www.obiettivonews.it, 11 aprile 2015
Alta tensione nel carcere di Torino, dove questa notte un detenuto straniero ha dato in escandescenza e turbato l'ordine e la sicurezza della struttura penitenziaria aggredendo un Agente di Polizia in servizio. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Questa notte verso le ore 2,00, presso la Casa circondariale di Torino, un detenuto comune di origini africano, ristretto nella sezione Filtro padiglione A, ha colpito senza alcun motivo l'Agente di Polizia Penitenziaria sul naso, fratturandogli il setto nasale", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece.
"Al collega ferito va la nostra vicinanza e solidarietà, ma servono ora risposte certe: sono più di dieci le aggressioni a poliziotti registrate a Torino dall'inizio dell'anno". Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria torna a sollecitare il Ministro della Giustizia Orlando e i vertici dell'Amministrazione centrale "di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di strumenti di tutela efficaci, come può essere lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il Capo Dap Santi Consolo valutino positivamente questa nostra proposta e, quindi, assumano i provvedimenti conseguenti.
Vicente Santilli, segretario regionale Sappe per il Piemonte, evidenzia che, nei dodici mesi del 2014, nel carcere di Torino si sono contati "17 tentati suicidi di altrettanti detenuti, sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 54 episodi di autolesionismo (ingestione di corpi estranei, chiodi, pile, lamette, pile, tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette), 5 colluttazioni e 8 ferimenti".
Capece evidenzia infine come l'ennesima aggressione nel carcere di Torino, un penitenziario nel quale oggi ci sono circa 1.300 detenuti, è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale, come ad esempio l'espulsione dei detenuti stranieri".
Ansa, 11 aprile 2015
Tre agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Bari sono rimasti feriti dopo essere stati aggrediti da un detenuto che stavano trasferendo dalla Sezione ordinaria in infermeria. L'episodio, del quale riferisce il Coordinamento sindacale penitenziario (Cosp), sarebbe avvenuto il 7 aprile scorso ma se ne è avuta notizia solo nelle ultime ore.
Gli agenti hanno riportato rispettivamente la frattura del setto nasale, un trauma cranico facciale con ematoma nella zona dell'occhio sinistro e una ferita al polso sinistro, e sono stati medicati al Pronto soccorso del Policlinico di Bari. Anche il detenuto - 44 anni, di Afragola (Napoli), condannato per reati contro la persona e il patrimonio con fine pena nel 2017 e pare con disturbi psichici - è stato medicato in ospedale dopo aver compiuto atti di autolesionismo, e i medici - per quanto riferito dal Cosp - gli avrebbero suturato l'addome con decine di punti. Il Cosp prende spunto dall'episodio per sottolineare le difficoltà in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Bari, anche per l'organico carente, e chiede l'intervento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
www.romatoday.it, 11 aprile 2015
L'assistente capo di 49 anni ricoverato in ospedale con 23 giorni di prognosi. Lo rende noto i sindacati dei Baschi Azzurri. Aggressione il giorno di Pasqua nel carcere di Velletri dove un detenuto ha aggredito una guardia penitenziaria costringendola al ricovero in ospedale. Lo rende noto il l Segretario Generale Aggiunto della Fns-Cisl Massimo Costantino. Sempre nel giorno di domenica un altro carcerato ha inoltre tentato il suicidio tunisino nel carcere di Rieti.
Secondo quanto riferito dal sindacato dei 'Baschi Azzurri' l'aggressione è stata perpetrata ad opera di un detenuto magrebino ai danni di un assistente capo di 49 anni. Le violenze nella sezione isolamento della casa circondariale dei Castelli Romani. In particolare l'agente penitenziario ha riportato trauma contusivo e distorsivo al V e VI raggio della mano sinistra con successivi 23 giorni di prognosi.
In riferimento ai due episodi Massimo Costantino commenta: "Per la Fns Cisl Lazio, quindi, occorre intervenire, al fine di evitare episodi del genere, aggressioni al personale e tentativi di suicidio da parte dei detenuti, aumentando sia il numero degli agenti ma anche quello del personale medico ed infermieristico. Occorre, comunque, allo stesso tempo inasprire le pene detentive per detenuti resosi responsabili di aggressione a danno del personale di Polizia Penitenziaria".
Per la Fns Cisl Lazio anche il dato in aumento dei detenuti nelle 14 carceri del Lazio "dimostra che qualcosa non funziona, basti pensare che la legge svuota carceri non ha dato i risultati sperati, eccetto i primi 7 mesi dove il sovraffollamento delle carceri lentamente diminuiva. Come si ricorderà sono state inserite importanti novità quali braccialetti elettronici, l'affido in prova, la detenzione domiciliare al fine di evitare la detenzione in carcere".
I dati che fornisce il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) dimostrano come continuano ad aumentare i detenuti nelle carceri del Lazio, al 31 marzo 2015, si rappresenta che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.816 (702 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili), rispetto al 31 dicembre 2014 si registra in tre mesi un più 216 detenuti considerato che i detenuti erano 5.600.
Per la Fns Cisl Lazio quello che preoccupa "è che se non viene ridotto il sovraffollamento nelle carceri difficilmente si potrà migliorare sia le condizione detentiva dei detenuti ma, anche, quella lavorativa del personale ed evitare eventi critici quali aggressione al personale e tentativi di suicidio dei detenuti stessi. La Fns Cisl Lazio non resterà ferma segnalando agli uffici competenti, come sempre ha fatto, i rischi che corre il personale che lavora in condizioni a dir poco sicuro".
www.varesenews.it, 11 aprile 2015
Si tratta della seconda fase del progetto "Educare alla libertà": sarà allestita, insieme a una mostra, all'Isis Ponti di piazza Giovine Italia di Gallarate fino al 24 aprile.
Da sabato 11 aprile con inaugurazione alle ore 10, l'Isis Ponti di piazza Giovine Italia ospiterà la ricostruzione di una cella carceraria. Abbinata a una mostra fotografica sulla quotidianità vissuta dai detenuti, l'istallazione potrà essere visitata e abitata per qualche minuto, così da fare comprendere al pubblico che cosa significhi scontare una pena dietro le sbarre. La possibilità di toccare con mano tale realtà è parte di un progetto ampio, "Educare alla libertà", frutto di un lavoro d'equipe.
Il facsimile della cella è messo a disposizione dalla Caritas Diocesana mentre l'azione per informare e sensibilizzare gli studenti delle scuole superiori è stata portata avanti dall'Associazione Assistenza Carcerati e famiglie di Gallarate e dall'Associazione Volgiter, in collaborazione con il Bando Volontariato 2014 e il Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Varese. Operatori e volontari, insieme a un detenuto della casa circondariale di Busto, hanno incontrato circa 700 studenti e una trentina di professori dell'ultimo triennio. Hanno aderito l'Istituto Falcone, i Licei di viale dei Tigli, l'istituto Gadda Rosselli e, appunto, l'Isis Ponti. L'iniziativa si avvale del patrocinio del Comune di Gallarate, in particolare dell'Assessorato ai Servizi Sociali e dell'Assessorato alla Cultura.
