di Donatella Di Cesare
Il Corriere della Sera, 11 aprile 2015
La violenza è entrata anche nelle aule di un tribunale - il luogo in cui alla violenza si dovrebbe porre riparo, la sede della giustizia. Un'arma è passata inosservata. Ancora una volta a cadere sono stati civili indifesi; tra questi un magistrato che attendeva al suo dovere. Odio, rabbia, risentimento, disperazione - la violenza ha motivazioni diverse e innumerevoli volti. Escogita nuovi orrori, si avvale di inventiva e astuzia, più spesso di quanto non si creda.
di Beniamino Migliucci (Presidente Ucpi)
Il Garantista, 11 aprile 2015
Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale quella verificatasi ieri nel Palazzo di Giustizia di Milano. L'omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e di vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, ma ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura.
Il Garantista, 11 aprile 2015
Il 70% dei detenuti, circa 16 mila persone, nelle carceri di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e negli istituti penitenziari dell'Azienda sanitaria di Salerno, è affetto da almeno una patologia: soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e dell'apparato digerente. L'11,5% ha una patologia infettiva e parassitaria, l'epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa. Sempre il 70% è fumatore (contro il 23% della media della popolazione generale).
di Lorenzo Misuraca
Il Garantista, 11 aprile 2015
Renzi tiene De Gennaro e spinge sul reato di tortura, e ottiene un risultato che fa ben sperare i tanti che aspettano da molti in Italia, soprattutto le vittime della macellerie del G8 e i familiari dei tanti casi Cucchi avvenuti. Attento com'è alla pancia del paese, dopo la notizia della sentenza della Corte di giustizia europea che ha definito tortura l'irruzione nella scuola Diaz durante il G8, Matteo Renzi prende nota delle difese di ufficio di tanti membri del suo partito e del suo governo nei confronti del capo di Finmeccanica e decide di puntare solo sull'introduzione del reato nell'ordinamento italiano.
di Luca Fazio
Il Manifesto, 11 aprile 2015
Il giorno dopo la strage compiuta da Claudio Giardiello, assemblea straordinaria dell'Anm al Tribunale di Milano. Per il presidente Rodolfo Sabelli "occorre richiamare tutti al diffuso rispetto verso la giustizia". L'omicida, che giovedì ha ucciso tre persone tra cui un giudice, verrà interrogato questa mattina nel carcere di Monza. Anche i magistrati sanno che non c'è alcun rapporto diretto tra la follia omicida di Claudio Giardiello e quel malessere diffuso che gli uomini di legge hanno ugualmente voluto esprimere durante l'assemblea straordinaria dell'Anm di ieri mattina al Tribunale di Milano. Però quegli spari, i tre morti e quell'improvviso senso di vulnerabilità in uno dei luoghi più rappresentativi della politica italiana non possono non assumere una forte valenza simbolica, al di là del pur drammatico fatto di cronaca.
Da più di venti anni quel palazzo cerca di fare da filtro depuratore di una politica che sembrava sul punto di cambiare e invece non è cambiata. La storia, le cronache quotidiane, dicono che la battaglia è stata persa. Deve essere per questo che oggi i magistrati dicono di sentirsi abbandonati. Ovviamente, visto il dramma dell'altro giorno, anche per via della scarsa sicurezza dei luoghi dove lavorano. Sono amareggiati, parlano di clima sfavorevole. "I magistrati non possono essere lasciati soli, bisogna esprimere un sostegno concreto alla magistratura per il lavoro che fa per la giustizia del paese", ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini.
L'assemblea dell'Associazione nazionale magistrati si è aperta con un lunghissimo applauso per il giudice Fernando Ciampi e per le altre due vittime della strage, il socio in affari dell'omicida Giorgio Erba e il giovane avvocato Alberto Claris Appiani. Rodolfo Sabelli, presidente di Anm, è stato il più esplicito: "Siamo qui per chiedere rispetto". Per Sabelli, questa strage "ha un valore simbolico, troppe tensioni e troppa rabbia si raccolgono sulla giustizia. Occorre richiamare tutti al diffuso rispetto verso la giustizia". Il presidente dell'Anm ieri ha rilasciato diverse interviste per spiegare il perché di tanta amarezza.
