di Susanna Ripamonti (Direttrice di "Carte Bollate", giornale della Casa di Reclusione di Milano Bollate)
Ristretti Orizzonti, 30 marzo 2015
In occasione di Expo, Carte Bollate perde la "c" e diventa "(c)artebollate" catalogo delle mostre e delle iniziative che si terranno nella seconda casa di reclusione milanese durante i sei mesi dell'esposizione universale. In quest'ultimo anno gli ospiti del carcere hanno visto crescere (con preoccupante lentezza) il cantiere di Expo, che sorge proprio di fronte all'istituto, dall'altra parte della strada. Da questa vicinanza è nata l'idea di "jail Expo".
Questo catalogo vi racconta le mostre, organizzate con l'Accademia di Brera e con Fabbrica Borroni e che hanno coinvolto i detenuti per realizzare pannelli che avvolgeranno letteralmente il carcere. Altre mostre saranno all'interno, compresa la magica installazione realizzata da Studio Azzurro tra i detenuti di Bollate, per la Biennale di Venezia, e che ora torna a casa: figure interattive, che dialogano con il pubblico, animandosi al contatto.
La parte centrale del catalogo racconta ai visitatori, che in questi sei mesi potranno entrare in carcere tutti i venerdì, che cos'è questo penitenziario e in cosa si differenzia dalle altre caceri.
Infine una terza sezione, è dedicata a quelli che a Bollate fanno la differenza: cooperative e associazioni di volontariato che i visitatori potranno conoscere in occasione delle visite. In tutti i primi venerdì del mese si terranno dei mercatini nelle aree adibite ai "passeggi" per vedere e comprare ciò che in carcere si produce. Jail Expo inizia venerdì 8 maggio con le prime visite guidate, mercatini e aperitivi.
di Alessio Schiesari
Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015
Rovigo. Viaggio nel centro del ministero dell'agricoltura, uno dei più avanzati del mondo. Qui si selezionano le migliori specie di cannabinoidi che saranno utilizzate per scopi terapeutici.
Visto da fuori sembra un istituto tecnico per l'agricoltura: quattro file di persiane rosse, due piccole serre e le papere che attraversano il vialetto pedonale. L'unico indizio per capire che in questo edificio c'è la più avanzata piantagione di cannabis d'Europa è il grande cartello bianco che campeggia sul portone di ingresso: "Area videosorvegliata". Siamo al Cra-Cin di Rovigo, Centro di ricerca per le colture industriali. Un chilometro più a sud c'è la stazione dei treni del capoluogo, poco più a ovest l'autostrada. All'interno, oltre cinquecento piante di cannabis di un centinaio di varietà differenti. Qui, lo scorso 20 marzo, un furgoncino dell'Esercito ha prelevato le prime 80 piante destinate allo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze dove sta partendo la prima produzione italiana di cannabis a scopo terapeutico. Ma quello che si produce in Toscana è stato studiato, selezionato e coltivato a Rovigo. "Qui abbiamo gli ingegneri che da anni progettano un'automobile, a Firenze è sorta la prima fabbrica", spiega un funzionario del ministero dell'Agricoltura.
Quelle piante clonate
Nelle quattro stanze adibite alla coltivazione le finestre sono sbarrate, ma la luce è intensa e l'odore inconfondibile. La filiera comincia con un cubetto di lana di roccia poco più grande di un dado: qui vengono impiantate le talee, piccoli rami di cannabis che metteranno radici fino a diventare autosufficienti. Per assicurare la stabilità genetica necessaria alla produzione farmaceutica, le piante non seguono il ciclo di riproduzione naturale, ma vengono clonate. I "segreti" per una produzione perfettamente standardizzata, requisito fondamentale per un prodotto farmaceutico, sono un ambiente sterile, 18 ore di luce al giorno, temperatura e umidità costanti. Solo così si riescono ad assicurare fino a quattro cicli di produzione all'anno, equivalenti a un raccolto di 150 grammi per pianta. L'obiettivo è massimizzare la resa con il minimo sforzo, benché quasi tutti gli strumenti utilizzati si possano reperire in un negozio Leroy Merlin e altri siano addirittura artigianali, come le mezze bottiglie di plastica che coprono le piante per mantenere alta l'umidità. La sensazione di essere in un laboratorio professionale sorge solo guardando i dodici armadi in plastica riflettente: servono a capire quale sia la luce migliore per la crescita. Ognuno contiene una pianta e una lampada diversa: blu, rossa, al neon e una al led capace di produrre tanta luce quanto il sole, ma senza calore. Un campione di ogni produzione viene portato al piano inferiore, dove viene testato il contenuto di cannabinoidi.