Le classi delle scuole superiori visiteranno la cella e la mostra nei giorni feriali mentre il sabato e la domenica (dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18) gli spazi saranno aperti al pubblico, preferibilmente ma non esclusivamente a gruppi e associazioni che vogliano avviare un percorso di conoscenza e incontro. Mostra ed esposizione fotografica saranno all'Isis Ponti fino al 24 aprile.
"La prima parte del progetto, quella informativa che si è svolta nelle classi - spiega Agostino Crotti in rappresentanza dell'Associazione Assistenza Carcerati - ha avuto riscontri molto positivi. Un conto è parlare di carcere in astratto, ben altra cosa è conoscere i detenuti. Quando se ne scoprono le storie e il presente, tra aspirazioni e difficoltà, emerge l'umanità dei reclusi. Non si dimenticano colpe e reati ma diventa possibile guardare al carcere senza pregiudizi".
"La detenzione - aggiunge il presidente di Volgiter, Marco Pozzi - dovrebbe essere l'extrema ratio e comunque all'interno di un sistema che punta al recupero della persona con una determinazione ben diversa da quella attuale. Si tratta di cambiare lo schema culturale associato al carcere, per questo è importante incontrare i giovani prima che si consolidi in loro la percezione diffusa di questa realtà, spesso fondata su presupposti erronei o controproducenti per tutti".
"Purtroppo capita sempre di più - conclude l'assessora ai Servizi Sociali, Margherita Silvestrini - che chi affronta il disagio e la marginalità, in veste di operatore professionista o volontario, debba scontrarsi con luoghi comuni e pregiudizi. Non si possono nascondere problemi, criticità e responsabilità anche gravi dei singoli, ma le azioni di conoscenza ed educazione danno sempre un contributo importante, spesso sottovalutato, per imparare a leggere la realtà per come è davvero". "Educare alla libertà" prevede anche un concorso di scrittura, in prosa o in versi, sul tema "L'attesa: arco teso tra un vuoto che stringe e il cuore e una speranza che lo sappia colmare", riservato a studenti e detenuti. La premiazione è in programma il 29 aprile nella casa circondariale di Busto.
www.lecceprima.it, 11 aprile 2015
Venerdì 10 aprile alle ore 20.00 presso il Laboratorio KiiO Candles, in via Taranto 219 a Lecce, ha presentato il videoclip musicale "Amore e Rabbia", realizzato durante il corso di Musica e Scrittura creativa ed interpretato dai giovani detenuti del carcere di Lecce Borgo San Nicola e da artisti che hanno collaborato al progetto Storie D'Amore e Libertà, promosso dalle Associazioni Antigone onlus e BFake con il patrocinio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Puglia. Il brano è curato dal musicista rapper Scienza, che ha arrangiato i testi e composto la base del brano in collaborazione con il producer Killo Tha Snatcha.
Per l'occasione verrà presentata la Mostra con i disegni creati dalle detenute della sezione femminile per il corso di Street Art, che hanno già terminato un suggestivo murales di Frida Kahlo, soggetto simbolo di libertà femminile, che domina il muro fino ad allora grigio del cortile dei passeggi. Il murales è stato realizzato con l'aiuto dell'artista Ckeckos'Art autore di numerosi murales in Italia e all'estero e per ultimo il "Monaco rissoso che vola tra gli alberi" l'omaggio creativo al poeta salentino Bodini, diventato un grandioso murales in Via Taranto a Lecce. Il video è stato diretto da Mauro Russo di Calibronove che ha firmato la regia dei video di Clementino, Gue Pequeno e altri ancora.
Rime forti che raccontano i sogni, le speranze, ma anche la rabbia di giovani che provengono dalla strada. I protagonisti? Proprio loro, i detenuti. La canzone è pungente, descrive la società in cui viviamo oggi, con tutte le sue sfumature più oscure e cariche di ingiustizia. Molti artisti sono rimasti colpiti dalla bravura di questi giovani, capaci di dare sfogo ad un'anima rap di livello senza aver mai pensato di intraprendere la strada dei musicisti. Tutto il backstage fotografico del videoclip è a cura di Alessandra Alfieri e sarà allestita una mostra venerdì durante l'evento. L'idea è nata dal confronto tra Mariapia Scarciglia, responsabile Puglia dell'Associazione Antigone e i soci dell'associazione Bfake, attiva sul territorio nella realizzazione di progetti all'insegna della libera circolazione e condivisione dei saperi. La passione per i diritti e l'impegno per la difesa delle fasce più deboli sono stati fondamentali per spingere il progetto all'interno del carcere leccese.
Sono molti gli artisti e le realtà che si sono detti disponibili a collaborare e a fare la loro parte per i detenuti, perché luoghi come questi, siano più vicini alla società e contenitori di cultura, una cultura che per le rispettive associazioni fonda i suoi principi nel Rispetto dei diritti umani e nell'inclusione sociale. Anche quest'anno Il corso di Street art è curato da Ckeckos'Art e Anna Kitlas artisti del Laboratorio 167/B street mentre il corso di Musica dal rapper e dj Scienza.
recensione di Fabio Massimo Nicosia
Il Garantista, 11 aprile 2015
Il libro che ricorda le sfide Radicali, che però su questi temi rischiano - paradossalmente - di farsi sfuggire un'occasione storica. L'Italia è un Paese bizzarro. Sapete che mestiere fa il personaggio che più di ogni altro oggi si batte per l'abolizione del carcere? La pianista? La librettista d'opera rii musica contemporanea? Esatto! Ma torse vi sorprenderà di più che la sua occupazione principale è quella di Sostituto Procuratore della Repubblica, a Pesaro per l'esattezza.
In un suo testo pubblicato dalla gloriosa Liberi Libri nel 2011 "Giustizia relativa e pena assoluta", Silvia Cecchi argomenta da par suo su tale delicata questione. Non aspettatevi affermazioni mirabolanti e guerrigliere, si tratta di una "moderata". Cecchi semplicemente sostiene che il carcere, nella sua essenza punitiva, retributiva e afflittiva, semplicemente contrasta con l'art. 27 della Costituzione, secondo il quale la pena dove tendere alla rieducazione del condannato, senza con questo ristorare in alcun modo le vittime. In realtà l'autrice svolge anche un discorso più sottile, come si evince da! titolo del lavoro.
La pena è "assoluta", nel senso che toglie in toto tempo e spazio al "reo", mentre raramente la condotta "delittuosa" esprime totalmente la personalità "malvagia" di questo, di cui il reato e solo una manifestazione parziale.