"Va respinta ogni forma di discredito della giurisdizione, un tema che molto opportunamente è stato richiamato dal capo dello Stato. Un discredito che viene da un dibattito che dura da decenni". Laddove la politica è inadeguata, lascia intendere Sabelli, gli uomini di legge non possono certo fare da parafulmini: "Troppe tensioni si concentrano sulla giustizia e in un'epoca di crisi e di forti tensioni sociali magistrati e avvocati sono particolarmente esposti".
L'Italia, infatti, è piena di uomini disperati come Claudio Giardiello che a torto o a ragione si sentono vittime di una qualche ingiustizia e non riescono più a gestire problemi di natura principalmente economica. Ancora ieri l'omicida avrebbe manifestato tutta la sua rabbia proprio contro i giudici: "Il tribunale mi ha rovinato, quel posto è l'origine di tutti i miei mali" (questa mattina verrà interrogato nel carcere di San Quirico Monza). Il pm gli contesterà l'omicidio plurimo premeditato.
Il problema esiste, un certo allarme sicurezza è giustificato, ma, come ha detto Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello di Milano, "noi non ci sentiamo una fortezza assediata, non vogliamo alzare ponti levatoi ma vogliamo continuare ad aprirci ai cittadini e a una cultura comune". In un momento delicato come questo, Giovanni Canzio ha voluto sottolineare il compito delicato che tocca anche alla magistratura: "Noi abbiamo il dovere di svolgere alcune riflessioni più ampie riguardanti il rapporto tra la crisi dell'economia e la crisi della ragione che determina un carico di tensioni individuali e sociali". Sono soli anche i cittadini, ha detto.
Messo a fuoco il problema, ne rimane un altro: è incredibile che un uomo armato possa entrare in un tribunale, uccidere e scappare. L'Anm adesso chiede un intervento specifico per la sicurezza di tutti i palazzi di giustizia d'Italia. "Non si può lasciare solo chi lavora nella giustizia - ha ribadito il presidente Rodolfo Sabelli - il fatto che queste persone siano state uccise mentre erano al servizio è un fatto grave che deve fare riflettere tutti".
Ieri mattina il dispositivo di sicurezza a Palazzo di Giustizia è stato intensificato, ma senza nessun intervento particolarmente eclatante. Solo controlli più minuziosi e un po' di coda agli ingressi laterali, dove ogni giorno entrano migliaia di persone. Le indagini sono ancora in corso, ma sembra che l'omicida sia entrato da via Manara senza esibire alcun tesserino. Qualche testa cadrà, ma il problema resterà. Spiega una guardia giurata della AllSystem: "Delle due l'una: o si trova il modo di far passare sotto il metal detector tutti quelli che entrano qui, magistrati, avvocati e personale amministrativo, oppure c'è il rischio che episodi come quello di ieri possano succedere ancora, perché i pazzi non sono prevedibili".
da Giunta dell'Unione Camere Penali
www.camerepenali.it, 11 aprile 2015
Il rispetto per quanto accaduto l'altro ieri a Milano si deve a tutti i soggetti della giurisdizione, magistrati e avvocati, e nel caso a tutti coloro i quali sono stati uccisi o feriti, senza distinzione per il ruolo o la funzione esercitata. Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale quella verificatasi ieri nel Palazzo di Giustizia di Milano. Avevamo rilevato che si trattava di un dramma per il quale si doveva esprimere il più profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e che colpiva avvocatura, magistratura e società nel suo complesso. Come bene ha detto il Presidente della Corte di Appello di Milano, Dott. Giovanni Canzio, di fronte a episodi come questo occorre "misurare gesti e parole e non è il tempo per rivendicazioni corporative o sindacali".
La gravità del fatto è chiara ed è attribuibile a una lucida follia, frutto forse della disperazione e di un disagio sociale, che spesso si interseca a una sofferenza di natura psicologica: in questo contesto, sul processo, civile o penale che sia, si scaricano tutte le tensioni e le aspettative sociali, il che rende più vulnerabili i suoi protagonisti, senza nessuna distinzione e, dunque, nel caso, evocare "un clima contro i giudici" è fuorviante e quantomeno inopportuno.