Il risultato è una linea ondulata simile a un encefalogramma: l'ampiezza di picchi e curve decreterà qual è la cannabis "giusta" per alleviare il dolore, quale quella per ridurre gli spasmi muscolari. Dimenticatevi i nomi pittoreschi e un po' hippie sui menu dei coffee shop di Amseterdam: qui non si produce nessuna vedova bianca, bubblegum o grandine viola.
La varietà destinata a Firenze, quella che combina nel giusto gradiente i due principi attivi curativi (il Thc responsabile dello sballo e il Cbd), si chiamerà CinRo: Colture industriali di Rovigo. Seguiranno per altre patologie il CinBo e il CinFe, in omaggio a Bologna e Ferrara. A selezionare ogni varietà, dopo una sperimentazione che dura più anni, è il primo ricercatore Giampaolo Grassi. Anche lui, come i nomi della "sua" cannabis, non tradisce alcuna fascinazione fricchettona: giacca blu, camicia e un marcato accento ferrarese. Eppure è stato lui, da quando nel 2002 ha cominciato a condurre la sede di Rovigo, a introdurre la prima coltivazione per fini di ricerca della cannabis in Italia. In realtà si tratta di una coltura di ritorno: "Da piccolo passavo le giornate a giocare tra le piante di canapa da fibra".
Canapa, eravamo secondi al mondo
Prima di Grassi a Rovigo si studiava solo la barbabietola da zucchero, la pianta che nell'Ottocento aveva portato le prime industrie in Romagna e nel basso Veneto, ma oramai in declino. Proprio la barbabietola aveva soppiantato la secolare produzione di canapa da fibra (della stessa famiglia dell'indica, quella psicotropa, ma senza Thc) di cui l'Italia era la seconda produttrice al mondo e che veniva impiegata per costruire le vele delle navi. Tra le peculiarità del centro c'è una banca del seme con oltre 300 varietà e 2 mila incroci. "Ogni volta che un amico va a fare un viaggio all'estero me ne porta uno. È legale perché non contengono Thc".
I centri come questo nel mondo si possono contare sulle dita di una mano. Per questo, quando l'industria farmaceutica inglese GW inizia a sperimentare i primi farmaci a base di cannabis, il suo ricercatore va a confrontarsi con Grassi. E lo stesso hanno provato a fare il governo uruguagio e i produttori del Colorado dopo le legalizzazioni. Eppure, nessuna delle varietà isolate a Rovigo è stata "brevettata".
La ragione? Burocratica: "Per legge non possiamo trasportare il materiale fino alla sede olandese", dove ne verrebbe riconosciuta l'unicità. Si è deciso di produrre cannabis a Firenze perché l'Olanda, unico paese autorizzato a esportare, è rimasta a corto della principale varietà usata per scopi medici, il Bedrocan. I fondatori dell'azienda omonima hanno iniziato rifornendo i coffee shop. Oltre a sopperire in modo costante alla domanda, quando entro fine anno la produzione a Firenze sarà a regime si potranno produrre un quintale di inflorescenze l'anno.
Nel 2014 sono stati importati in Italia "solamente" 25 chili, ma la lista dei pazienti in attesa è lunga e la domanda crescita. Anche sul fronte economico si prospettano risparmi che giustificheranno il milione di euro investito nello stabilimento fiorentino. Oggi un paziente curato con il Sativex - l'unico farmaco a base di cannabinoidi in commercio - spende 726 euro al mese rimborsati dal servizio sanitario nazionale.
I residenti nelle undici regioni italiane che hanno recepito il decreto Balduzzi del 2013, dove è quindi possibile curarsi con i fiori di cannabis, spendono 15 euro al grammo nelle farmacie ospedaliere. Se, come spesso accade, il prodotto non è disponibile, possono rivolgersi alle farmacie private, dove però il prezzo sale, per un'imposizione di legge, fino a 35-40 euro al grammo. "Con la produzione in Italia abbiamo previsto significativi risparmi", fa sapere l'Agenzia industrie difesa che gestisce l'impianto fiorentino.
