castellinotizie.it, 17 maggio 2020
Nel sovraffollato carcere di Velletri a partire da martedì 19 maggio saranno ripristinati dopo oltre 2 mesi i colloqui coi detenuti, costretti a farne a meno dopo l'avvio delle misure di contenimento contro il Coronavirus. A causa del distanziamento sanitario il numero dei colloqui prenotabili mensilmente dipenderà dal numero di richieste e dalla disponibilità dei posti nelle sale.
"Il totale dei colloqui tra Skype ed "in presenza" - fanno sapere dalla Direzione della Casa Circondariale veliterna - non potrà superare il tetto massimo previsto. È obbligatorio entrare con la mascherina e sottoporsi al triage con l'acquisizione della dichiarazione e la rilevazione corporea che non deve superare i 37.5°.
Proprio per far fronte all'imminenza della riapertura dei colloqui, sono stati disposti i tamponi per tutti i detenuti. Sin da oggi, sabato 16 maggio, e nelle giornate di domenica e lunedì 18 maggio, si procederà, pertanto al ritiro giornaliero di 200 tamponi, per un totale di 600. Resta da capire, però, cosa dovesse accadere qualora qualcuno risultasse positivo, tanto più che i referti ritirati nella giornata di lunedì difficilmente potranno essere disponibili già all'indomani.
Tornando alle visite nel Carcere dislocato in via Campoleone 97, la prenotazione è obbligatoria, dalle ore 10 alle 12.30, al numero 334.1523951. Il Carcere di massima sicurezza di Velletri è stato aperto nel 1991 e si compone di 2 padiglioni di 4 piani, di cui uno costruito successivamente ed aperto nel 2012, più un reparto semilibertà. Nel vecchio padiglione le stanze ospitano un massimo di 2 detenuti, mentre il padiglione nuovo ha stanze che ospitano al massimo 4 detenuti.
Da anni, tuttavia, si palesa il cronico problema del sovraffollamento di detenuti, cui fa da contraltare la carenza di personale nell'organico della Polizia Penitenziaria; una "miscela" che talvolta si è rivelata esplosiva, causando non pochi problemi, facendo venire meno la sicurezza per gli agenti ma anche la vivibilità per i detenuti.
di Luigi Nicolosi
stylo24.it, 17 maggio 2020
Detenuti in agitazione dopo la recente decisione del ministro della Giustizia: ma gli incontri con i vetri divisori non convincono la popolazione carceraria. Fase 2 subito ad alta tensione per la popolazione carceraria. A non convincere sono soprattutto le modalità con cui, a parte da lunedì 18 maggio, saranno progressivamente ripristinati i colloqui visivi tra i detenuti e i familiari.
Nel pieno dalla pandemia si è fatto ampio ricorso, sotto la supervisione degli agenti penitenziari, all'uso di cellulari e videochiamate skype per mantenere i contatti, ma da qui a breve la situazione dovrebbe rientrare nella piena normalità. Nelle more, però, saranno adottati dei dispositivi di sicurezza e distanziamento sociale che stanno già suscitando più di qualche malumore.
Le conseguenze non si sono fatte attendere e stamattina nella casa di reclusione di Secondigliano i detenuti di alcuni reparti hanno organizzato la classica battitura. La protesta è andata avanti per circa 15 minuti e si è svolta pacificamente e senza alcun tipo di disordine. I motivi della manifestazione spontanea non sono al momento ancora del tutto noti, ma stando ad alcune accreditate indiscrezioni raccolte da "Stylo24" i detenuti di Secondigliano avrebbero maldigerito le recenti disposizioni del Guardasigilli in materia di colloqui visivi.
Nei prossimi giorni, infatti, saranno predisposti dei vetri divisori affinché gli incontri tra i detenuti e i parenti avvengano nel rispetto del distanziamento sociale, evitando così contatti fisici e soprattutto eventuali contagi da Coronavirus. Una restrizione temporanea, ma che subito innescato dei malumori. La battitura è così partita nella tarda mattinata di oggi ed è andata avanti per circa quindici minuti. La protesta si è comunque conclusa senza ulteriori tensioni o scontri all'interno del carcere.
di Ciro Cuozzo e Rossella Grasso
Il Riformista, 17 maggio 2020
Tra le vittime che si porta dietro la pandemia non ci sono solo morti e malati ma anche i "nuovi poveri". Persone che l'impossibilità a lavorare per la quarantena e la chiusura delle attività hanno iniziato ad avere serissime difficoltà a mettere il piatto a tavola. Purtroppo di persone che già dormivano in strada ce ne erano già prima della pandemia ma con il lockdown queste sono aumentate. Ad aiutarle ci pensano i volontari della Comunità di S. Egidio, che ultimamente hanno anche intensificato le attività. E raccontano da un lato una parte di Napoli abbandonata a sé stessa, dall'altra quella che risponde all'emergenza con la solidarietà.
"Se da una parte sono aumentate le difficoltà in quest'ultimo periodo - dice Massimiliano Nappi, della Comunità di S. Egidio e Fondazione Grimaldi - dall'altra è aumentata anche la voglia di dare una mano e offrire il proprio aiuto a chi più ne ha bisogno. Abbiamo sempre fatto gruppi per la consegna dei pasti ai senza tetto il mercoledì ma se prima eravamo in 10 adesso ne siamo in 20 ed è molto bello".