Si noti - è questo a nostro avviso è un limite - Cecchi non intende contestare il diritto penale in quanto tale: secondo l'autrice rimane comunque spazio per pene alternative, restitutorie, interdittive, per processi di mediazione (questo l'aspetto più interessante, che l'autrice ha sviluppato in altri scritti). Intende invece contestare solo il carcere in quanto istituzione totale, che non ha senso né per il reo (quando è tale: non dimentichiamoci mai le detenzioni cautelari e degli innocenti), né per la vittima, che non vi ricava nulla, se non soddisfazione a un sentimento di vendetta, in sé comprensibile. La vittima quando c'è. Perché moltissimi sono ancora ì reati senza vittime, i victimless crymes, come quelli sulla droga, sicché, aggiungiamo noi, iniziativa anti carceraria e lotta antiproibizionista dovrebbero andare di pari passo.
Detto questo sommariamente sul libro di Silvia Cecchi, resta spazio per qualche appunto sull'attuale lotta radicale sulle carceri, e non possiamo non esprimere un senso di insoddisfazione. Proprio il libro di Cecchi, così argomentato, così ricco di spunti, ci fa pensare che ì radicali rischiano di perdere un'occasione storica, Secondo i radicali, in nome dello "Stato di diritto", bisogna "riportare il carcere nelle legalità".
Ma quando mai ci è stato? Proprio Cecchi ci dice che, in nome di quello stesso Stato di diritto. Il carcere andrebbe semplicemente abolito, ani mettendosi seni mai (ai sensi dell'art. 13 della Costituzione) qualche limitazione di libertà personale per i casi di maggiore pericolosità sociale, ma ciò non significa "carcere" come lo conosciamo (comunità, case-famiglia, etc.).
E allora auspichiamo che, come fecero con i manicomi, i radicali vadano appunto alla radice delle cose e arricchiscano la propria azione con un maggiore approfondimento sull'istituto carcerario in quanto tale, sulla tematica del diritto penale minimo, e così via, dato che il rischio è quello di chiedere troppo e troppo poco nello stesso tempo.
In effetti, questa posizione di troppo/troppo poco, di vedere che cosa di buono può aver fatto il governo (decreto legislativo sull'archivi azione atti eli particolare temuta) e, d'altro lato, di criticarlo quando fa qualcosa di sbagliato in quella direzione, come il far scadere i termini della delega sulla detenzione domiciliare.
Certo, se si dice amnistia (pur fondamentale per deflazionare i processi pendenti) e basta, ti precludi di interagire su questo terreno più pratico, ma che va più decisamente verso la messa in discussione dell'istituto carcerario in quanto sanzione "generale", come dice Cecchi. Insomma, paradossalmente, proprio una più intransigente posizione sul piano teorico, di messa in discussione dell'istituto carcerario in quanto tale (cosa che peraltro Pannella faceva negli anni 70) consente un più stringente dialogo sulle riforme che vanno in questa direzione, come del resto richiesto dallo stesso messaggio di Napolitano, che solo alla fine parlava dì amnistia, come quadratura del cerchio del problema.
recensione di Simonetta Fiori
La Repubblica, 11 aprile 2015
"Il manicomio chimico", di Piero Cipriano (Elèuthera pagg. 256, euro 15).
Si definisce uno "psichiatra riluttante", stufo di fare il giudice dei matti. Talvolta usa parole come "carnefice" e "tortura". Parla di pazienti legati al letto, di psicofarmaci somministrati non per curare ma per annichilire, di case di cura private che assomigliano ai "villaggi turistici della cronicità". È raro sentire un medico che si esprima con questa furente schiettezza sull'establishment psichiatrico e sui luoghi del disagio psichico. Quarantasette anni, irpino, brillante promessa (poi pentita) della psicofarmacologia, Piero Cipriano ha narrato in due libri la sua ventennale esperienza nelle "fabbriche della cura mentale": così chiama i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, ossia i piccoli reparti ospedalieri dove si affronta la crisi psichiatrica.
I suoi racconti ripropongono il genere della testimonianza civile da parte dei medici di frontiera: un corpo a corpo con la follia restituito con la forza della denuncia e l'affilatezza delle immagini. L'ultimo, Il manicomio chimico , uscito ora da Elèuthera, richiama l'attenzione su un'emergenza diffusa anche se ancora invisibile. La nascita di un gigantesco manicomio che non è più quello chiuso da Franco Basaglia, ma uno ancora più subdolo e inafferrabile che viene edificato dagli psicofarmaci. Vecchie e nuove catene di cui non sappiamo liberarci.
Dottor Cipriano, nei suoi libri racconta storie di pazienti umiliati.
"Sì, storie di tortura. In questo momento ci sono trecento persone legate a un letto con le fasce di contenzione. Dei trecento ventitré servizi diffusi nel territorio nazionale, l'80 per cento è a porte chiuse, ha finestre con le sbarre e utilizza le fasce. Le terapie farmacologiche spesso vengono somministrate per ridurre il paziente in uno stato agonico. Aveva ragione Basaglia a temere che questi reparti potessero diventare piccoli manicomi".
Nei casi estremi legare non è una necessità?
"Ho visto persone costrette alle fasce solo per uno sputo sulla finestra. Oggi si lega con disinvoltura, come se fosse un gesto normale. Però non se parla. Una pratica tabù".
Accade solo nei reparti psichiatrici?
"Accade ovunque in ospedale. Prendiamo gli anziani, appannati da demenza o arteriosclerosi. Anche loro vengono legati. In un pronto soccorso romano, mi è capitato di vedere un vecchio prete polacco con i genitali per aria. Tutt'intorno camici e casacche linde che lo strattonavano, "anvedi, questo è un prete", e giù a ridere. Ha ragione Ceronetti quando scrive che la più grande sciagura per un uomo è la lunga vita".
Lei non lega mai pazienti esagitati?
"Preferisco parlarci, fino allo sfinimento. E per bloccare una persona non escludo l'uso della forza fisica. Chi ha figli sa di cosa parlo. Qualche collega mi guarda con ribrezzo: talvolta è lo stesso collega che ordina le fasce, ma senza applicarle personalmente perché il lavoro sporco va lasciato ai subalterni. Io resto convinto che le fasce uccidano la relazione".
Ma cosa propone in alternativa ai Spdc?
"Basterebbe guardare ai modelli virtuosi, studiati nel mondo ma ignorati nel resto d'Italia. Non solo Trieste, ma anche Merano, Pistoia, Novara: tutte sedi dove vengono svolte attività domiciliari, oltre alla prevenzione e a colloqui più frequenti. Il paziente non ha bisogno solo di molecole, ma di una casa, di un lavoro, di relazioni. E la spia del funzionamento è proprio il Spdc: più è morbido il Servizio e più il territorio funziona bene. A Roma, al contrario, domina l'emergenza".
Mancano soprattutto le risorse.
"Il caso del Lazio è particolare. La metà del budget va alle cliniche private convenzionate con gli ospedali: dodici solo a Roma con milletrecento posti letto, sui quattromila delle case di cura distribuiti in tutto il territorio nazionale. L'iter è questo: il paziente in crisi arriva da noi, viene aggiustato farmacologicamente, poi affidato a quelli che Basaglia definiva gli imprenditori della follia, che lo ospitano per due o tre mesi riempendolo di farmaci. E poi si ricomincia. Crisi, 118, arrivo al Spdc, eccetera. Si ripropone la dinamica del manicomio, una sorta di internamento diffuso e circolare. E sta tornando pericolosamente in auge la pratica dell'elettroshock".
