere l'isolamento a cui sono costretti i detenuti sottoposti 41bis. Il dirigente del Dap, in commissione antimafia, ha parlato di "una proposta di modifica normativa nel senso di escludere i garanti locali dal potere di visita e di colloquio con i detenuti al quarantuno bis".
La gravità di tali esternazioni ha prodotto immediatamente polemiche: prima tra tutte è arrivata la reazione dell'Unione delle Camere Penali che ha espresso la sua preoccupazione per una norma che interviene su detenuti a cui sono già "oltremodo contratti i diritti soggettivi e le libertà individuali" (oltre a rivelare la cultura dell'amministrazione penitenziaria che considera evidentemente i garanti un ostacolo al sereno funzionamento del carcere).
Si capirà nei prossimi mesi se questo orientamento troverà ulteriore corrispondenza nell'attività del legislatore, certamente è in continuità con l'atteggiamento mantenuto dallo stato italiano sul 41bis: nonostante le condanne degli organi della giustizia comunitaria e le denunce delle associazioni per i diritti umani, il ricorso a questa forma di tortura non è mai stato messo in discussione, ne tanto meno è stato rivista la natura di tale regime detentivo. Del resto già l'estensione del ricorso alla videoconferenza per le udienze andava nelle direzione di irrigidire l'isolamento dei detenuti, impedendo il contatto "dal vivo" anche durante le scadenze processuali e limitando enormemente la possibilità di difendersi.
Le dichiarazioni del capo del Dap confermano la predisposizione verso una regolamentazione ulteriormente restrittiva e un'applicazione sempre più estensiva della carcerazione speciale. È il caso questo della casa circondariale de L'Aquila. Su circa 180 detenuti, 150 sono confinati nelle 7 sezioni di 41bis. Per gli altri, di fatto, il regime detentivo è molto simile. Per garantire l'isolamento totale di chi è sottoposto al carcere duro si isola anche chi dovrebbe essere in "semplice" regime di alta sorveglianza 2 o chi è un detenuto comune. Le celle sono organizzate per il 41bis e le guardie conoscono solo quel regolamento. Così a tutti quanti è impedito di tenere libri con se e le perquisizioni corporali avvengono più volte al giorno.
Alla violenza della legge e agli arbitri dell'amministrazione penitenziaria si aggiungono l'incuria e la mancanza di manutenzioni. I pochi spazi comuni previsti dall'architettura distopica della casa circondariale sono interdetti alla frequentazione di chi è privato della propria libertà: il campo da calcio è infestato dalle erbacce, il piccolo spazio verde per i colloqui chiuso da più di sei anni.
La tortura dell'isolamento presso che totale viene inasprita dalla pioggia che cade nelle celle e dall'assenza di acqua calda. Dal 29 maggio scorso due detenute della sezione AS2 de l'Aquila, Anna e Silvia, hanno deciso di intraprendere una sciopero della fame per reagire a questa tortura nella tortura che è il carcere speciale, per far sapere fuori l'arbitrio costante a cui sono sottoposte, chiedono l'immediata chiusura di queste sezioni infami. Sono ormai al diciassettesimo giorno di sciopero della fame e la sola risposta arrivata dalla direzione del carcere è il consiglio di smetterla con la protesta mentre per ripicca è stato loro vietato di usufruire della sola ora di socialità fuori dalla cella che era loro concessa.
di Susanna Marietti*
Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2019
"Sono agevolati la frequenza e il compimento degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d'intesa con istituzioni universitarie e con istituti di formazione tecnica superiore", si legge nell'ordinamento penitenziario riformato lo scorso ottobre. L'istruzione è innanzitutto un diritto fondamentale della persona, libera o reclusa che sia. In secondo luogo, è lo strumento principale di emancipazione da qualsiasi percorso criminale. Infine, la legge italiana lo elenca tra gli elementi di quel trattamento rieducativo che dovrebbe portare la persona detenuta a reintegrarsi nella società e a non commettere più reati. Dunque, il nostro ordinamento la considera un elemento di tutela della sicurezza.
Nelle ultime settimane abbiamo ricevuto varie segnalazioni in merito alla chiusura improvvisa e immotivata di corsi scolastici all'interno di carceri della provincia di Cosenza. Abbiamo scritto al Direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale per la Calabria per chiedere smentite, conferme o motivazioni; ma non abbiamo ricevuto risposta. Abbiamo anche scritto al dirigente scolastico dell'istituto toccato dalla prima segnalazione, l'istituto professionale Ipseoa di Paola, ma anche da qui non abbiamo saputo nulla.
Sembra che oggi nelle carceri di Castrovillari, Paola, Rossano e Cosenza siano stati cancellati tutti i corsi di scuola secondaria superiore, se non per qualche classe quinta rimasta senza troppo criterio. Ben 34 classi sarebbero state soppresse. I docenti dell'istituto tecnico industriale Enrico Fermi di Castrovillari, destinatari di trasferimenti forzati, si stanno attivando per ricorsi a titolo personale. Gli studenti detenuti iscritti ai corsi, niente affatto in numero irrisorio, resteranno in cella a oziare sulla branda.