Eccezionalmente in questo periodo di necessità la distribuzione avviene 2 volte alla settimana, il mercoledì sera e la domenica a pranzo. "Ci eravamo accorti che la domenica c'era un vuoto e abbiamo deciso di intervenire in aggiunta a quello che facciamo di solito", spiega Francesca, 29 anni, psicologa, da 10 anni con la Comunità di S. Egidio, che di solito si occupa del gruppo degli adolescenti del centro storico con cui fanno volontariato con le persone anziane. Il gruppo è organizzatissimo: prima si passa casa per casa a raccogliere il cibo preparato da persone che si offrono volontarie, poi si divide il tutto in buste.
"Di solito la consegna del pasto è un pretesto per stare vicino a chi vive in strada e offrirgli anche un supporto umano, una chiacchiera, un conforto - continua Francesca - adesso non possiamo trattenerci troppo in strada con loro ma loro sono sollevati nel vederci". A partecipare alla distribuzione ci sono studenti universitari, tra cui anche Vincent, uno studente Erasmus venuto a Napoli dalla Germania, comunicatori, e manager che, costretti a casa dalla quarantena hanno deciso di rendersi utili.
Dopo aver velocemente diviso il cibo i volontari si dividono in vari gruppi per coprire il territorio cittadino: una parte Morelli, Feltrinelli, Mergellina e piazza Sannazaro, un altro gruppo via Medina, Molosiglio e il Porto, infine un altro gruppo ancora porterà il cibo nella zona di Piazzale Tecchio e del Mercato ittico. È questo uno dei luoghi più emblematici della città, a ridosso del parco della Marinella, simbolo di degrado e inerzia delle istituzioni che fanno e non-fanno, curano e abbandonano a fasi alterne.
Qui circa 40 persone vivono ammassate all'esterno dell'ex mercato Ittico. Sono per lo più migranti, uomini e donne, che hanno toccato il fondo e non riescono più a risalire. Tra loro ci sono anche donne polacche che sono state per una vita al servizio di anziani, giorno e notte, e poi sono rimaste senza lavoro, senza nulla, costrette a dormire in strada.
"Molti sono quelli che incontriamo ai semafori a chiedere l'elemosina o a pulire i vetri - racconta Alessandro Brancaccio della Comunità di S. Egidio - Quello che qui ci chiedono molto è sicuramente il cibo poi vestiti e a volte anche di fare una telefonata i loro parenti. Qualcuno ci chiede di trovargli un lavoro, qualcun altro di trovare una soluzione". La situazione è ancora peggiore se si pensa che questo "non-luogo" abbandonato, alle soglie della città è lontano dagli occhi e dal cuore di tutti.
La distribuzione continua a Piazzale Tecchio. Tra una chiacchiera e l'altra i volontari danno supporto ai senza tetto che vivono tra il piazzale e i binari della metropolitana. Tra loro si trovano persone di tutti i tipi e storie di ogni genere. C'è che è laureato, che è scappato dal proprio paese, chi semplicemente si è divorziato e non ce l'ha fatta con i soldi a mantenere due vite in piedi dignitosamente. E la pandemia è stata la mazzata finale.
Le attività per i senza tetto della Comunità di S. Egidio continuano nel centro storico di Napoli con il supporto della Fondazione Grimaldi. Durante l'emergenza sono state chiuse le docce a San Giovanni a Teduccio per evitare gli assembramenti. Così i giovani volontari hanno subito attrezzato un altro punto docce a Montesanto, presso l'ex istituto Bianchi.
"Qui diamo ai senza fissa dimora la possibilità di lavarsi e trovare un cambio di vestiti puliti - racconta Alessandro Corazzelli, 23 anni, studente di architettura, da 10 anni al servizio della Comunità - Sono tante le persone che hanno bisogno di aiuto e che stiamo intercettando, aumentano sempre di più. Pensiamo che solo insieme possiamo cambiare le cose".
La Comunità ha saputo riorganizzarsi per sopperire alle nuove difficoltà, come ha fatto ad esempio Francesco Sarubbi, 22 anni, studente di ingegneria alla Federico II. Fino a poco tempo fa dava supporto ai bambini dei Quartieri Spagnoli con attività di doposcuola e ludiche. Oggi alle famiglie di quegli stessi bambini consegna pacchi alimentari e offre supporto di ogni tipo.
"All'inizio erano le 30 famiglie dei bambini che già conosciamo - racconta Francesco - Poi sono quasi raddoppiate perché si sa nei Quartieri c'è tanta solidarietà: ognuno ha una vicina o una cugina che ha bisogno. Dopo il primo mese siamo arrivati a consegnare pacchi alimentari a 100 nuclei familiari. Penso che sia importante aiutare perché ci aiuta davvero a capire chi siamo e cosa vogliamo dalla vita. Se non si aiutano gli altri non si riuscirà mai a essere felici. Da quando ho giocato per la prima volta con i bambini dei bassi mi sono sentito così felice e realizzato e ho capito che non li avrei più lasciati".
ciociariaoggi.it, 17 maggio 2020
Il materiale raccolto è stato consegnato alla Caritas di Frosinone che provvederà alla distribuzione a chi ha più bisogno attraverso la sua rete di assistenza. La solidarietà oltrepassa anche i muri del carcere. Questo il forte messaggio che arriva dalla casa circondariale di Frosinone. Gli agenti di polizia penitenziaria dell'istituto hanno organizzato una colletta alimentare per l'acquisto di beni di prima necessità per le famiglie indigenti del territorio. Anche i detenuti non hanno voluto far mancare il loro sostegno, contribuendo all'iniziativa benefica. Nei giorni scorsi è avvenuta la consegna dei beni raccolti, consegnati ai volontari della Caritas della Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino che provvederanno alla distribuzione.