Lei viene da quella scuola.
"Sì, lavoravo nella clinica universitaria di Pancheri, Biondi e Bersani, luminari della psichiatria. E venni reclutato per il gruppo dell'elettroshock, il più ambito. Poi andai a fare il servizio civile a Montevarchi, dove m'imbattei in una psichiatria diversa".
È anche grazie ai suoi studi sulla psicofarmacologia che lei mette in guardia dagli abusi.
"Denuncio questo nuovo immenso manicomio chimico che recluta i sani. Oggi si diventa pazienti psichiatrici senza saperlo. Tristezza e lutti, rabbia e timidezza, disattenzione ed effervescenza: per ogni emozione forte c'è la pillola giusta. Pensiamo al lutto. Oggi se questa tristezza dura un po' più del previsto viene rubricata come una depressione e di conseguenza curata con gli psicofarmaci. Per non parlare dell'arruolamento dei bambini: i bulli e gli svogliati sono etichettati come iperattivi. Ma questo è un modo di fabbricare malati. Un bambino diagnosticato iperattivo sarà curato con molecole che lo renderanno un depresso, e poi la depressione sarà curata con farmaci che creeranno eccitazione, e quel bambino è condannato a essere un giovane psicotico".
La sua lezione è molto chiara. I farmaci creano dipendenza. E possono provocare nuove psicopatologie.
"Il caso Lubitz è interessante. Il suo spettacolare suicidio mette insieme il senso di fallimento esistenziale e una sorta di delirio di onnipotenza: una condizione tipicamente iatrogena, ossia provocata dai farmaci. Qualcuno mi provoca: ma tu che fai, non dai pillole? Ma certo che le do, ma con parsimonia e solo nelle condizioni gravi. E bisogna sospenderle appena è possibile. L'assunzione prolungata modifica l'equilibrio chimico del cervello che sempre più dipenderà da quella sostanza".
Oggi appare diffuso l'uso "cosmetico" del farmaco.
"Sì, per sentirsi in forma. Nel libro racconto di una brillante professionista che era stata curata per una depressioncina con una pillola e mezza di Prozac, ma venne da me perché gliene somministrassi due. Stava bene ma voleva sentirsi ancora più su. Mi rifiutai di accontentarla, avendola vista già abbastanza eccitata. "Ma come, dottore, non è contento se preferisco il Prozac alla cocaina?". Naturalmente non l'ho più vista".
Lei non fa distinzione tra psicofarmaci e droghe.
"Sono entrambi sostanze psicotrope, con la differenza che i farmaci sono legali, le altre no. Mi diverto a parafrasare l'incipit di Roberto Saviano in Zero Zero Zero, il libro sulla diffusione di cocaina. Tra poco sarà difficile trovare un pilota con la fedina psichiatrica pulita, o anche un medico o un conduttore di treno, scrittori, politici e cani. Mi viene in mente la provocazione di Michel Foucault: tutto il mondo è diventato un grande manicomio. Ci siamo quasi".
Ma noi non eravamo il paese della rivoluzione basagliana? La sua denuncia mostra una resa totale alle catene, chimiche o di altra natura.
"Basaglia ha dimostrato che si poteva curare la malattia mentale in altro modo, e indietro non si torna. Però noi basagliani di seconda generazione restiamo una minoranza, e bisogna lavorare ancora molto. Io non dispero".
Il dottor Cipriano tra qualche mese sarà trasferito nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell'ospedale San Giovanni, l'unico nel Lazio che abbia le porte aperte.
di Andrea Fiorello
www.ilpost.it, 11 aprile 2015
Un bell'articolo del New York Times spiega perché il carcere norvegese accusato di essere troppo indulgente non fa bene ai detenuti: fa bene a tutta la Norvegia.
Il carcere norvegese di Halden è considerato quello che garantisce le più alte condizioni di civiltà e rispetto umano del mondo: quando fu aperto l'8 aprile del 2010 gran parte della stampa internazionale lo definì, in modo piuttosto demagogico e superficiale, una "prigione a cinque stelle" perché le sue celle hanno la tv e il frigorifero, l'estetica di edifici e arredi è molto curata, e il suo muro di cinta è confuso tra gli alberi ed è privo di accessori minacciosi.
Partendo dall'idea che le carceri punitive non funzionano in termini di "rieducazione" e maggior sicurezza per i cittadini, nel realizzare Halden il governo norvegese ha seguito il principio secondo cui è necessario che i detenuti siano trattati umanamente affinché abbiano maggiori possibilità di reinserimento nella società e minori incentivi a compiere nuovi reati: per questo la prigione - che è costata quasi duecento milioni di euro e il lavoro di dieci anni - è dotata di uno studio di registrazione, percorsi da jogging, una cucina comune e una foresteria per i parenti che si fermino in visita ai detenuti.
A circa cinque anni dalla sua apertura, la giornalista del New York Times Magazine Jessica Benko ha visitato Halden per raccontare la vita quotidiana all'interno della prigione norvegese e per capire se l'esperienza di un carcere il più possibile accogliente e simile al mondo esterno stia funzionando. Benko scrive che dall'esterno Halden non sembra nemmeno un carcere: il muro di cinta che lo circonda è alto circa otto metri, ma fuori dal suo perimetro non ci sono né bobine di filo spinato, né recinzioni elettrificate e tantomeno torrette presidiate da cecchini istruiti a sparare su possibili fuggitivi. Eppure, scrive la giornalista, in questi cinque anni nessuno ha mai provato a fuggire.
Confrontato con le strutture penitenziarie di altri paesi - racconta Benko - Halden sembra qualcosa di completamente fuori dal mondo: le sue strutture moderne, accoglienti e ben arredate, la libertà di movimento che offre (compatibilmente con la detenzione) e l'atmosfera calma e silenziosa sono caratteristiche opposte a quelle delle carceri che ci sono più o meno familiari. Queste attenzioni nei confronti degli occupanti sono la materializzazione dei principi norvegesi riguardo alle punizioni e al perdono: il trattamento dei detenuti è totalmente dedicato a prepararli per la vita che dovranno condurre quando usciranno dalla prigione. In Norvegia non solo non c'è la pena di morte, ma neppure l'ergastolo: la pena massima per qualsiasi crimine è di 21 anni di detenzione. "Meglio fuori che dentro" è il motto non ufficiale dell'autorità penitenziaria norvegese, che si propone la reintegrazione nella società per tutti i detenuti che vengono rilasciati: questo dipartimento statale lavora con le altre agenzie governative per assicurare una casa, un lavoro e l'accesso ai servizi di assistenza sociale per ciascun carcerato prima ancora che venga rilasciato.