L'omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura.
Ciò, a meno di non voler sostenere incomprensibilmente che introdurre le norme sulla responsabilità civile dei magistrati possa isolare o screditare l'istituzione.
È compito della politica approvare leggi che regolino diritti, libertà e responsabilità di tutti, nessuno escluso.
Il rispetto, dunque, si deve a tutti i soggetti della giurisdizione, magistrati e avvocati, e nel caso a tutti coloro i quali sono stati uccisi o feriti, senza distinzione per il ruolo o la funzione esercitata.
Anche sulle misure di sicurezza nei tribunali va fatta una riflessione oggettiva e depurata da strumentalizzazioni determinate dalla circostanza che l'omicida fosse entrato dal varco dedicato agli avvocati senza un effettivo controllo. Si è subito affermato che le misure di controllo nei confronti degli avvocati non fossero adeguate e che nei confronti degli stessi dovessero essere effettuate in modo più approfondito.
A riguardo è necessario chiarire che gli avvocati sono, al pari dei magistrati, soggetti della giurisdizione che concorrono all'amministrazione della giustizia e che, dunque, non sono ospiti in tribunale, meritano la stessa fiducia e devono sottoporsi agli stessi controlli cui vengono sottoposti magistrati e personale amministrativo. Ci si soffermi piuttosto sulla mancanza di risorse, sulle prassi diverse nei vari uffici giudiziari, sulla mancanza di strumentazione adeguata, di personale che possa garantire, per quanto possibile, l'incolumità di chi deve frequentare le aule di giustizia.
Infine, oltre al cordoglio già espresso nei confronti di tutte le vittime, il ricordo di un giovane avvocato freddato a colpi di pistola esclusivamente per aver svolto la sua professione con dedizione, rispetto delle regole e amore per la toga: gli stessi che l'avvocato che assisterà l'omicida riserverà a chi ha commesso un crimine che ha suscitato un così profondo dolore. Allo stesso modo, i giudici che saranno chiamati a valutare la sua condotta, riserveranno nel processo lo stesso equilibrio che è insito nella loro funzione, valorizzando i principi di giustizia che costituiscono un patrimonio comune e fondamento di una società liberale e democratica.
di Carlo Lania
Il Manifesto, 11 aprile 2015
Senatore Felice Casson, da magistrato passato alla politica ritiene che quanto accaduto a Milano possa essere inserito in quel clima di delegittimazione della magistratura che c'è da tempo?
"Non in senso stretto. Certamente il fatto di delegittimare una persona o una categoria, ma non solo la magistratura, indebolisce comunque quella figura o quell'organismo, però collegare direttamente l'episodio con il clima di polemiche e di attacchi che ci sono stati mi sembra un po' esagerato. Si tratta di una vicenda molto specifica, di una situazione drammatica come ce ne sono tante nel nostro Paese che però, fortunatamente, soltanto molto di rado terminano in episodi violenti di questo tipo".
I tribunali, e in modo particolare quelli fallimentari, con l'aggravarsi della crisi si sono trovati a far fronte a una numero sempre maggior di situazioni di bancarotta come quella che stava giudicando ieri...
"Purtroppo situazioni di questo tipo si verificano sempre di più e con reazioni diversificate: ci sono casi di violenza su se stessi e purtroppo un aumento piuttosto consistente di casi di imprenditori che si ammazzano. In questo caso si è avuto l'effetto contrario, cioè della violenza rivolta contro l'esterno, verso quello che rappresentava un simbolo, al di là di ogni responsabilità. D'altra parte situazioni di crisi, economica o lavorativa conducono sempre più spesso a fenomeni di lesionismo o di autolesionismo, anche tra i lavoratori".
Il presidente Mattarella ha voluto comunque ricordare l'opera di svalutazione del ruolo della magistratura.
"Per carità questo deve essere fatto e ci mancherebbe altro. Però bisogna anche stare attenti a non creare tensioni ulteriori rispetto a quelle già esistenti. Ma al di là di questi casi violenti ai singoli, fa male alle istituzioni, al prestigi delle istituzioni e al modo di lavorarvi all'interno".