L'ente pastorale della Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino, attivo in questi mesi nel sostegno delle famiglie in condizioni di necessità, è stato infatti individuato per distribuire i beni donati attraverso la sua rete di centri di ascolto parrocchiali, diffusi su tutto il territorio diocesano. La consegna è avvenuta alla presenza della Direttrice della Casa Circondariale, Teresa Mascolo, del comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Elio Rocco Mare, del cappellano don Guido Mangiapelo e del Direttore della Caritas Marco Toti.
Le parole di Teresa Mascolo - "La Casa Circondariale di Frosinone ha dato voce - attraverso un gesto di solidarietà da parte degli operatori e da parte dei detenuti - ad un messaggio di vicinanza alle persone che, ancor più in questo periodo di emergenza, soffrono un disagio sociale. Il carcere viene alla ribalta spesso per episodi negativi: questa stessa Casa Circondariale è balzata alle cronache per la rivolta dell'8 marzo u.s.; ma dal carcere possono venire fuori anche iniziative positive: la raccolta e la donazione di beni di prima necessità è testimonianza di generosità e solidarietà alla comunità esterna. Ed io ne sono particolarmente contenta e fiera. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito e grazie alla Caritas che ci ha permesso di esprimere valori importanti di aiuto, altruismo e fratellanza".
Le parole di Marco Toti - "Come Caritas diocesana di Frosinone-Veroli-Ferentino ringraziamo la Direttrice della Casa Circondariale, gli agenti e la popolazione ospitata per averci affidato l'importante compito di distribuire la loro donazione. In questi mesi di emergenza non abbiamo fatto mancare il nostro sostegno a chi era in difficoltà, e grazie alla rete diocesana siamo riusciti a distribuire a centinaia di famiglie beni di prima necessità. La donazione è particolarmente significativa perché arriva anche dai detenuti. È un ulteriore tassello di quello che il nostro Vescovo mons. Spreafico chiama "contagio positivo del bene" che ci fa sentire tutti uniti".
L'Eco di Bergamo, 17 maggio 2020
Il ministro della Giustizia Bonafede in un documento del Ministero si è detto favorevole all'intitolazione del carcere di Bergamo a don Fausto Resmini, morto a causa del covid tra il 22 e il 23 marzo scorsi. Accolta la richiesta dei parlamentari bergamaschi Carnevali e Martina. Bonafede accoglie la proposta di intitolare il carcere bergamasco a don Fausto Resmini, storico cappellano della casa circondariale e sacerdote che ha dedicato la sua vita agli ultimi.
Don Fausto è deceduto dopo aver contratto il covid il 23 marzo scorso e la sua scomparsa aveva destato grandissima commozione in tutta la nostra comunità. I deputati bergamaschi Maurizio Martina e Elena Carnevali avevano sottoposto al ministro un'istanza, appoggiata anche dalla direttrice del carcere di via Gleno Teresa Mazzotta, proprio perché gli venisse intitolata la casa circondariale. Una proposta accolta di buon grado dal ministro che proprio sabato 16 maggio ha risposto con una lettera che annuncia anche una prossima visita in città.
Ecco le parole del ministro. "Don Fausto Resmini era più che un semplice cappellano, era un punto di riferimento per l'intera comunità di Bergamo e per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo sulla propria strada. Una guida morale, un padre spirituale, un uomo sempre pronto all'ascolto e al dialogo.
Per oltre un trentennio cappellano dell'istituto della città, Don Fausto ci ha lasciati nella notte tra il 22 e il 23 marzo all'età di 67 anni, dopo essere risultato positivo al Covid-19. Padre Resmini era diventato un elemento portante della vita all'interno della struttura di Bergamo, tanto che alla sua morte i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria lo hanno voluto ricordare e ringraziare con parole che arrivano dritte al cuore.
In particolare, in una lettera gli uomini e le donne in servizio a Bergamo hanno scritto: "Caro Don Fausto, per gli anni che hai dedicato a questo istituto penitenziario, per noi sei sempre stato un punto di riferimento: nel quotidiano, nell'emergenza, nei momenti di lutto e di buio, nei momenti di festa e di gioia.
Con queste poche righe vogliamo salutarti stringendoti nei nostri cuori, con la consapevolezza che da lassù saprai guidare i nostri passi e continuerai a pregare per noi e le nostre famiglie. Non appena la situazione sanitaria lo permetterà voglio visitare personalmente Bergamo e l'istituto che sarà intitolato a don Fausto, per esprimere vicinanza agli agenti e a tutti gli operatori. Mi piace pensare che questo, seppur semplice, atto sia un modo per far continuare a vivere l'esempio di don Fausto".
di Giovanni Iacomini*
Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2020
Al via la scuola on-line nella Terza Casa Circondariale di Rebibbia. Si tratta di un settore particolarmente dinamico del complesso penitenziario romano. Vi sono recluse persone con trascorsi di tossicodipendenze, con limiti di età e di residuo pena. È stato uno dei primi istituti a sperimentare la "custodia attenuata", con i detenuti che mangiano tutti insieme in un'apposita sala e possono godere di un'ampia offerta di attività culturali: cineforum, corsi di teatro, poesia, serigrafia, mosaico, rivista, varie discipline sportive.