Grazie a un reddito pro capite tra i più alti del mondo, che deriva soprattutto dall'estrazione di petrolio nel Mare del Nord, la Norvegia può permettersi di garantire un welfare esteso ai suoi cittadini e di investire molto denaro nel suo sistema carcerario: secondo i dati del Vera Institute of Justice di New York, infatti, un detenuto di Halden costa al sistema carcerario norvegese circa 85mila euro l'anno, rispetto ai 28.500 euro spesi per un detenuto negli Stati Uniti. A un primo sguardo la differenza tra le due cifre sembra molto elevata, ma se gli Stati Uniti d'America avessero un numero di carcerati proporzionalmente simile a quello norvegese (75 ogni 100.000 abitanti, contro i circa 700 degli USA), il governo americano potrebbe spendere per ciascun detenuto la stessa cifra della Norvegia e in più risparmierebbe 41,3 miliardi di euro ogni anno. In un periodo come questo, in cui il sistema penitenziario statunitense è molto criticato per la durezza delle sue sentenze, l'eccessivo affidamento sull'isolamento dei detenuti e la disparità di trattamento tra le etnie - scrive Benko - i cittadini USA dovrebbero chiedersi che vantaggi porta spendere tanto denaro per 2,2 milioni di detenuti e se non sia il caso di imparare qualcosa dal sistema norvegese, che parte da un punto di vista diametralmente opposto.
In Norvegia la pena di morte per i civili fu eliminata nel 1902, mentre l'ergastolo venne abolito nel 1981; fino al 1998, però, le prigioni norvegesi funzionavano in maniera simile a quelle degli altri paesi democratici. In quell'anno il Ministero della Giustizia riformò i metodi e gli obiettivi del sistema penitenziario nazionale, dando esplicita priorità alla riabilitazione dei prigionieri attraverso l'educazione, la formazione lavorativa e la terapia. Nel 2007 le riforme si concentrarono sulla reintegrazione, con particolare attenzione verso l'assistenza ai detenuti nella ricerca di una casa e di un lavoro stabile ancora prima della scarcerazione. Halden fu la prima prigione costruita dopo questa serie di riforme, così la riabilitazione divenne il fondamento della sua progettazione: ogni caratteristica della struttura fu sviluppata con l'obiettivo di moderare la pressione psicologica sugli occupanti, ridurre i conflitti e minimizzare le tensioni interpersonali. Per questo all'interno del muro perimetrale, a separare la prigione dalla campagna circostante, ci sono quasi 50mila metri quadri di foresta tipica del sudest norvegese, un paesaggio composto di cespugli di mirtillo, pini silvestri, felci, muschi e betulle. Secondo Gudrun Molden - una degli architetti che hanno progettato Halden - la foresta di mirtilli non è solo un ambiente naturale utile alla riabilitazione, ma per i norvegesi rappresenta un paesaggio familiare, che fa parte della crescita e dei ricordi di ciascuno.
In tutto il mondo, la maggior parte delle prigioni di massima sicurezza è realizzata su terreni completamente piatti e privi di vegetazione, per ridurre al minimo il rischio di fughe e per togliere ai detenuti la possibilità di nascondersi. Jan Stromnes, vicedirettore del carcere, ha raccontato a Benko che quando alcuni membri dello staff provenienti da altre prigioni norvegesi arrivarono la prima volta a Halden, si preoccuparono per la presenza del bosco: "Erano piuttosto sorpresi dal fatto che ci fossero alberi e dal loro numero. Non sarebbe stato meglio rimuoverli? E cosa sarebbe successo se i detenuti si fossero arrampicati? Noi rispondemmo che, beh, se si fossero arrampicati avrebbero potuto sedersi sui rami e restarci finché non si fossero stancati, e a quel punto sarebbero tornati giù," e sorridendo ha aggiunto "Nessuno ha mai provato a nascondersi nel bosco. Ma anche se provassero a scappare là dentro non andrebbero molto lontano: resterebbero comunque dentro".
"Dentro" significa all'interno del perimetro del muro di cinta, l'elemento che più di ogni altro definisce il carcere. Quello di Halden è visibile da ogni punto della prigione e rappresenta un ineludibile promemoria che ricorda costantemente ai detenuti la loro condizione. Poiché gli edifici di Halden sono stati concepiti appositamente per essere "a misura d'uomo", hanno un'ampiezza modesta e non sono più alti di due piani; in un contesto simile, il muro diventa una presenza di dimensioni notevoli, scrive Benko. Le due responsabilità principali del sistema penitenziario - detenzione e riabilitazione - sono in costante tensione tra loro e gli architetti che progettarono Halden pensarono che il muro avrebbe potuto rappresentare la prima: "Ci siamo affidati al muro" come simbolo e strumento di punizione, ha spiegato Molden a Benko.
Quando nel 2002 Molden e i suoi collaboratori visitarono l'area di Halden, in preparazione al concorso internazionale indetto per progettare la prigione, decisero che avrebbero lasciato il contesto naturale più intatto possibile: per dirigersi alle proprie attività quotidiane di scuola, lavoro o terapia, i detenuti avrebbero camminato all'aperto, su e giù per le colline, su superfici irregolari, esattamente come avrebbero fatto al di fuori della prigione. Gli architetti decisero di realizzare gli edifici abitati dai detenuti a forma di anello, mentre nella scelta dei materiali presero ispirazione dai colori della natura circostante. Il materiale principale di cui sono fatti gli edifici è un mattone di cotto annerito; per rappresentare la detenzione è stato scelto un materiale "duro", pannelli di acciaio zincato, mentre il legno di larice non trattato - con le sue sfumature che vanno dal tortora al grigio chiaro - rappresenta il lato "morbido" associato alle idee di riabilitazione e crescita.
Il sistema penitenziario norvegese enfatizza la "sicurezza dinamica", un metodo che vede le relazioni interpersonali tra gli addetti e i detenuti come il fattore fondamentale per garantire la sicurezza all'interno del carcere. L'opposto di questo approccio è rappresentato dalla "sicurezza statica", predominante nella maggior parte delle prigioni di massima sicurezza, che si affida a un ambiente progettato per prevenire i comportamenti pericolosi dei detenuti. In questo tipo di carceri gli occupanti sono costantemente sorvegliati da videocamere, costretti da porte che possono essere chiuse a distanza, mentre il vandalismo e la violenza sono evitati grazie a un mobilio a prova di manomissione. Quando devono essere spostati, i detenuti sono ammanettati e scortati a destinazione, mentre le guardie carcerarie vengono addestrate a ridurre al minimo le interazioni umane per evitare il rischio di scontri.
