di Fabio Postiglione
Roma, 7 aprile 2015
Ciro Mauriello, il boss di Secondigliano, prima appartenente al clan Di Lauro e poi agli scissionisti, è in pericolo di vita ma non si trova una struttura idonea a curargli la sua malattia: una gravissima forma di ipertensione. E allora il ping pong di responsabilità ha costretto i giudici ad inviare una nota anche alla Regione Campania affinché accerti per quale ragione non si riesca a trovare un posto letto al Secondo Policlinico, li dove era stato deciso che Mauriello fosse curato.
Il 16 aprile prossimo la dodicesima sezione del Riesame di Napoli valuterà l'ennesima istanza dell'avvocato Maria Grazia Padula che chiederà la concessione dei domiciliari per il suo cliente, unico modo, ritiene, per evitare che la situazione possa drammaticamente peggiorare. Domiciliari per inadeguatezza delle cure tenuto conto che i giudici hanno disposto il ricovero ma il provvedimento non è stato mai eseguito, non si è mai di fatto ottemperato all'ordine disposto dai giudici. Sono stati sia i magistrati del Riesame che quelli di Corte d'Assise a stabilire che Mauriello andasse curato e su sollecitazione della difesa i magistrati hanno anche chiesto al pm di valutare eventuali responsabilità di natura penale di chi non ottempera a tale provvedimento, prima tra tutti il Dap.
"Questa autorità giudiziaria chiede l'esecuzione coatta del provvedimento", scrivono i magistrati ma una nota del dirigente del Secondo Policlinico rimanda al mittente la decisione in quanto essendoci pochi posti letto non è possibile prendere in consegna un detenuto che vada piantonato. Questo perché ha bisogno di una struttura "protetta" e quindi deve stare da solo e in una sanità in crisi come quella campana, questo pare essere un "lusso" che non può essere concesso.
A questa nota i giudici ne hanno inviato una alla Regione alla quale si chiede immediatamente di accertare se "se il rifiuto del ricovero sia il piantonamento del paziente, il che non è possibile presso struttura pubblica, o se il rifiuto si basi sull'impossibilità di applicare piani terapeutici adatti a Mauriello". Eppure sono sette mesi che la situazione va avanti con il rischio che la situazione possa improvvisamente precipitare.
Mauriello è un personaggio di spessore della camorra dell'area Nord e deve scontare un residuo di pena per armi mentre e imputato in Corte d'Assise per il duplice omicidio Monlanino-Salierno, quello che nel 2004 diede vita alla faida di Scampia tra i Di Lauro e gli scissionisti che portò in dieci mesi a quasi ottanta morti tra i quali anche vittime innocenti.
Ansa, 7 aprile 2015
"È davvero una buona notizia sapere che il detenuto genovese che il 29 marzo scorso non era rientrato nel carcere di Asti dopo aver fruito di un permesso di 5 giorni, ed era quindi evaso, è stato catturato la mattina di Pasqua nel centro della città di Genova.
L'operazione congiunta Polizia Penitenziaria del Reparto di Genova Marassi in collaborazione con la procura di Asti ed il Reparto di Polizia Penitenziaria astigiano è stata coronata dal successo e a loro va il nostro apprezzamento. L'evaso è stato dunque catturato ed ora ne pagherà le conseguenze in termino di pena da scontare".
È il commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della categoria, alla cattura del detenuto evaso il 29 marzo scorso dal carcere di Asti. Capece sottolinea "l'importante attività posta in essere dai poliziotti penitenziari dei Reparti di Genova Marassi ed Asti, che da subito si sono messi sulle tracce del detenuto evaso, arrivando alla sua cattura. Segno tangibile di un Corpo di Polizia dello Stato, qual è la Polizia Penitenziaria, in prima linea nel contrasto della criminalità e della delinquenza".
di Martina Adami
Gazzetta di Mantova, 7 aprile 2015
Una funzione ricca di sentimento nel carcere di via Poma. Tra lacrime e sorrisi. "Non crediate mai di essere soli nella vostra lotta, perché il Signore cammina al vostro fianco sempre". È stata una funzione ricca di sentimento quella tenuta tra le mura - e le sbarre - del carcere di via Poma. Come da tradizione, il vescovo Roberto Busti ha celebrato la messa di Pasqua tra i sorrisi, gli sguardi e le lacrime dei detenuti, uniti a volontari, guardie penitenziarie e operatori per celebrare la resurrezione di Gesù.