Ma il percorso di reinserimento sociale, che qui funziona molto più che altrove con un tasso di recidiva relativamente basso, passa soprattutto per i due capisaldi della funzione rieducativa della pena: lavoro, con importanti opportunità occupazionali dentro e fuori dal carcere, e istruzione, con i corsi del nostro istituto scolastico J. von Neumann e l'attività di volontariato dei tutor a sostegno degli studenti iscritti all'università Sapienza di Roma.
Com'è noto, l'emergenza del coronavirus che ha colpito tutti noi ha avuto risvolti drammatici all'interno dei penitenziari. Una volta di più, il carcere si è rivelato l'estremità più esposta della nostra società, dove le ripercussioni di vicende e congiunture si avvertono con la massima intensità. La preoccupazione dei contagi in ambienti che, per usare un eufemismo, definiamo promiscui ha portato alla rapida, progressiva chiusura di tutte le relazioni con l'esterno, dal volontariato fino alle attività scolastiche.
Com'era facilmente prevedibile, la chiusura dei colloqui con i familiari - cui i detenuti tengono enormemente, oltre ogni misura che da fuori si possa immaginare - non poteva che essere la goccia che ha fatto traboccare il vaso della sopportazione, purtroppo sfociata nei notori episodi di ribellione e violenza con tragici epiloghi, anche fomentati da soggetti esterni. Comunque, anche nell'attuale complicatissima contingenza, il regime particolare e le attenzioni cui sono sottoposti i detenuti della Terza Casa ha contribuito a evitare che la situazione, di per sé ovunque esplosiva, trascendesse. Si è partiti da subito a mettere in atto misure decongestionanti e attrezzarsi per assicurare un minimo possibile di comunicazioni: utilizzando diverse piattaforme digitali, i detenuti hanno potuto rivedere e parlare con genitori, mogli, figli, in questa fase così difficile.
Nel contempo, sia il mondo dell'istruzione che l'amministrazione della giustizia cercavano di attrezzarsi per la ripresa dell'attività didattica, che tanto ha dimostrato di poter contribuire al trattamento e rieducazione dei condannati. Assicurare il diritto allo studio a tutti, a prescindere dall'età e dalle condizioni, si riconferma come modo estremamente efficace per offrire concrete opportunità di revisione critica del proprio vissuto e fornire prospettive alternative ai percorsi devianti. Da qualche anno, a partire da un'attività di volontariato di alcuni di noi docenti, la nostra scuola ha avviato un vero e proprio corso di Istituto tecnico economico all'interno della Terza Casa. Quest'anno avevamo un secondo periodo didattico e una classe terminale, con ragazzi che devono sostenere gli esami di Stato per ottenere il diploma nel prossimo giugno.
Dopo la chiusura per il Covid-19, in perfetta intesa con la Direzione e l'Area educativa, ci siamo adoperati per far recapitare dispense su cui gli studenti potessero proseguire la propria preparazione. Nel frattempo, mettendo in sinergia le poche risorse tecniche e informatiche a disposizione, abbiamo cercato di superare tutte le immaginabili difficoltà anche giuridiche per predisporre la connessione ed effettuare vere e proprie lezioni da remoto, per meglio soddisfare il bisogno espresso dai detenuti studenti di potersi confrontare con i docenti, per ottenere spiegazioni e delucidazioni. Finalmente, la buona notizia è che si può cominciare: la scuola si adegua, si trasforma ma la trasmissione, la condivisione e l'apprendimento di conoscenze e competenze conserva intatto tutto il suo valore.
*Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia
di Rita Rapisardi
L'Espresso, 17 maggio 2020
L'emergenza sanitaria e i controlli sugli spostamenti hanno cambiato il mercato. Rendendolo più pericoloso. Tra punti di assistenza chiusi, "roba" tagliata male, crisi di astinenza e overdose. "Non sono un corpo maledetto, non certo martire senza difetto, ma scrivo per l'amore e per l'odio che porto dentro".
Le pareti della "camera" sono ricoperte di poesie in rima, ricordano dei testi rap, leggendoli si immagina un ritmo che le accompagni. Nei 20 metri quadri di quella che è l'unica stanza del consumo in Italia si respira un'aria strana, altalena tra un senso di prigione e libertà.
Siamo al drop in PuntoFermo di Collegno, a ovest di Torino. Qui dal 2007 i tossicomani trovano un rifugio per bucarsi in sicurezza, in uno spazio pulito, autogestito insieme agli operatori, pronti a intervenire in caso di overdose. Sia la polizia sia la cittadinanza hanno imparato a convivere con questa realtà. La struttura era la camera mortuaria dell'ex manicomio di Collegno, smantellato negli anni 90. Anche con l'emergenza, è rimasta aperta 24 ore al giorno.
"Una volta nella stanza ho salvato un ragazzo dall'overdose: per lavoro ho seguito un corso di pronto soccorso. Da dieci anni ho a che fare con l'eroina e da dieci anni vengo qui", racconta Toni 45 anni. L'ultimo lavoro che ha avuto risale a due anni fa, guardia giurata. Con forte accento pugliese, ma nato in Piemonte, si sente "meridionale al 100 per cento". Ha iniziato a 19 anni con Lsd, "è stata la mia rovina", ha smesso da solo dopo tre anni ed è passato al bere, "una bottiglia di scotch mi durava un giorno e mezzo, ora sono pulito dal 2003", poi l'ecstasy, ora l'eroina "riesco a controllarla, mi faccio al massimo quattro volte a settimana".