C'è secondo lei una voglia di vendetta nei confronti della magistratura?
"Da una certa parte della politica certamente sì e ce ne rendiamo conto in qualche caso anche all'interno del parlamento. Basta sentire alcuni interventi che ci sono stati anche di recente in Senato, quando si è parlato di misure sulla giustizia. C'è una sensazione, una voglia quasi di vendicarsi e comunque di mettere la magistratura sotto un controllo più stretto. Però io non vorrei ricollegare tutto questo con l'episodio di violenza accaduto a Milano".
Immagino che il suo riferimento sia alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati.
"Sì ma non solo. Al di là della legge specifica, anche nelle discussioni generali, come successo di recente sempre in Senato discutendo ad esempio in materia di custodia cautelare, o comunque quando si parla di misure sulla giustizia: ci sono sempre degli attacchi sconsiderati o comunque gratuiti e offensivi nei confronti della magistratura che non portano da nessuna parte".
Si parla di sicurezza nei tribunali, di aumento delle misure di controllo. Alla fine i palazzi di giustizia diventano delle specie di fortezze. Le sembra logico tutto questo? In fondo nei tribunali si esercita la giustizia.
"Questo è vero, però non funziona così nella realtà. Mi ricordo che anche quando nell'agosto del 2001 è stata messa una bomba nel tribunale di Rialto e io ero di turno antiterrorismo, chi lo ha fatto ha potuto agire perché i due carabinieri che erano di vigilanza durante la notte dormivano invece di fare il loro lavoro. La vigilanza ci deve essere e deve essere fatta in maniera seria. Purtroppo questo non succede come dimostrano alcune trasmissioni televisive dove è possibile vedere come all'interno del palazzo di giustizia sostanzialmente entra chi vuole e fa quello che vuole. Poi sono d'accordo con lei, non dovrebbe essere così, ma purtroppo i tribunali diventano il centro di smistamento di conflitti e di scontri a volte di natura economica, a volte di natura familiare o addirittura degli scontri sociali".
di Maria Elena Vincenzi
La Repubblica, 11 aprile 2015
"Valido l'impianto accusatorio della procura": il reato è il 416 bis. Per la Suprema Corte la Cupola romana deve restare in carcere. Respinto il ricorso degli uomini di Carminati: Buzzi, Odevaine e Panzironi. Non è stata solo corruzione, come sostenevano le difese.
Mafia Capitale è mafia. Così ha stabilito la Cassazione, chiamata a decidere sull'arresto di alcuni indagati finiti in carcere il 2 dicembre scorso durante il mega blitz dei carabinieri del Ros. Restano dunque dietro alle sbarre il ras delle cooperative, Salvatore Buzzi, considerato il braccio finanziario di Massimo Carminati (che aveva rinunciato al ricorso); l'ex comandante della polizia provinciale ed ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, Luca Odevaine; e l'ex ad di Ama, Franco Panzironi.
Per loro e per altri 16 indagati, la Suprema Corte ha confermato le misure cautelari disposte dal gip. Un successo, dopo il primo incassato al tribunale del Riesame, per la procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, che sin dall'inizio aveva ritenuto il clan del "Cecato" un gruppo mafioso. Diverso da quelli della criminalità organizzata classica, ma comunque da 416bis. E gli ermellini sono stati d'accordo. Solo per uno degli indagati, Giovanni De Carlo, non ha retto l'aggravante: l'ex delfino di Carminati è dunque tornato in libertà.
Dopo una camera di consiglio durata circa quattro ore, la Sesta sezione penale della Suprema Corte, presieduta da Stefano Agrò, ha "promosso" la solidità degli indizi raccolti dai pm antimafia di Roma Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli coordinati dall'aggiunto Michele Prestipino, e ha respinto il tentativo, portato avanti dagli avvocati, di far "derubricare" le accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso in quelle di associazione a delinquere semplice. E i giudici non sono stati i soli: già il sostituto procuratore generale, Luigi Riello, aveva bollato i ricorsi erano come inammissibili.