Tra i banchi della piccola cappella si sono inseguiti per tutta mattina sorrisi complici, per combattere la solitudine che in queste giornate di festa si fa più pesante che mai. "Dobbiamo essere uniti, la speranza deve essere la vostra salvezza. Non crediate mai di essere soli nella vostra lotta, perché il Signore cammina al vostro fianco sempre", ha detto Busti, gli occhi fissi nei loro.
Qualcuno di loro sorrideva convinto, qualcun altro sussurrava una preghiera tra le labbra, qualcuno aveva gli occhi lontani, oltre le mura del carcere, mentre altri ancora si guardavano in torno aggiustandosi la camicia indossata per l'occasione, come se la messa rappresentasse una parentesi da una serie di giornate che si susseguono tutte uguali, a voler fingere un ritorno alla normalità per qualche ora.
C'era anche chi piangeva, con il viso coperto dai capelli e le mani giunte. A loro in particolare sono andate le parole del vescovo: "Dio ci ha perdonati per i nostri sbagli, e ora ci aiuta a perdonare noi stessi. Abbiamo confessato i nostri peccati e siamo pronti per la nostra rinascita, supportati dall'amore per la famiglia di Dio e la famiglia di sangue. Non smettete mai di amare, di farvi amare e di sperare. Riservate un pensiero alle vittime di violenza e fate che la vostra vita sia un nuovo battesimo. La Pasqua è la resurrezione, dove la vita vince la morte e l'amore batte l'odio, rendendoci più forti".
Ha parlato anche di libertà, che come i detenuti sanno costa cara, e dell'importanza di rimanere fedeli ai legami con i cari, un vuoto insormontabile tra le mura del carcere. "Siamo qui per scontare la nostra pena - dicono i detenuti leggendo la lettere scritta da loro - Siamo abitanti di un microcosmo obbligati tra queste mura di silenzio, disperazione, solitudine e lotta. Affidarsi nell'altro è l'unica salvezza che abbiamo. Se abbiamo recato dolore con i nostri sbagli ora riflettiamo sull'amore per redimerci, e preghiamo perché il Signore che ci ha perdonati ci aiuti a farlo prima con noi stessi e poi verso gli altri".
Solidarietà e amore predicati a gran voce dai detenuti e dal vescovo, quando tra canzoni e preghiere è sceso tra di loro a regalare abbracci e sorrisi, per combattere gli sguardi tristi e assenti. Una messa svolta come tante altre, che sarebbe potuta passare per una funzione in una qualunque Chiesa se non fosse stato per gli occhi lontani dei ragazzi, aldilà delle mura del carcere, uniti con il pensiero ai famigliari lontani.
Matteo Fanelli
www.ilsussidiario.net, 7 aprile 2015
Un sistema viene costruito per l'uomo o l'uomo è un meccanismo del sistema? Come può una giustizia rivelarsi ingiusta? Sembrano questi gli interrogativi che emergono da "Io non avevo l'avvocato" (Mondadori, 2015), di Mario Rossetti.
L'autore del libro è un ex-dirigente di Fastweb, coinvolto nell'inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle con l'accusa di associazione a delinquere, che lo ha portato prima in carcere, poi ai domiciliari e infine all'assoluzione completa. La storia di un uomo, protagonista di una vicenda incredibile, che ci accompagna nelle contraddizioni del nostro sistema-giustizia, di cui spesso parliamo ma che non conosciamo fino in fondo.