"Le risorse sono quelle che sono. Alla finestra distribuiamo materiale sterile", racconta Volfango Maria Coppola, di PuntoFermo. Da 15 persone al giorno però si è scesi a cinque. "A chi segue una terapia medica il SerD fornisce l'autocertificazione per venire qui, ma sappiamo che molti li abbiamo persi".
Il caso di Torino ha permesso a chi è dipendente da stupefacenti di non impazzire durante la quarantena, ma nel resto d'Italia il mercato della droga ha dovuto cercare canali più nascosti, lontano dalle strade e dalle piazze. Sono spuntate pagine su Instagram per la vendita, ma è stato il dark web la fonte principale; i pusher poi, muniti di guanti e mascherine, hanno iniziato a fare delivery a casa o si sono trovati nelle stazioni della metro.
"La consegna a domicilio la fanno solo dai 50 euro in su, sennò non vedi niente, e la mia spesa è triplicata", dice Sofia, 22 anni, della provincia di Roma, riferendosi alla cannabis: "Il mercato delle droghe pesanti ha risposto subito, meno quello del fumo: in giro sono rimasti pochi pusher, quelli meno affidabili".
In Italia otto milioni di persone consumano droga, per una spesa di 15 miliardi di euro l'anno, metà dei quali finiscono in cocaina. E 800 mila hanno provato l'eroina almeno una volta. Ci sono voci contrastanti su quello che sta girando adesso, alcune dicono che le sostanze costano di più, soprattutto marijuana e hashish. Un aumento dovuto al maggiore rischio di spacciare con i controlli diffusi. Si dice che la qualità sia peggiorata. È possibile poi che la gente si improvvisi e usi tagli strani: la variazione del mercato è sempre pericolosa per chi consuma, i periodi più a rischio sono infatti le feste o l'estate, quando ci sono meno spacciatori.
Solo in Piemonte è possibile fare il drug checking, il controllo della sostanza. Nella "casetta" avviene anche prima dell'utilizzo attraverso le reazioni colorimetriche: a maneggiare la droga è chi l'assume, indirizzato dall'operatore. Grazie a una tabella dettagliata con colori e sostanze, si stabilisce cosa c'è dentro e le combinazioni possibili.
Si trova di tutto: vitamina C, paracetamolo, caffeina, ma anche agenti pericolosi come il Levamisolo, uno sverminatore veterinario che "tira su la coca stanca": in pratica l'effetto della sostanza diventa più immediato e dà la percezione che sia di buona qualità, invece il Levamisolo è molto tossico e a chi se lo inietta compaiono enormi bubboni.
"Mi è capitato più volte di dover dire di non farsi tutta la dose in una volta o di dividerla in quattro per evitare il rischio overdose", spiega Coppola. Con la Fase 2 infatti si fa avanti anche questo rischio: dopo un periodo di astinenza o di basso dosaggio dovuto alla quarantena, non si può tornare ai livelli di prima come se nulla fosse: il corpo rischia di cedere.
A Roma in dieci giorni si sono verificate sette casi di overdose. "Dal 1992 a oggi ho salvato quasi 600 persone, per questo facciamo molta campagna a riguardo", dice Giancarlo Rodoquino, 63 anni, che opera con l'unità mobile di Villa Maraini nella più grande piazza di spaccio a Roma: Tor Bella Monaca.
"Qui si va avanti 24 ore su 24. Molti smontano dal lavoro e si vengano a farsi in pausa pranzo. Non sono tossicomani da strada, una casa ce l'hanno. Vediamo anche 70 persone al giorno, ma non sono mai le stesse". I primi giorni c'erano controlli a tappeto, sempre verso le tre del pomeriggio, ma i consumatori venivano prima. "Ci vuole una politica umanitaria sulle droghe", incalza Massimo Barra, direttore Villa Maraini. Le associazioni lamentano la mancanza di mascherine da distribuire e l'assenza di tamponi ai senza fissa dimora.
Il camper distribuisce ogni giorno 300 siringhe solo a Tor Bella Monaca. La situazione non è facile da prima del coronavirus, c'è tutta una vita sommersa che comprende la droga, ma anche la mancanza di lavoro: "A Napoli hanno buttato giù le Vele per risolvere il problema, per loro è stata quella la soluzione", conclude Rodoquino. "Molti a Scampia prima della quarantena vivevano di espedienti, facevano i parcheggiatori, qualche lavoretto, ora c'è un peggioramento complessivo, che con la chiusura dei centri diurni può solo aggravarsi", spiega Stefano Vecchio responsabile degli 11 SerD di Napoli, con a carico 4.500 persone.
Alla città manca un piano per i senza fissa dimora, a fronte di un aumento di richieste per i servizi essenziali prima garantiti: "Abbiamo registrato un aumento dell'uso di alcool e sedativi legali come le benzodiazepine, che possono avere un effetto molto pericoloso se mischiate con l'eroina: neanche l'iniezione di Narcan basta in caso di overdose".
Tra chi fa uso di droghe ci sono anche molti migranti, per strada a causa della soppressione delle strutture di accoglienza. Qui l'unità continua con il suo lavoro, conquistato non con poche difficoltà, in un quartiere dove la camorra è padrona e si sono dovuti fare accordi per farsi accettare.
Con la chiusura dei drop in (104 in Italia, concentrati al Nord), sono scomparsi alcuni servizi per i tossicomani, ma anche per i senza fissa dimora o immigrati: come la possibilità di farsi una doccia, ricevere un pasto a pranzo o avere un posto dove trascorrere la giornata.