"Contiamo di dimezzare i costi al grammo", gli fa eco l'Ufficio centrale stupefacenti. Per risparmiare però basterebbe migliorare la somministrazione. "Conosco malati pugliesi che assumono 4 grammi al giorno perché nessuno ha loro spiegato come preparare il decotto necessario ad assimilarla. Ai miei pazienti bastano 30 milligrammi, meno dell'1%", spiega Paolo Poli, primario dell'Unità di terapia del dolore dell'ospedale di Pisa. Nonostante inizialmente fosse "molto scettico", oggi tratta con cannabis oltre 500 pazienti affetti da varie patologie: cefalee, fibromialgia, sla, malattie reumatiche.
La lista di problemi è però lunga: farmacie ospedaliere che non pre-dosano il prodotto costringendo i pazienti a prenderlo a cucchiaini, medici di base che non sanno di poterla somministrare e tempi di attesa medi di sei mesi. Per risolvere queste difficoltà il governo ha scelto Firenze. Ma dove finisce la cannabis di Rovigo? Gli 80 chili prodotti negli ultimi mesi sono stivati dietro una porta blindata dentro a dei sacchi neri.
La legge sugli stupefacenti 309/90 darebbe la possibilità al ministero della Salute di cedere le giacenze a farmacie e centri di ricerca, ma non è mai stato fatto. Negli ultimi due anni si è preferito spendere 600 mila euro per importare 43 chili di cannabis dall'Olanda. Tra un paio di settimane un camion per trasporti speciali, di quelli usati per esplosivi e materiale radioattivo, andrà a ritirare i sacchi e li porterà all'inceneritore. Ad accompagnarlo, oltre a Grassi, ci saranno due finanzieri: la legge impone che assistano personalmente alla distruzione. E mentre il raccolto di Rovigo andrà in fumo, migliaia di pazienti continueranno ad aspettare che lo stabilimento di Firenze entri a regime.
di Lorenzo Tosa
Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015
C'è chi la fuma alla sera per rilassarsi e chi per alleviare il dolore. Chi la equipara alle droghe pesanti e chi, invece, vorrebbe legalizzarla. Quando si parla di cannabis, la verità oggettiva tende a sciogliersi come "fumo" scaldato, per lasciare spazio a partiti, ideologie, schiere di tifosi. Eppure esiste un'ampia letteratura scientifica su una sostanza antichissima, le cui prime tracce risalgono addirittura al Neolitico.
A cominciare da un dato. In Italia il 32,1% delle persone tra i 15 e i 64 anni ha fatto uso di cannabis almeno una volta nella vita (dati Emcdda), mentre cresce il consumo tra i giovanissimi: 1 su 4 sotto i 19 anni fuma regolarmente spinelli, secondo l'ultima relazione parlamentare sulle tossicodipendenze. Chissà, forse anche perché - secondo gli esperti - i produttori avrebbero cominciato a tagliarla con sostanze che favoriscono la dipendenza. Molti la fumano, ma in pochi conoscono fino in fondo i suoi effetti tossicologici e comportamentali. "Le prime sensazioni che si manifestano sono di euforia, divertimento, senso di rilassatezza - anche se a volte possono essere accompagnate da senso di nausea e vomito, tachicardia, aumento di fame e sete.
E, in casi estremi, attacchi di panico, specie con i cannabinoidi sintetici". Edoardo Polidori, direttore del Servizio tossicodipendenze dell'Usl di Forlì, descrive così il primo approccio con la sostanza, che deve la propria fama al suo maggiore principio attivo: il delta- 9-tetraidrocannabi - nolo, meglio conosciuto come Thc. "Si ritrova per il 5-6% nelle foglie di marijuana e, in dosi decisamente più concentrate, nella resina o hashish, dove sfiora il 20%, aumentando il rischio di reazioni psichiche negative" precisa Rinaldo Canepa, medico del Sert di Genova, specialista in tossicologia.