Rossetti viene arrestato nel marzo 2010 e vengono sequestrati tutti i beni e bloccati conti correnti e carte di credito appartenenti a lui e alla sua famiglia. "Lo Stato, per difendere i suoi potenziali diritti futuri, si prende i tuoi beni oggi, anche se non provenienti dai reati contestati". Qui comincia, oltre al suo calvario, una serie di questioni brucianti: come si può pensare di mettere una famiglia sul lastrico per ragioni di "giustizia"?
Viene il momento del carcere. "Non sono più una persona ma un numero. Un numero in una cella". Certamente il problema non è far diventare i penitenziari degli hotel a 5 stelle, ma dei luoghi maggiormente a misura d'uomo, in cui anche le relazioni interpersonali siano più umane. Rossetti individua nella possibilità di lavorare e di imparare un mestiere una soluzione che consentirebbe ai detenuti da una parte di impiegare in maniera utile il proprio tempo, e dall'altra di ottenere qualcosa da offrire al mercato del lavoro, una volta conclusa la pena, per reinserirsi nella società. Ma la burocrazia, anche dietro le sbarre, complica tutto al limite dell'insormontabile.
E poi c'è il (mal)funzionamento della giustizia. Rossetti riscontra innanzitutto una scarsa competenza dimostrata da pm e finanzieri nel momento dell'interrogatorio. Non solo. "Nel nostro Paese - racconta Rossetti a proposito dei suoi arresti cautelari, in cui non sussistevano le motivazioni previste dalla legge - a fianco del codice penale scritto dal legislatore, esista un codice penale "materiale", che è quello che si applica nei nostri tribunali". Il punto non è abolire del tutto la carcerazione preventiva, ma ripensare il suo utilizzo.
Rossetti sottolinea che diversi giudici svolgono bene il proprio lavoro e ribadisce la propria fiducia ultima nella giustizia, tuttavia l'atteggiamento generale, sia per le condizioni del carcere, sia per il comportamento di taluni magistrati, sembra essere spesso quello di una sentenza già scritta ancora prima di approfondire i fatti. In dubio, pro reo, dicevano i latini, ma Rossetti può smentirlo.
Non ultimi i mass media. Viviamo in un paese in cui le condanne vengono emesse a mezzo stampa e, quel che è peggio, senza aspettare l'esito dei processi. "La stampa fa da cassa di risonanza a quello che arriva dagli uffici della procura anche perché i procuratori e i loro uffici sono una fonte continua di notizie" racconta l'autore. I mostri vengono sbattuti in prima pagina, si costruiscono titoli di giornali e aperture di tg, ma non viene dato lo stesso risalto mediatico all'assoluzione di Rossetti e degli altri dirigenti coinvolti nell'inchiesta.
Così, sullo sfondo della vita sconvolta di un uomo che si vede privare ingiustamente della propria libertà, che si mette alla ricerca di un nuovo rapporto con se stesso, con la propria famiglia, che affronta il dolore straziante per la perdita di un figlio, ci sono le contraddizioni della giustizia e dell'informazione, quelle che noi vediamo per prime, ma che quando investono la vita di una persona ribaltano le proporzioni del problema, assumono le sembianze di una gogna anonima dove i meccanismi tendono inesorabilmente a prevaricare su quel che rimane di sé, che istintivamente si oppone all'ingiustizia ma che in ogni momento rischia di rompersi, di crollare. La vicenda di Rossetti è l'esatto rovescio di quanto ha detto papa Francesco in un importante discorso dell'ottobre 2014 sulle questioni del carcere e della giustizia, il primato del principio pro homine, cioè della dignità della persona umana sopra ogni cosa. Ma Rossetti ha detto no, e ha deciso coraggiosamente di raccontare la sua storia perché considera il suo un caso che può ancora ripetersi. C'è da esser certi, purtroppo, che le conferme non mancheranno.