"Se prima si poteva vivere con lo "scollettamento" - piccole elemosine per raggiungere una somma per comprare la dose - o con piccoli lavoretti, tutto questo è scomparso", spiega Lorenzo Camoletto del drop in del gruppo Abele, il primo ad aprire a Torino nel 1997.
"Noi raccogliamo i più problematici, perché chi non lo è non passa da qui. Sono i primi a non farcela, spesso vivono in strada e molti di loro, prima di essere tossicomani, hanno problemi con la legge o disturbi psichici", spiega Luigi Arcieri, del drop in di Torino, che a oggi mantiene i passaggi costanti a 70.
Anche il CanGo, l'unità mobile, è bloccato perché non dispone di lavandino. Sostava tutti i giorni in una delle piazze principali della città, quella di porta Palazzo, che ospita il mercato all'aperto più grande d'Europa. Distribuiva materiale sterile e un kit di sopravvivenza (siringhe, tamponi, disinfettanti, fiale d'acqua, lamine di alluminio per fumare) che comprende anche il Narcan (o naloxone), il medicinale da prendere in caso di overdose. Negli anni unità come questa hanno determinato il progressivo ridursi delle scene di consumo.
Con l'emergenza i SerT sono stati dichiarati servizi essenziali e hanno continuato a lavorare garantendo la terapia a base di metadone e aumentando la copertura fino a una settimana, con il rischio però che il farmaco sia consumato tutto insieme o si venda al mercato grigio. Ma non in tutta Italia è così, molti centri sono chiusi e i servizi di riduzione del danno limitati, come denuncia ItaNPUD, un'associazione di consumatori di droghe. Al momento sono fermi i colloqui psicologici, le attività in gruppo delle comunità e molti SerD non accettano più nuove persone.
Per questo chi non riesce a soddisfare la propria dipendenza ripiega su altre sostanze, soprattutto alcool e farmaci. "Ci sono tante persone scoperte, soprattutto al Sud che sono ricadute", spiega Anna, ex alcolisti e narcotici anonimi, che ora organizza gruppi di sostegno online: "Prima ci sentivamo una volta a settimana, ora anche tre al giorno".
La ItaNPUD ha prodotto, tradotto e distribuito un vademecum per il consumo sicuro durante il coronavirus, con consigli su cosa fare in caso di astinenza e le norme igieniche da seguire, come disinfettare con l'alcol le "palline" trasportate in bocca dai pusher. "Ci sono consumatori che hanno uno stipendio e fanno una vita "normale", una condizione protetta che gli permette di fare grandi scorte. Altri sono senza fissa dimora e rischiano una maggiore repressione da parte della polizia", racconta Alessio Guidotti, presidente della ItaNPUD.
La polizia ha ormai praticamente annullato i controlli sui senzatetto. Ma non sempre c'è stata comprensione. Al dormitorio di Rivoli, un paese vicino Torino, aperto dalle otto di sera fino alle otto del mattino, le forze dell'ordine ordinavano ai tossici di andare a casa: "Ma io non ce l'ho una casa", racconta un ragazzo, "devo spostarmi, prendere la terapia, pensare a come fare per il pranzo. Pretendevano che non mi allontanassi più di 200 metri". E si sono registrate anche alcune denunce per chi era in giro alla ricerca di droghe: "Anche problema di non trovare sostanze non è stato considerato, i servizi non hanno risposto in tempo, anzi hanno contratto i loro orari", spiega Maria Teresa Ninni, operatrice al drop di Torino. La polizia infatti non si è data un codice a livello nazionale: "I primi giorni temevamo ci fosse una strage, è stato traumatico per loro, come per noi operatori, evitare il contatto fisico o non poter più fermarsi a fare due chiacchiere, poi hanno recepito le norme da rispettare", aggiunge Arcieri. Almeno metà dei consumatori del drop in di Torino sono infatti sieropositivi e quindi immunodepressi.
In zona Milano Rogoredo i prezzi restano invariati: 20 euro la dose di eroina, 30 quelle di cocaina. Fino a settembre qui il via vai giornaliero era alto, sopra le 150 persone. Ma dopo lo smantellamento della rete dello spaccio c'è stato un drastico calo. Il giro però non si ferma: "Dopo il famoso boschetto è esploso in pochi mesi il parco delle Groane: prima della quarantena siamo arrivati ad avere 90 contatti al giorno", racconta Rita Gallizzi dell'associazione Lotta contro l'emarginazione. Ora i treni che li portavano lì sono stati sospesi e così cresce di nuovo Rogoredo, ma senza più un drop in di riferimento, chiuso anche per mancanza di fondi. "Notiamo un forte aumento dell'incuria, anche persone denutrite". E tra loro ci sono molte donne, le più esposte: "Sono in numero sempre maggiore, molto più massacrate nel fisico rispetto agli uomini, ma sono quelle che si fidano di meno e alcune si prostituiscono".
di Myrta Merlino
Corriere della Sera, 17 maggio 2020
In mezzo a tanto odio social abbiamo perso un'occasione per dimostrare che siamo cambiati in meglio dopo il Covid. In principio erano storie di quarantena, belle e brutte, commoventi e drammatiche. Da un lato la vita quotidiana al tempo del virus, dall'altro la richiesta incessante e imponente di chiarimenti sanitari. Erano mail disorientate, sbalordite, spaventate che affollavano e affollano la casella di posta "Dilloamyrta".