Nel corso del 2018 si sono iscritte a corsi scolastici 20.357 persone detenute, 2mila in più dell'anno precedente. A metà anno, risultava iscritto a qualche livello del percorso scolastico il 34,64% della popolazione carceraria italiana. Una percentuale sempre troppo bassa, se si considera lo scarso tasso di istruzione, e perfino l'analfabetismo, che ritroviamo in carcere. Ma comunque due punti in più rispetto alla medesima percentuale relativa a un anno prima. Cosa sta succedendo a Cosenza? Come associazione che da quasi tre decenni lavora nel campo della promozione dei diritti e delle garanzia in ambito penale e penitenziario, chiediamo che ci venga data almeno una risposta.
*Coordinatrice associazione Antigone
di Angiola Petronio
Corriere di Verona, 14 giugno 2019
La relazione della Garante: "Molti dovrebbero essere in altre strutture". Una Caienna. Dove il sovraffollamento è direttamente proporzionale alla mancanza di personale. Non ha lasciato alibi la relazione fatta ieri in consiglio comunale da Margherita Forestan, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sulla casa circondariale di Montorio. Ci dovrebbero essere 335 posti nelle celle scaligere. "Ad oggi sono oltre 550".
Una caienna. Dove il sovraffollamento è direttamente proporzionale alla mancanza di personale. Dove dovrebbero esserci solo detenuti in attesa di giudizio. E invece è un pullulare di condanne in via definitiva, anche per reati gravi. Dove le persone, sia quelle "costrette" che quelle che ci lavorano, sono il valore che rende sopportabile la vita quotidiana. Non ha lasciato alibi, la relazione fatta ieri in consiglio comunale da Margherita Forestan, garante dei diritti delle persone private della libertà personale sulla casa circondariale di Montorio. Hanno parlato i dati, per quello che i veronesi chiamano "carcere" ma che, tecnicamente, non lo è. Una "sottigliezza", ma che per Montorio è fondamentale.
Ci dovrebbero essere 335 posti disponibili, nelle celle scaligere. Ma dentro ci sono 525 persone: 474 uomini e 51 donne. Vale a dire 190 di troppo, rispetto alla capienza massima. I dati sono riferiti al 2018. "Ad oggi - spiega Margherita Forestan - sono oltre 550". Lei, la "garante", è quella figura che media tra chi è detenuto e l'amministrazione penitenziaria. "Tutte quelle persone in più - racconta - le senti e le vedi soprattutto nella difficoltà di gestire la loro pena. Verona nasce come casa circondariale, ma ormai si è trasformata in una casa penale. Dovrebbero esserci solo detenuti in attesa di giudizio, invece sugli oltre 550 presenti in questi giorni più di trecento hanno condanne definitive. Persone che, ovviamente, vanno condotte e seguite in maniera diversa. E in altre strutture. Invece sono qui.
E garantire loro un percorso diventa difficile quando, come nel cado di Montorio, ti mancano anche i pedagogisti. Su sei previsti ce ne sono 4...". Viene gonfiato, Montorio. Di detenuti. Nonostante l'anemia di personale. "Verona - continua Forestan - ha un'ottima polizia penitenziaria, che cerca di ovviare alle mancanze dell'amministrazione penitenziaria".
Anche qui parlano i dati: sui 380 agenti previsti - e che vengono calcolati sulla massima capienza e non su quella reale - gli effettivi sono 344. Con un problema anche a monte: quello dei magistrati di sorveglianza. "Sono tre e fanno un ottimo lavoro, ma manca il personale di sostegno e le pratiche si accumulano". Eppure a Montorio molte cose funzionano: il lavoro, con oltre un centinaio di detenuti impiegati con le cooperative. Per loro corsi di formazione sartoriale, cura degli animali, saldatori, falegnami. E la scuola. "Se ne fa molta, anche perché sono convinta che la cultura, lo sport, mostrino a queste persone l'altra medaglia della vita".
In 135 uomini e 10 donne l'anno scorso hanno frequentato corsi di alfabetizzazione e di scuola primaria inferiore. Altri 29 sono stati studenti dell'istituto alberghiero Berti. In 23 hanno seguito il corso liceale e in 4 sono iscritti all'università. Poi c'è la struttura. Quella gracile, di una casa circondariale che ha solo 27 anni, ma che si sta piegando al tempo. "Molte aree hanno problemi di infiltrazione d'acqua con cedimento di soffitti e pavimenti e questo nonostante la continua manutenzione che pur in presenza di ridotti finanziamenti la direzione cerca di garantire".
Ha lanciato un j'accuse duro, ieri, la Garante. "La delusione per la mancata approvazione da parte del governo della riforma dell'ordinamento penitenziario. Ci avrebbe aiutati a risolvere il sovraffollamento e non solo...". Ma anche facilitare quella "messa alla prova" che al momento a Verona coinvolge 558 persone. Per loro non si aprono le celle, con l'impegno davanti a un giudice di seguire un percorso di reinserimento. "Nessuno è tornato a delinquere o è entrato in carcere per altri reati - analizza Forestan -. Ampliare questa misura con quella riforma sarebbe stato fondamentale". E forse Montorio tornerebbe ad essere più vivibile. Non solo per i detenuti.
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