di Cristina Bassi
Il Giornale, 7 aprile 2015
Il paradosso dello Stato di Los Angeles, dove il boia è a riposo da un decennio ma le condanne capitali aumentano. E in Texas mancano i veleni per le iniezioni letali. In California il boia è a riposo e nel braccio della morte c'è il "tutto esaurito". È il paradosso della pena di morte ancora comminata ma non eseguita nello stato di Los Angeles. Da un decennio infatti i condannati a morte californiani vengono risparmiati, ma intanto nel penitenziario di San Quintino su un totale di 715 celle ne sono rimaste libere solo sette. La notizia pubblicata dal Los Angeles Times conferma l'allarme globale lanciato da Amnesty International nel suo rapporto 2014 sulla pena capitale: esecuzioni in calo ma condanne in aumento.
Il governatore della California Jerry Brown prevede una media di venti nuovi arrivi ogni anno e chiede un finanziamento di emergenza da 3,2 milioni di dollari per costruire 97 nuove celle. L'intenzione è di utilizzare gli spazi guadagnati grazie alla riforma delle pene che ha derubricato a semplici contravvenzioni la maggior parte di quelle per i reati di droga non violenti. L'ultima esecuzione dello Stato risale al 2006, intanto la popolazione di San Quintino è invecchiata e 49 detenuti sono morti di malattia, overdose o suicidio.
Le notizie californiane si aggiungono a quelle che arrivano dal Texas, dove cominciano a scarseggiare i veleni per le iniezioni letali. Lo Stato ha a disposizione la dose per una sola esecuzione, in programma per il 9 aprile. A rendere difficile il compito del boia c'è anche il recente appello dell'Associazione americana farmacisti ai propri 62mila iscritti a non collaborare con le amministrazioni che ancora praticano la pena capitale e quindi a non fornire sostanze che servano a mettere a morte esseri umani.
E in occasione della Pasqua un gruppo di 400 leader cattolici ed evangelici ha scritto una lettera aperta per chiedere alla classe politica degli stati Usa che ancora applicano la pena di morte di "abbandonare una pratica che diminuisce la nostra umanità e contribuisce a una cultura di violenza e vendetta senza conciliazione". Il documento definisce la pena capitale "il frutto marcio di una cultura seminata con i semi di povertà, disuguaglianza, razzismo e indifferenza alla vita" e sottolinea "la vergognosa realtà che gli Stati Uniti sono una delle poche nazioni sviluppate del mondo che ancora mettono a morte i propri cittadini".
di Geraldina Colotti
Il Manifesto, 7 aprile 2015
Coma diabetico per lo storico leader delle Pantere nere, in carcere da 34 anni. Il giornalista afro-americano Mumia Abu Jamal, storico leader delle Black Panthers in carcere negli Stati uniti, è in pericolo di vita. A fine marzo ha perso conoscenza a seguito di un coma diabetico ed è stato trasferito d'urgenza all'Unità di terapia intensiva del Centro medico di Schukylkill.
Alla dottoressa Pam Africa, registrata come il suo contatto sanitario personale d'urgenza, non è stato consentito di visitarlo. Solo dopo la pressione di centinaia di chiamate e di proteste che si sono susseguite nel corso di 20 ore, le autorità Usa hanno consentito alla moglie di Mumia, Wadiya, e al fratello Keith Cook, in attesa fuori dall'ospedale, di visitare il prigioniero per mezz'ora.