Poi sono arrivate le richieste, incessanti e imponenti, di chiarimenti legali: dalla corsetta sotto casa fino alla grande confusione sugli "affetti stabili". Di nuovo mail disorientate, incredule ma soprattutto arrabbiate.
Da qualche settimana sono invece sommersa da richieste d'aiuto, grida d'allarme: sono tutti quelli che non hanno visto un soldo e che sono sul lastrico. Poco importa se si tratta di cassa integrazione sparita nei meandri burocratici, dei 600 euro che si trasformano in pochi spiccioli, o di buoni spesa "erogati" ma non "distribuiti" (Dio solo sa cosa voglia dire...). Mail molto ma molto incazzate, scusate ma non trovo termine migliore.
Eppoi, da qualche giorno, la grande sorpresa: cominciano ad arrivare mail diverse da tutte le altre, con un oggetto nuovo: "Silvia Romano". "Ma perché abbiamo pagato un riscatto di 4 milioni di euro per liberarla e io intanto aspetto la cassa integrazione dal 20 febbraio?". E ancora "è tornata bella sorridente, forse incinta, tutt'altro che sofferente. Perché sprecare tutti quei soldi...". E poi sul governo. "Mi sono indignato vedendo in tv i nostri governanti accoglierla con tutti gli onori, come un'eroina. Vestita così non è più un'italiana vera".
Centinaia di mail, nel grande imbuto della nostra casella di posta, con tutta la gamma dei sentimenti: il disorientamento per quel vestito che ci ha spiazzati, in qualche caso la solidarietà per una ragazza vittima di un rapimento, la critica verso il governo e - con mio sommo dispiacere - la cattiveria, la feroce cattiveria nei confronti di Silvia. Tanti i sospetti e tante le allusioni, un ingorgo di umori rabbiosi che si snoda tra dubbi legittimi - "Ma secondo lei è giusto che una ragazza così giovane e inesperta vada in una zona così pericolosa?" - e accuse inaccettabili: "Cara Myrta non continuare a dire che il vestito verde è delle donne islamiche, è il vestito di Al Shaabab e Silvia è una fiancheggiatrice dei terroristi!". E ancora: "venduta", "schifosa musulmana", "si è pure sposata un terrorista", "ci metto la mano sul fuoco che avrà avuto rapporti sessuali là". E, come troppo spesso capita alle donne, basta un attimo per trasformarsi da vittime in colpevoli. E ancora una volta riecheggia quel "Se l'è andata a cercare...". Accuse schifose.
Su tutta questa vicenda, lo dico con chiarezza, ci sono molti punti interrogativi e molte zone d'ombra. Ma ci sono anche un paio di certezze: dopo 536 giorni in mano ai rapitori in troppi non hanno atteso neanche 5 giorni per sputare sentenze su Silvia. Non buttiamola nel tritacarne dei pregiudizi e delle lotte politiche. Io ho ancora negli occhi l'abbraccio di Silvia con sua madre.
In quella scena non ho visto una musulmana e una cattolica (tra l'altro non so se sua madre è cattolica e non me ne importa niente), non ho visto una camicia blu e una tunica verde, non ho visto la violazione delle regole di distanziamento senza mascherina, non ho visto lo scontro tra civiltà e barbarie che qualcuno oscenamente vuole rappresentare.
In quell'abbraccio ho visto solo Amore. Una Madre e una Figlia. Ho visto il ritorno a casa, il sollievo, il miracolo di avercela fatta, la consolazione di una salvezza non scontata. E in mezzo a tanto odio social passo lunghi minuti a incantarmi sui fotomontaggi che su Facebook accostano il sorriso di Silvia nel giorno della laurea a quello del giorno della liberazione. Gli occhi di ragazza, senza abito e senza trucco, sono gli stessi.
La luce di allora rimane. Datemi tempo, ha detto Silvia. Fate silenzio, hanno ripetuto parenti e amici. Due richieste sulle quali dovremmo metterci sull'attenti. Sospendendo il giudizio e accendendo l'ascolto. Fermandoci per adesso a far brillare gli occhi di ragazza che hanno resistito a tutto questo. Silvia è Aisha, è viva (è questo il significato della parola in arabo). Per oltre 500 giorni abbiamo chiesto solo questo. E ancora oggi è davvero solo questo che conta.
E conta cosa questa vicenda ci dice di noi. Di questo Paese che a volte ci appare trasparente e luminoso e altre ci mostra il suo fondo limaccioso. Abbiamo perso un'occasione per dimostrare che eravamo cambiati in meglio, dopo il Covid. Se va bene, si fa per dire, siamo gli stessi, gli stessi di sempre...
Il Mattino, 17 maggio 2020
La Comunità di Sant'Egidio di Napoli ha voluto destinare 1.000 colombe ricevute dal pasticciere Sal Di Riso ai detenuti della Casa Circondariale "Giuseppe Salvia - Poggioreale". Un gesto di vicinanza e di attenzione ai detenuti che stanno vivendo giorni difficili, lontani dalle famiglie, per l'interruzione dei colloqui resi necessari per preservarli dal rischio del contagio da Covid-19. Oggi a Poggioreale sono reclusi circa 1790 carcerati e fino ad oggi non si è registrato nessun caso di coronavirus. Il pasticciere della costiera amalfitana, già a Natale, in occasione dei pranzi organizzati dalla Comunità di Sant'Egidio, aveva voluto regalare le sue prelibatezze agli ospiti di diversi istituti di pena della Campania.