La sicurezza dinamica non cerca di limitare i danni o di rendere le violenze impossibili, ma si occupa di prevenirle favorendo le interazioni tra detenuti e guardie carcerarie: durante la progettazione di Halden, ad esempio, agli architetti fu ordinato di fare in modo che le guardiole fossero più piccole possibili, così da spingere gli addetti della prigione a passare il proprio tempo nelle aree comuni insieme ai carcerati. A Halden, infatti, le guardie socializzano con i detenuti ogni giorno e conversano con loro mentre prendono un caffè, un tè o durante un pasto. Le aree esterne del carcere sono sorvegliate da telecamere, ma i detenuti spesso si muovono senza accompagnamento, usufruendo di un basilare livello di fiducia che l'amministrazione penitenziaria giudica essenziale per il loro progresso personale. Nelle classi dove si fa lezione, nei laboratori, nelle aree comuni o nelle zone delle celle, invece, non ci sono telecamere a riprendere quanto succede; questa sorveglianza molto blanda potrebbe permettere a un detenuto con cattive intenzioni di tenere comportamenti violenti, ma questo evidentemente non succede: nei cinque anni di funzionamento di Halden, la cella d'isolamento non è mai stata usata.
Benko fa notare che la relativa calma della vita di Halden non dipende dalla natura tranquilla dei norvegesi o dalla loro omogeneità come gruppo etnico: solo tre quinti dei detenuti del carcere, infatti, sono cittadini norvegesi, gli altri provengono da 30 nazioni (prevalentemente Europa dell'est, Africa e Medio Oriente) e parlano norvegese poco o per niente. Per questa ragione, la "lingua franca" del carcere è l'inglese, necessario perché le guardie carcerarie possano comunicare con i prigionieri stranieri.
Dei 251 detenuti di Halden, circa la metà sono stati imprigionati per crimini violenti come omicidio, aggressione o stupro, mentre un terzo è dentro per traffico o spaccio di droghe; nonostante ciò, incidenti violenti o minacce sono piuttosto rari e avvengono quasi tutti nell'Unità A. Questa è la zona più restrittiva del carcere: ospita i detenuti che hanno bisogno di un'assistenza medica o psichiatrica stretta, oppure quelli che hanno commesso crimini che li metterebbero in pericolo nelle Unità B e C, le aree più "libere" del carcere dove la maggior parte degli occupanti convive durante il giorno seguendo i programmi scolastici, lavorativi o di terapia.
Benko racconta di aver incontrato alcuni detenuti dell'Unità A nell'area comune di un blocco occupato da otto uomini: nella stanza c'erano un divano arancione di vinile, alcuni scaffali con giochi da tavolo, riviste e manuali di diritto, mentre sotto la finestra che dava sul cortile dell'unità due detenuti erano intenti a giocare a carte con una guardia. Un prigioniero chiamato Omar le ha passato una cialda a forma di cuore appena cucinata, mentre Benko parlava con Chris Giske, un detenuto che parlava in ottimo inglese: "Hai sentito parlare del caso di Sigrid?" le ha chiesto Giske. "È uno dei casi più famosi in Norvegia". Nel 2012, una ragazza di 16 anni chiamata Sigrid Schjetne sparì una sera mentre rientrava a casa; il suo corpo fu trovato un mese dopo e la condanna di Giske lo rese uno degli assassini più odiati nella storia norvegese.
Dopo aver assaggiato il tipico formaggio marrone norvegese (il "brunost" o "mysost", fatto di siero caramellato del latte, uno scarto di produzione del formaggio che viene cotto per mezza giornata), il direttore della prigione Are Hoidal ha spiegato a Benko che mangiare tutti insieme waffle e altri spuntini è un'abitudine tipica delle famiglie norvegesi, per questo la ricerca della "normalità" all'interno di Halden prevede che anche i detenuti dell'Unità A si incontrino una volta a settimana nelle aree comuni per prendere parte a questa specie di rituale. A Halden alcuni detenuti seguono corsi di cucina per ottenere certificati professionali e Benko ammette che il pasto migliore che ha ricevuto in Norvegia - lasagna piccante, pane all'aglio e insalata con pomodori secchi - le è stato preparato da un detenuto che aveva passato quasi metà dei suoi 40 anni in carcere.
La giornalista ha anche incontrato i detenuti dell'Unità C8, un settore dedicato al recupero dalla tossicodipendenza: questi stavano tornando alle loro celle dopo aver fatto la spesa settimanale al negozio di alimentari interno della prigione. Dopo aver portato in cucina il cibo necessario per i pasti comuni, ciascuno è tornato nella propria cella per riempire il piccolo frigo personale di snack, frutta e bevande. Uno dei prigionieri era Tom, un uomo poco sotto la cinquantina con il corpo ricoperto di tatuaggi: la sua testa era completamente rasata, con "Fuck the Police" scritto in corsivo sul lato destro e "RESPECT" in maiuscolo su quello sinistro. Un tatuaggio sotto all'occhio destro era stato cancellato, mentre sotto quello sinistro c'era il numero "666?; una lunga cicatrice gli percorreva il collo e la testa, residuo di un incidente in motocicletta che lo aveva lasciato in coma l'ultima volta che era stato fuori di prigione.
Benko racconta che a un certo punto Tom ha indicato la stanza dietro di lei e ha detto "Ora sei rimasta sola, vedi?": la donna si è girata e ha visto che c'erano altri otto detenuti che giocavano ai videogiochi o ritiravano la biancheria stesa, ma non c'era nessuna guardia. Le condanne ricevute da quel gruppo di carcerati includevano omicidio, possesso illegale di armi e aggressione, ma lei si è mantenuta calma nonostante la sorpresa: gli agenti potevano vederla dalle finestre della loro guardiola e in ogni caso Benko racconta di essere stata lasciata più volte da sola, con le guardie che aspettavano al fondo del corridoio per permetterle di intervistare i detenuti in una situazione più riservata. Dopo la frase apparentemente minacciosa, infatti, Tom la ha rassicurata aggiungendo, con un tono quasi d'orgoglio, "ed è tutto OK".
Quando Halden fu aperto, i giornali descrissero l'arredamento del carcere come "lussuoso", "elegante" e lo compararono a quello di un piccolo hotel. In realtà - scrive Benko - i mobili di Halden non sono molto diversi da quelli di un dormitorio universitario: la loro caratteristica particolare, piuttosto, è quella di essere mobili "normali", cioè non progettati per un carcere. Gli arredi potrebbero essere usati come corpi contundenti o dati alle fiamme; anche in cucina - come un detenuto ha fatto notare - ci sono molti oggetti che potrebbero essere usati come armi, se qualcuno lo volesse: i piatti sono di ceramica, i bicchieri di vetro, le posate di metallo e a disposizione dei detenuti ci sono anche lunghi coltelli da cucina, legati a un cavo di metallo plastificato.