Il Dipartimento correttivo della Pennsylvania ha tirato fuori una nuova regola arbitraria, in base alla quale anche i famigliari più stretti possono rendergli visita sono una volta alla settimana. E così Bill Cook, il fratello minore e Jamal Hart, suo figlio minore hanno potuto vedere Mumia solo mercoledì 1 aprile. E hanno riferito ai giornalisti le loro preoccupazione per la salute del congiunto il quale, nonostante le gravi condizioni di salute, è rimasto incatenato al letto. Da allora, neanche gli avvocati hanno potuto parlare con il loro assistito e constatarne le condizioni. Nel fine settimana, si sono tenute mobilitazioni sotto l'ospedale e davanti al Dipartimento correttivo. Gli attivisti hanno diffuso il numero di telefono del responsabile della prigione di Mahanoy, John Kerestes (001-570-773-2158), non tanto nella speranza di ottenere risposte, ma per testimoniare la presenza lasciando messaggi registrati.
Ora, Mumia è stato trasferito al centro clinico della prigione di Mahanoy a Franckville (Pennsylvania), la stessa che non gli ha mai diagnosticato il diabete, mettendolo a rischio di vita. Il comitato di sostegno a Mumia Abu Jamal (Icffmaj), ha denunciato che l'omissione potrebbe essere stata volontaria: che le autorità abbiamo taciuto di proposito i dati clinici sulla salute del noto prigioniero politico per comminargli in altro modo quella pena di morte che era stata commutata in ergastolo nel 2008. D'altro canto, anche le cure per il grave shock ipoglicemico di cui ha sofferto, gli sono state somministrate in modo tardivo e insufficiente. La vita di Mumia è in pericolo, dicono allora avvocati e famigliari e invitano a mobilitarsi contro le condizioni di detenzione del giornalista, in carcere da 34 anni.
Anni scontati in regime di isolamento e a seguito di una condanna ingiusta: l'ex leader delle Pantere nere si è infatti sempre dichiarato innocente e numerosi intellettuali, religiosi e politici di tutto il mondo hanno sostenuto le sue richieste di revisione del processo, viziato - secondo I suoi legali - da evidenti contraddizioni e violazioni dei diritti della difesa.
Mumia è stato condannato a morte nel luglio del 1982 con l'accusa di aver ucciso un poliziotto, Daniel Faulkner. Ha sempre negato. Nel giugno del 1999, Arnold Beverly, un sicario, ha anche confessato agli avvocati di Mumia di essere l'autore dell'omicidio del poliziotto e ha parlato di collusioni tra mafia e polizia. La testimonianza non è però stata tenuta in considerazione. Mumia ha continuato il suo calvario di carcere, e ricorsi.
Ha pagato soprattutto il suo impegno politico, iniziato precocemente. Nel 1968, aveva 14 anni quando venne arrestato e picchiato, a Filadelfia, durante le proteste contro un meeting del Partito democratico e del candidato alle presidenziali, George Wallace, ex governatore dell'Alabama e sostenitore della segregazione razziale. In seguito, finì nelle schedature dell'Fbi per aver voluto ribattezzare il suo liceo con il nome di Malcom X e per la sua appartenenza al partito delle Pantere nere. Per l'Fbi era persona "da sorvegliare e rinchiudere in caso di allerta nazionale", bersaglio di un'operazione di controspionaggio denominata Cointelpro. L'allerta nei suoi confronti s'intensificò negli anni seguenti quando, diventato giornalista, continuò ad essere in prima fila nelle denunce contro il razzismo, che gli valsero il licenziamento da una stazione radio in cui lavorava. Costretto a fare il taxista per mantenersi, venne gravemente ferito nel corso di una sparatoria nel quartiere sud di Filadelfia, dove aveva accompagnato un cliente, il 9 dicembre del 1981. In quell'occasione, venne ucciso il poliziotto Faulkner e Mumia fu accusato del suo omicidio, di cui si è sempre dichiarato innocente.
Un'innocenza che ha gridato per trent'anni anche un altro afroamericano, Anthony Hinton, accusato di aver ucciso due uomini durante una rapina, in Inghilterra. Nel 1985, l'uomo è stato estradato negli Usa e messo nel braccio della morte in Alabama. Solo nel 2014 le autorità hanno riaperto il caso e l'hanno ritenuto non colpevole.