Così come era stato per il gip di Roma, Flavia Costantini, e per il tribunale del Riesame, anche la Cassazione ha confermato il lavoro della procura e dei carabinieri del Ros, convinti che ci fosse una "cupola" di soggetti che, sfruttando la forza intimidatrice da un lato e quella della corruzione dall'altro (grazie a una serie di pubblici funzionari a libro paga del clan), avevano messo le mani sul sistema di appalti capitolino del settore sociale e in quello dei rifiuti.
E non solo: le migliaia di pagine di informative depositate in procura dagli investigatori dell'Arma hanno dimostrato come gli appetiti del gruppo si allargassero giorno dopo giorno. "Ho contestato soprattutto l'accusa di associazione mafiosa - ha detto l'avvocato Alessandro Diddi, difensore di Buzzi - perché dal materiale di indagine non risulta un solo atto del mio assistito, o di Carminati, che sia stato compiuto con intimidazione.
Possiamo parlare della corruzione, cosa che comunque è da provare e per la quale ci sono delle spiegazioni, ma non di mafia". Era stata questa la linea sostenuta anche durante gli interrogatori con i pubblici ministeri e davanti ai giudici della Libertà. "Il Pg Riello invece - ha proseguito Diddi - ha condiviso completamente i contenuti dell'ordinanza cautelare e ha ritenuto esistenti gli indizi dell'associazione mafiosa". L'avvocato, come gli altri legali, aveva l'obiettivo dichiarato di "smontare" l'accusa associativa.
Sapevano i difensori e sapeva la procura che quello era il nodo centrale di tutta la questione, era il gol che avrebbe deciso, almeno per ora, la partita. Se infatti l'aggravante mafiosa non avesse retto, Un obiettivo che se raggiunto avrebbe consentito agli indagati in carcere, per prima cosa di essere detenuti a Roma, vicino alle famiglie e ai difensori, e, in vista del processo, di ottenere - successivamente - un rinvio a giudizio per un'accusa meno grave e che contempla condanne più leggere. Tra circa un mese saranno depositate le motivazioni del verdetto della Suprema Corte.
www.vociglobali.it, 11 aprile 2015
(Traduzione a cura di Giorgio Guzzetta dall'articolo originale di Nik Williams pubblicato su openDemocracy). Il panopticon di Jeremy Bentham è la soluzione più efficace per il controllo disciplinare indiretto. I detenuti possono essere osservati in qualsiasi momento e dovunque si trovino, da una torre panoramica situata al centro della struttura carceraria.
Non potendo vedere cosa succede dentro la torre, i detenuti si sentono sempre osservati, pur non potendo avere la certezza della presenza delle guardie. La possibilità di una sorveglianza continua basta da sola per spaventare, vincolare e infine modificare il comportamento.
Nell'era digitale la sorveglianza è meno esplicita, ma i risultati sono ugualmente allarmanti. Le rivelazioni di Edward Snowden hanno evidenziato la capacità di NSA e GCHQ di raccogliere dati da diverse piattaforme digitali, e anche il loro tentativo di essere esaustivi, il loro voler 'raccogliere tutto'. Questo ha portato alla luce un sistema che, a causa della sua onnipresenza, è in grado di prendere di mira chiunque, a prescindere da dove si trovi, dalla sua nazionalità o dalla sua colpevolezza, vera o presunta che sia. In questo situazione i giornalisti hanno poche possibilità di fare ricerche e di porre domande senza paura di essere spiati.
I pericoli della sorveglianza di massa non esistono solo quando si è consapevoli di essere osservati. Probabilmente non c'è modo di sapere che siamo spiati, ma questo significa anche che non c'è modo di sapere che non lo siamo.
"Se senti che qualcuno ti sta guardando, moltissime sono le cose che non fai. [Non sarai] in grado di utilizzare strumenti e strutture a causa di una paura che non ha nome" sostiene Sir Tim Berners-Lee, creatore del World Wide Web. Questa paura indefinibile di cui lui parla è simile a quella auspicata da Bentham - una tensione invisibile ma tangibile che può disturbare o modificare le azioni altrui, senza essere realmente presente.