Gli agenti penitenziari cercano di limitare ogni tensione che potrebbe sfociare in violenza: se due detenuti hanno problemi, una guardia o il cappellano della prigione li riuniscono per una sessione di mediazione che dura finché i due non hanno raggiunto un accordo pacifico e si sono stretti la mano. Anche le gang rivali accettano di non combattersi all'interno del carcere, benché la promessa non resti valida quando i componenti vengono rilasciati. I pochi incidenti violenti accaduti a Halden si sono verificati quasi esclusivamente nell'Unità A, dove sono tenuti i prigionieri con problemi psichiatrici più gravi. Se un detenuto viola le regole, le conseguenze sono rapide, coerenti e applicate in modo uniforme. Eventuali comportamenti recidivi vengono puniti con la reclusione all'interno della cella durante le ore di lavoro, a volte senza la possibilità di guardare la televisione: Benko scrive che un detenuto le ha raccontato di un prigioniero proveniente dall'Europa dell'Est che riuscì a connettere il suo televisore a Internet e per questo l'apparecchio gli venne tolto per cinque mesi. "Cinque mesi!" ha detto stupito il detenuto alla giornalista, "Non so come abbia fatto a sopravvivere".
Benko ammette che a un primo sguardo è difficile credere che Halden, con i suoi 251 detenuti, possa rappresentare un modello per un paese come gli Stati Uniti d'America, dove la media nelle prigioni di massima sicurezza è di 1.300 prigionieri. Anche i numeri totali - 3.800 detenuti in Norvegia, 2,2 milioni di Usa - potrebbero apparire logisticamente e finanziariamente incomparabili, eppure c'è stato un momento in cui gli USA pensarono di adottare un approccio alla giustizia criminale simile a quello norvegese: nella sua "guerra al crimine", il presidente Lyndon B. Johnson nominò una commissione di 19 esperti (President's Commission on Law Enforcement and Administration of Justice, commissione presidenziale sull'applicazione della legge e l'amministrazione della giustizia) perché studiassero, tra le altre cose, le condizioni e le pratiche delle carceri statunitensi, già allora catastroficamente sovrappopolate. La relazione del 1967 che ne risultò, intitolata "The Challenge of Crime in a Free Society" (la sfida del crimine in una società libera), sosteneva che molti penitenziari statunitensi fossero dannosi per la riabilitazione: "La vita in molte carceri è nella migliore delle ipotesi sterile e futile, nella peggiore indicibilmente brutale e degradante. [...]
Le condizioni in cui vivono i detenuti sono la peggiore preparazione possibile alla riuscita del loro reinserimento nella società e spesso semplicemente rinforzano in loro un modello di manipolazione e distruttività". Nelle raccomandazioni, la commissione propose una visione delle carceri molto simile a quella di Halden: "Architettonicamente, la prigione moderna dovrebbe assomigliare il più possibile a un normale ambiente residenziale. Le stanze, ad esempio, dovrebbero avere porte invece che sbarre. I detenuti dovrebbero mangiare seduti a piccoli tavoli in un'atmosfera informale. Ci dovrebbero essere classi, ambienti per il tempo libero, aree diurne e magari un negozio e una biblioteca".
A metà degli anni settanta, il federal Bureau of Prisons (dipartimento federale carcerario) statunitense completò tre carceri di detenzione preventiva progettate secondo i principi della relazione del 1967. I tre Metropolitan Correctional Centers (o MCC, centri correzionali metropolitani) ospitavano gruppi di 44 detenuti in unità autonome, dove ognuna delle celle singole con porte di legno si affacciava su un'area comune, dove i detenuti mangiavano, socializzavano e s'incontravano con visitatori e consulenti, riducendo la necessità di spostamenti al di fuori dell'unità. Tutti i prigionieri passavano l'intera giornata fuori dalle proprie celle, con un solo agente penitenziario privo di armi, in un ambiente finalizzato a diminuire lo stress, dotato di mobili di legno, tavoli all'interno delle celle, bagni di porcellana, lampade a vista, pareti dai colori vivaci, lucernari e pavimenti in moquette.
Quando questi centri aprirono, però, l'atteggiamento pubblico e della politica verso i programmi di riabilitazione nelle prigioni americane era cambiato: tra i responsabili di questo cambio di approccio ci fu Robert Martinson, un ricercatore di sociologia alla City University di New York. In un articolo del 1974 sulla rivista Public Interest, Martinson descrisse uno studio che analizzava l'impatto dei programmi di riabilitazione nei confronti della recidiva di reato sulla base di dati raccolti dal 1945 al 1967.
Nonostante circa la metà dei programmi individuali avessero ottenuto risultati nella riduzione della recidiva, l'articolo di Martinson concludeva che nessun tipo di programma riabilitativo del sistema penitenziario aveva dato esiti soddisfacenti.
Lo studio di Martinson diede materiale alla stampa e ai politici per affermare che "nulla funziona" quando si tratta di riabilitazione dei detenuti. "Non funziona" divenne il titolo di una puntata del programma di attualità 60 Minutes in onda sul canale televisivo CBS, mentre nel 1975 il governatore della California Jerry Brown dichiarò che i programmi di riabilitazione "Non riabilitano, non dissuadono, non puniscono e non proteggono". Uno dei maggiori psichiatri del Bureau of Prisons si dimise, deluso da un atteggiamento che percepiva come l'abbandono dell'impegno alla riabilitazione, mentre nel 1974, alla cerimonia d'inaugurazione del MCC di San Diego, il Procuratore Generale degli Stati Uniti d'America William Saxbe dichiarò che la possibilità per il sistema penitenziario di ottenere la riabilitazione era un "mito", tranne che per i criminali più giovani.
Lo studio di Martinson fu presto contestato: nel 1975 un'analisi degli stessi dati fatta da un altro sociologo criticò la scelta dello studioso di ignorare i risultati positivi, per giungere a una conclusione generale priva di fondamento. Nel 1979, Martinson pubblicò un altro studio che ribaltava esplicitamente le sue conclusioni precedenti, dichiarando che "contrariamente alla mia posizione precedente, alcuni programmi di trattamento hanno un effetto apprezzabile sulla recidiva". Ma oramai la narrativa del "nulla funziona" si era fermamente radicata: nel 1984, una relazione del Senato Usa che proponeva sentenze penali più dure citò lo studio di Martinson del 1974, ignorando completamente il suo cambio di opinione successivo. Le politiche d'intransigenza nei confronti del crimine che furono promosse in seguito dal Congresso e dal governo Usa prevedevano minimi di pena obbligatori, detenzioni più lunghe, normative che autorizzavano processi per i minorenni uguali a quelli degli adulti e il rilascio di detenuti senza programmi di reintegrazione. Tra il 1975 e il 2005, la quota di detenuti negli Stati Uniti d'America è passata da circa 100 ogni 100mila cittadini a quasi 700, uno dei dati più alti nel mondo: nonostante gli statunitensi rappresentino il 4,6 per cento della popolazione mondiale, infatti, le prigioni americane trattengono il 22 per cento dei detenuti di tutto il mondo.
Oggi - scrive Benko - il modello dei MCC è conosciuto come direct supervision (supervisione diretta) e sopravvive in circa 350 strutture, per la maggior parte locali e di detenzione breve, che rappresentano meno del 7 per cento del totale. I dati degli ultimi 40 anni mostrano che queste prigioni hanno livelli di violenza e di recidiva inferiori alla media: alcune di queste strutture, se direttamente comparate con quelle precedenti, hanno visto le violenze ridursi del 90 per cento. Come spiega Benko, però, applicare le statistiche di questo piccolo gruppo di carceri all'intera organizzazione penitenziaria statunitense non ha senso: per potersi avvicinare al sistema norvegese, l'intero atteggiamento nazionale verso la detenzione - a tutti i livelli - dovrebbe cambiare radicalmente.