Le altre 500 colombe sono state distribuite ai senza fissa dimora durante le cene itineranti che in questi mesi di isolamento sociale sono continuate per non lasciare da solo chi vive per strada, e alle tante famiglie in difficoltà che hanno chiesto aiuto, e a cui la Comunità di Sant'Egidio continua a fornire un sostegno alimentare. La solidarietà è la risposta che incoraggia e restituisce umanità e speranza a chi non riesce a intravedere un futuro davanti a sé.
di Roberto Saviano
L'Espresso, 17 maggio 2020
Nessun guadagno per i trafficanti. Meno danni alla salute. Incassi fiscali per lo Stato. Sono tanti i vantaggi di liberalizzare le droghe leggere. Un video incredibile mostra un camion, di quelli comunissimi che d'estate affollano le autostrade, stracarico di angurie.
Niente di strano, starete pensando, e invece no, in quelle angurie, decine di angurie dall'aspetto assolutamente normale, non c'era polpa rosa, succosa e costellata da semi neri. Aperte, quelle angurie nascondevano chili e chili di marijuana perfettamente inserita all'interno.
Chi ha fatto il lavoro è riuscito a imbottire le angurie senza intaccare in alcun modo la buccia. È stato praticato un solo foro al lato e, dopo aver eliminato tutta la polpa, è stata inserita una sottile carta come involucro protettivo a foderare l'intera cavità che poi è stata farcita con l'erba. L'anguria è stata poi richiusa con il tappo di buccia del frutto.
Quando ero bambino, dalle mie parti, d'estate si facevano grandi feste all'aperto e la vera attrazione erano le angurie, che venivano servite per ultime. Erano fredde, freddissime e servivano a dare un po' di sollievo in quelle estati roventi senza aria condizionata. Ma non erano angurie comuni: erano angurie corrette con un liquore dolcissimo che non sono mai riuscito a bere.
Per noi bambini c'erano le angurie senza liquore, ma i più svelti riuscivano a sottrarre qualche fetta di quelle "truccate" che mangiavamo, dividendo il bottino, a piccolissimi morsi, per farla durare più a lungo. Questo video mi ha portato indietro negli anni e allo stesso tempo mi ha dato da pensare a come, nonostante tutte le evidenze possibili, esattamente come quando io ero bambino, non è possibile oggi parlare di legalizzatone delle droghe leggere, nonostante ormai sia un dato appurato che non siano l'anticamera di nulla di più pericoloso per la salute.
Non se ne può parlare e ogni volta che ci si prova c'è sempre qualcuno che ti salta al collo dandoti dell'Anticristo e dicendo la più inutile delle fesserie, ovvero che legalizzare le droghe è un regalo alle organizzazioni criminali (non sanno perché, ma giurano sia così) e che la legalizzazione farebbe aumentare i consumatori.
Anche questa affermazione è falsa ed è priva di fondamento poiché chi oggi studia le mafie e i loro mercati sa bene che non esistono dati certi sul consumo. Dal momento che il mercato è illegale e quindi sommerso, ci si basa sulla quantità di sostanze sequestrate, che è solo una percentuale minima rispetto a quella in circolazione.
Legalizzare marijuana e hashish, al contrario, significherebbe infliggere un colpo durissimo al narcotraffico, ma non solo. Renderebbe disponibili sul mercato legale sostanze meno dannose per i consumatori che oggi, invece, assumono sostanze tagliate e trattate con ogni genere di schifezza, dalla paraffina all'ammoniaca. Ma se è vero che non conosciamo con esattezza il numero dei consumatori, sappiamo però che si tratta di un mercato miliardario. Per capirne l'entità vanno incrociati dati e va tenuto presente che ogni stima è fatta per difetto.
L'Istat ha quantificato intorno ai 14 miliardi la spesa dei consumatori per tutte le tipologie di droga. Un terzo (il 28%), ovvero quasi 4 miliardi, rappresenta il mercato di hashish e marijuana. Una curiosità: secondo uno studio diffuso da Aqua Drugs, analizzando i residui dei principi attivi presenti nelle acque, si stima che il consumo annuo di cannabis e derivati si aggiri intorno agli 800mila kg. Divertitevi a calcolare il giro d'affari.
Ma c'è di più, secondo uno studio dell'Università di Messina, applicando alla cannabis la stessa aliquota delle sigarette, lo Stato potrebbe incassare fino a 6 miliardi di euro l'anno. Ovviamente persisterebbe una fetta di mercato nero che pratica prezzi inferiori, ma sarebbe notevolmente ridotta rispetto a oggi perché parte dei consumatori preferiranno assumere sostanze controllate anche se meno economiche. Sostanze che, del resto, avrebbero anche il vantaggio di essere legali, che si possono acquistare cioè senza rischiare sanzioni penali.
Diminuirebbero le spese di repressione, di ordine pubblico, di sicurezza e sempre l'Università di Messina quantifica questa riduzione in quasi 800milioni di euro. Per finire, secondo Coldiretti, la legalizzazione della marijuana potrebbe portare alla creazione di 10mila posti di lavoro.
E dove c'è lavoro le mafie sono più deboli. È chiaro che legalizzare conviene in termini di salute pubblica, di guadagno e di risparmio per lo Stato ed è un potentissimo atto antimafia. Come mai non se parla concretamente? Lascio a voi la risposta e mi piacerebbe che - tramite l'Espresso - mi facciate avere le vostre opinioni.