Questo legame tra la sorveglianza di massa e l'auto-censura emerge in maniera molto chiara dal rapporto Global Chilling, redatto nel 2014 da Pen International. Attraverso 772 interviste a scrittori e saggisti di tutto il mondo, l'associazione ha denunciato un crescente disagio causato dalla sorveglianza di massa e un corrispondente mutamento nel modo di vedere e nel comportamento. Adottando le categorie utilizzate da Freedom House, il sondaggio rivela che, nei Paesi liberi, almeno uno scrittore su tre (34 %) afferma di aver rinunciato a scrivere o parlare su argomenti scottanti, dopo le rivelazioni di Snowden. Inoltre il rapporto prosegue affermando che "i livelli di auto-censura riferiti da scrittori che vivono nei Paesi democratici si stanno avvicinando a quelli di autori che vivono in Paesi autoritari o semi-democratici".
Anche se, diversamente da forme di controllo attivo sulla libertà di stampa, come per esempio la censura e le proibizioni messe in atto dalla Cina, dalla Corea del Nord e dall'Iran, l'auto-censura è una forma di controllo passivo - nessuno Stato ha attivamente impedito a questi scrittori di scrivere su quei temi, il risultato rimane lo stesso: il controllo e la limitazione di ciò che viene detto. Oltretutto, mentre il controllo attivo è oneroso dal punto di vista delle risorse impiegate, il controllo passivo generato dalla minaccia di una sorveglianza continua e onnipresente è molto meno dispendioso e molto più efficiente a livello di rapporto costi-benefici. Allora perché censurare in modo esplicito, quando si possono spingere i giornalisti a definire i propri limiti? Come scrive Peggy Noonan, "il risultato inevitabile della sorveglianza è l'auto-censura".
Avendo un impatto diretto sulla libertà dei media e la libertà di espressione, l'atto di autocensura limita inoltre la ricchezza e la varietà delle notizie che arrivano al pubblico. Suzanne Nossel, direttore esecutivo del Pen Center americano, ha dichiarato nel suo editoriale per la CNN: argomenti che risultano estranei, fuori dal comune o che fanno paura, lo diventeranno ancora di più se i giornalisti e anche gli studenti hanno paura di indagare e spiegare.
Gli effetti di queste preoccupazioni si avvertono in ogni fase del processo, dalle indagini dei giornalisti fino alla lettura di queste da parte del grande pubblico. L'acquisizione continua e la manipolazione di metadati sulle nostre comunicazioni (al di là di questioni di contenuto) mette a rischio anche la possibilità dei media di incontrare e proteggere le fonti. Jillian York della Electronic Frontier Foundation afferma che "Il pericolo dei metadati è che permette di sorvegliare e tracciare i nostri spostamenti, i nostri network e le nostre attività, costringendoci a riflettere attentamente prima di contattare un certo gruppo o individuo." Fornendo un resoconto delle proprie scelte, l'onnipresente sorveglianza di massa trasforma l'atto di comunicare nel gesto più pericoloso di tutti.
Secondo il rapporto di Pen International, il 26 % degli scrittori che vivono in Paesi democratici e liberi afferma di aver preferito non fare ricerche su Internet o visitare siti web su argomenti che possono essere considerati controversi o sospetti. Volendo capire come si costruiva una bomba all'anidride carbonica dopo un fallito attentato all'aeroporto di Los Angeles, Peter Galison, giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha dovuto combattere con la sua paranoia per decidere se fare o meno una ricerca in Rete. Raccontando il suo dilemma, ha descritto molto bene il problema dei giornalista che lavorano nell'età della sorveglianza: "il solo fatto di sapere che le parole chiave che avrei dovuto usare potevo farmi finire sotto sorveglianza è stato sufficiente a farmi esitare."