Ansa, 7 aprile 2015
Terza misura cautelare per episodi accaduti su treno a Wakayama. Si complica con un nuovo arresto e il rinvio a giudizio la posizione di Vincenzo D., l'uomo di 40 anni detenuto dagli inizi di marzo su disposizione della polizia di Wakayama, prefettura del Giappone centrale, a causa degli addebiti sulle molestie sessuali.
Le indagini, infatti, hanno fatto emergere episodi più gravi del semplice "Italian Kiss", come riportato inizialmente dai media nipponici e diventato un tormentone sui social network. Tanto che gli agenti della stazione di polizia della città di Gobo hanno disposto il terzo arresto nei suoi confronti per atti osceni, molestie e palpeggiamenti (questi ultimi negati dal sospettato) sulla linea ferroviaria locale della JR Kisei.
Durante la raccolta delle testimonianze è emersa un'altra serie di incidenti simili a Gobo, città di poco più di 25.000 abitanti, sfociata con l'arresto del 15 marzo dopo il primo del 4 marzo per il tentativo di bacio della fronte e della mano di una donna di 21 anni, seduta in un vagone della stessa linea tra le stazioni di Iwashiro e Minabe.
In base a quanto riferito all'Ansa dalla polizia locale, che "continua le indagini per far emergere altri possibili episodi", l'uomo è stato detenuto in un primo periodo (dal 4 al 15 marzo), poi portato fino al 5 aprile ed esteso ancora una volta. La data dell'udienza non è stata fissata, mentre l'uomo - si apprende - in Italia sarebbe stato sottoposto in passato a "periodi di cura".
La Presse, 7 aprile 2015
Un tribunale indonesiano ha respinto il ricorso in appello di due cittadini australiani condannati a morte per traffico di droga. Era l'ultima possibilità che avevano di evitare la fucilazione. Andrew Chan e Myuran Sukumaran avevano presentato appello contro il no alla richiesta di clemenza pronunciato dal presidente indonesiano Joko Widodo, ha riferito il portale Rappler. Gli australiani sono tra 11 detenuti condannati a morte per narcotraffico, tra cui cittadini di Francia, Brasile, Filippine, Nigeria e Ghana.
La Corte amministrativa di Jakarta ha respinto anche la richiesta dei legali di Myuran Sukumaran. La condanna a morte per traffico di droga potrebbe essere eseguita nelle prossime settimane anche per altri stranieri da anni nelle carceri del Paese per lo stesso reato. Nei mesi scorsi, il presidente indonesiano Joko Widodo aveva respinto le richieste di grazia per i due detenuti. Proprio la decisione del presidente è stata citata dal tribunale come il motivo per cui il ricorso non può essere accolto. Chan e Sukumaran sono in lista per l'esecuzione assieme ad altri stranieri, provenienti da Francai, Brasile, Nigeria, Ghana e Filippine.
Altri cinque detenuti stranieri, tra cui un brasiliano e un olandese, sono stati giustiziati a gennaio. La linea dura scelta da Widodo sulle esecuzioni degli stranieri ha reso tesi i rapporti soprattutto con Brasile, Olanda e Australia. Secondo il presidente, il traffico di droga ha un costo sociale enorme in Indonesia, data l'alta dipendenza da stupefacenti rilevata dalle statistiche nazionali.
di Giancarlo De Cataldo (Magistrato e scrittore)
L'Espresso, 6 aprile 2015
Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l'assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito. Per l'omicidio di Meredith Kercher c'è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui.
di Elisabetta Longo
Tempi, 6 aprile 2015
Nei nostri penitenziari la situazione dei detenuti continua ad essere insostenibile. Ogni giorno la polizia penitenziaria sventa tentativi analoghi. Il 2 aprile si è suicidato un detenuto a Opera (Mi). L'uomo aveva 50 anni e stava scontando una pena per maltrattamenti, che si sarebbe esaurita nel 2028.
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