Non è poi facile valutare esattamente quanto il metodo norvegese funzioni. Per provare ad avere più dati, la giornalista del New York Times Magazine ha incontrato l'antropologo Ragnar Kristoffersen, insegnante all'Accademia del Sistema Penitenziario norvegese, dove si occupa di formare le guardie carcerarie. Kristoffersen ha pubblicato uno studio che compara i tassi di recidiva nei paesi scandinavi: un sondaggio tra i detenuti rilasciati nel 2005 ha mostrato che in Norvegia il tasso di recidiva dopo due anni era del 20 per cento, il più basso della Scandinavia. Per dare un riferimento, una ricerca del 2014 realizzata negli Stati Uniti d'America ha stimato che circa il 68 per cento dei detenuti rilasciati nel 2005 sono stati arrestati per una nuova violazione entro tre anni.
Parlando di Halden, Kristoffersen si è detto disgustato dagli articoli della stampa anglosassone che descrivevano il carcere come un hotel di lusso, ma passando al tema dell'efficacia del "metodo Halden" nei confronti della recidiva si è dimostrato molto cauto, sostenendo che le statistiche non sono abbastanza affidabili per valutare le pratiche detentive in generale.
Da un sistema giudiziario all'altro, infatti, ci possono essere molte differenze nella gestione dei reati: ad esempio, il tipo di sentenze e la loro durata, il genere di crimine o quanto è facile che un soggetto sia rimesso in carcere per una violazione tecnica alla liberazione per buona condotta. A queste differenze, che rendono quasi impossibile comparare i sistemi penali, si aggiunge la diversa definizione di "recidiva" in ciascun paese: alcune nazioni considerano qualunque tipo di arresto come una nuova violazione, altre includono solo i casi che terminano in detenzione, mentre per altre ancora sono rilevanti anche le violazioni della liberazione per buona condotta. Quindi Benko ha provato a comparare le statistiche di Norvegia e Usa utilizzando gli stessi criteri per entrambi i paesi e ha ottenuto un dato di recidiva sorprendentemente simile: 25 per cento in Norvegia, 28,8 per cento negli Stati Uniti d'America.
Ma per Kristoffersen è pressoché impossibile comparare l'efficacia dei programmi di reintegrazione, in particolare quella di Halden: le statistiche di recidiva norvegesi, infatti, sono divise in base alla prigione di rilascio; quasi nessun prigioniero, però, è liberato direttamente da un carcere di massima sicurezza, perciò non esistono dati di recidiva per Halden: "Bisogna fare attenzione perché c'è un tipo di errore logico che capita di frequente quando si parla di queste cose, ma non bisognerebbe mescolare due tipi di principi diversi. Uno è: Come si combatte il crimine? Come si riduce la recidiva? Mentre l'altro è: Quali sono i principi di umanità su cui si vuole basare il proprio sistema? Si tratta di due domande diverse". Riguardano tutta la comunità dei cittadini, ma di volta in volta quelli che sono detenuti oppure gli altri. Kristoffersen ha continuato dicendo: "A noi piace pensare che trattare i detenuti con gentilezza, con umanità contribuisca alla loro riabilitazione. Ma ci sono scarse prove scientifiche a sostenere che trattare le persone con gentilezza le dissuaderà dal commettere nuovi crimini. Molto scarse". Poi ha aggiunto "Però se tratti male le persone, questo si riflette anche su di te".
Kristoffersen ha raccontato a Benko che durante i corsi di formazione, alle guardie carcerarie viene spiegato che trattare i detenuti con umanità è qualcosa che dovrebbero fare non per i detenuti, ma per se stessi. Questa teoria si basa sull'idea che insegnare agli agenti penitenziari a essere duri, violenti e sospettosi avrà conseguenze sulla loro vita, sull'immagine che hanno di se stessi, sulle loro famiglie e persino sui sentimenti e atteggiamenti dell'intera Norvegia. Kristoffersen ha chiuso il suo discorso con una citazione in genere attribuita allo scrittore russo Fëdor Dostoevskij: "Il grado di civiltà di una società può essere valutato entrando in una delle sue prigioni".
Benko scrive di aver sentito la stessa frase poco prima di lasciare il carcere, pronunciata dal direttore di Halden Are Hoidal: che si è detto orgoglioso che le persone vogliano lavorare nella prigione che gestisce e la giornalista conferma che tutti gli addetti di Halden che ha incontrato si sono dichiarati entusiasti di "fare la differenza". "Rendono possibili dei grandi cambiamenti" ha detto Hoidal riferendosi ai dipendenti di Halden. E ha aggiunto: "Ho il miglior lavoro del mondo".
Ansa, 11 aprile 2015
L'ex ministro della Difesa delle Maldive, Tholhath Ibrahim, è stato condannato ieri sera a dieci anni di carcere da un tribunale speciale che ha considerato fondata l'accusa di "terrorismo" rivoltagli dal pubblico ministero. Lo riferisce il portale di notizie VNews. I giudici hanno stabilito la colpevolezza di Tholhath che, in associazione con l'ex presidente Mohamed Nasheed condannato a 13 anni, avrebbe fatto arrestare nel 2012 il giudice Abdulla Mohamed. Il verdetto di colpevolezza, sottolinea VNews, è stato emesso all'unanimità dei tre giudici del tribunale. La condanna dell'ex presidente Nasheed, ribattezzato il "Mandela delle Maldive", è avvenuta al termine di un processo sommario ed ha suscitato critiche a livello locale e internazionale. Alcuni giorni fa il quotidiano maldiviano Haveeru ha riferito che l'avvocato di fama internazionale Amal Alamuddin, moglie dell'attore americano George Clooney, farà parte di un team legale internazionale che difenderà l'ex presidente e leader del Partito democratico delle Maldive (Mdp).
di Carmelo Musumeci
Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2015
"Arrabbiato nell'infelicità, aspetta il giorno che è passato". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com).
Venerdì, 22 maggio 2015, ore 9.30-16.30, nella Casa di Reclusione di Padova ci sarà una Giornata Nazionale di Studi dal titolo "la rabbia e la pazienza". Ed ho deciso di scrivere qualcosa su questi due argomenti, ma più che sulla pazienza preferisco parlare della rabbia perché la conosco meglio.
- "Tutti trasferiti!" E le vite dei detenuti? Chissenefrega
- Giustizia: il reato di tortura e trenta casi simili, contro il populismo penalista del mio Pd
- Giustizia: il dolce (ma letale) racconto del populismo giudiziario e del populismo penale
- Giustizia: approvata la riforma delle misure cautelari, il carcere diventa un'eccezione
- Giustizia: misure cautelari riformate, ma l'efficacia richiede un cambio culturale