Il vero impatto della sorveglianza di massa sulla libertà dei media è dato proprio da questi momenti di esitazione. Ogni rinuncia ci farà perdere qualcosa, qualcosa sarà raccontato male, una possibilità di creare un dibattito più consapevole scomparirà. Per usare le parole di Philippe Val, ex direttore di Charlie Hebdo, "Che cosa minaccia di più la democrazia? Il Silenzio".
di Giuseppe Galzerano
Il Manifesto, 11 aprile 2015
In Corte d'appello la vicenda del "maestro più alto del mondo", rimasto legato per 83 ore al letto senza cibo né acqua. 6 medici e 12 infermieri alla sbarra. Con semplicità e toni pacati ma determinati il procuratore generale della Corte d'appello di Salerno, Elio Fioretti, ha chiesto un inasprimento delle condanne ai sei medici e dodici infermieri responsabili della morte di Francesco Mastrogiovanni, il "maestro più alto del mondo", come lo avevano soprannominato i suoi alunni, legato ininterrottamente ai quattro arti per 83 ore nell'ospedale di Vallo della Lucania (Sa). Al termine della lunga e articolata requisitoria (due ore) ha formulato la richiesta di 5 anni e 4 mesi per i medici Michele Di Genio, Rocco Barone e Raffaele Basso, che erano stati condannati rispettivamente a 3 anni e 6 mesi e 4 anni; per Anna Angela Ruberto 4 anni e 8 mesi (condannata a 3 anni) e per Amerigo Mazza e Michele Della Pepa 4 anni e 4 mesi, (condannati a 3 e 2 anni). Alla richiesta del raddoppio della pena Della Pepa e Ruberto, unici presenti in aula, sobbalzano dalle sedie. Una pesante richiesta anche per gli infermieri (presenti solo in 5): assolti nella sentenza del 30 ottobre 2012, Fioretti chiede per otto di loro 4 anni e 8 mesi e per altri tre 4 anni.
"I fatti accaduti nell'ospedale di Vallo della Lucania - ha esordito il procuratore - rappresentano un grave caso di malasanità e di cattiva gestione della cosa pubblica". Fioretti ha ricostruito con cura la vicenda di Francesco Mastrogiovanni, legato senza alcuna ragione per quattro giorni a un letto, senza cure, senza cibo né acqua, senza consentire ai familiari di vederlo. Un incredibile sequestro di persona che non è avvenuto nel medioevo, ma nell'estate del 2009. E la conseguenza naturale dell'atroce e inumano trattamento è stata, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, la morte del paziente, scoperta incredibilmente con sei ore di ritardo.
Fioretti ha detto che la tortura, invece della cura dei pazienti era prassi normale. Ha parlato di condizioni agghiaccianti, ripugnanti e terribili emerse anche dalle testimonianze degli altri pazienti. "Il mio compito è semplice perché esiste un video, consultabile anche su internet, in cui l'inaudita e illecita violenza consumata ai danni di Mastrogiovanni è di tutta evidenza, in quanto né i medici né gli infermieri hanno garantito la corretta applicazione delle norme, perché una persona ricoverata dev'essere curata e assistita. Invece lui è stato sottoposto a una contenzione che non era affatto necessaria, senza annotazione, illegittima e fuori da ogni regola, in quanto Mastrogiovanni - come testimonia il video - era tranquillissimo". Fioretti accusa: "Tutti gli imputati non avevano nessuna intenzione di curare il paziente, hanno fatto il minimo tenendo a letto una persona legata mani e piedi. Non meritano nessuna attenuante perché hanno violato i loro doveri professionali e di umanità". Il procuratore ha sottolineato che Mastrogiovanni non è stato contenuto perché violento, come è stato detto, ma solo perché si oppose al prelievo del sangue richiesto dai carabinieri per accertare l'eventuale uso di droga. Era invece finito in ospedale per un illecito "T.S.O." e, inascoltato, aveva invano e profeticamente supplicato: "Non fatemi portare all'ospedale di Vallo perché là mi ammazzano!".
Il caso di Mastrogiovanni, sottoposto a una lunga, gratuita, inaudita, immeritata e degradante tortura, è l'unico al mondo ad avere un'inoppugnabile documentazione video, in cui è possibile seguirlo minuto dopo minuto. Una documentazione che è particolarmente utile proprio in questi giorni in cui, dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte Europea, si discute timidamente d'introdurre nella nostra legislatura il reato di tortura. La prossima udienza il 15 maggio. La sentenza è prevista per il 18 settembre.
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