Tra queste, le più diffuse sono una minore capacità di concentrazione e una riduzione della memoria a breve termine. Gli effetti psicoattivi della canapa scompaiono nel giro di qualche ora, ma le tracce nell'organismo possono rimanere anche per due-tre settimane. Ma quali sono i rischi per chi fa uso di questa sostanza? I fattori in gioco sono tanti, dalla frequenza degli spinelli all'età e allo stato di salute del consumatore.
"Dal punto di vista medico, fumare una canna al mese a 40 o 50 anni non comporta alcun rischio particolare - assicura Polidori - Le cose si complicano se a farlo è un ragazzino di 13 o 14 anni, il cui equilibrio psichico è fragile e in costruzione e può andare incontro anche a episodi di psicosi".
Ma - come sottolinea Canepa - "Ad oggi non sono stati riscontrati rapporti diretti tra l'uso di cannabinoidi e l'insorgere di malattie particolari". Di più, gli fa eco Polidori. "Non esiste alcun caso di morte accertata per uso di cannabis, a differenza di quanto avviene per sostanze legali come alcool e nicotina". Anche in virtù di questi dati, negli ultimi anni il confine tra droga e farmaco è diventato sempre più sottile. Se in Italia l'uso terapeutico della cannabis è legale dal 1997, dall'anno scorso l'accesso ai farmaci è diventato più semplice grazie a un decreto legge applicato in numerose regioni italiane. Ma la comunità scientifica resta divisa.
Per Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, "ben venga, se serve per alleviare i sintomi dei pazienti, anche se oggi non ci sono abbastanza prove per attestare che i benefici siano superiori agli effetti tossici". Studi definitivi ancora non ce ne sono, in un Paese che paga dazio a un ritardo culturale sull'argomento.
"La battaglia più difficile - spiega Polidori - è sradicare il pregiudizio nella testa delle persone, di fronte a una sostanza che ha dimostrato di essere efficace contro il glaucoma, oltre a un potente stimolatore dell'appetito per malati in stato terminale". E ricerche più recenti si sono concentrate sui suoi possibili benefici nella cura dell'Alzheimer e come anti-spastico per i casi di Sla.
Mentre molte regioni stanno aprendo all'uso medico della canapa e in Parlamento è pronta una proposta di legge per la sua legalizzazione, un compromesso, secondo Canepa, è possibile solo sgombrando il campo da ogni tipo di questione ideologica o commerciale. "L'atteggiamento di certi sostenitori fanatici rischia di far perdere di vista le vere proprietà del farmaco, che richiedono un approccio scientifico". L'ultima parola spetta ai medici, perché anche il dibattito sulla cannabis non si riduca all'ennesima battaglia ideologica tra opposte fazioni.
di Lorenzo Galeazzi e Alessandro Madron
Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015
"Basta sprecare soldi nella lotta alla droga". L'appello arriva da Olivier Gueniat, tutt'altro che un bizzarro antiproibizionista, uno sbirro. È il capo della polizia di Neuchatel, capitale dell'omonimo cantone della Svizzera francese, "cittadina da 35mila anime dove si fumano 3.000 canne al giorno".
Sarà anche per questo che il governo federale ha deciso di inviarlo in Uruguay a studiare la marijuana di stato dell'ex presidente Pepe Mujica e in Sudamerica ha trovato le conferme che cercava: si può fare anche a nord delle Alpi, a patto però di un ferreo controllo statale dalla produzione al consumo, "un modello lontano anni luce da quello del Colorado che ha trasformato il mercato nero in grigio".
Così sarà Montevideo e non Denver a ispirare Ginevra e il suo progetto di apertura sperimentale dei cannabis social club atteso entro il 2015. Gueniat insegna criminologia all'Università di Losanna, sulla sponda opposta del lago Leman, e dati alla mano snocciola le cifre di un fallimento: "Ogni anno 17mila poliziotti denunciano 98mila consumatori e presunti spacciatori. Spendiamo mezzo miliardo di franchi, sfiliamo a ogni cittadino 70 euro che potrebbero essere investiti altrove, come nella prevenzione".
Ma problema sono i risultati: "L'offerta di stupefacente è così estesa da non essere intaccata dalla nostra attività di polizia e la domanda di droga non accenna a diminuire". Tanto basta per provare a invertire la rotta, ma in sordina perché, anche se sono passati dieci anni, il ricordo della disastrosa esperienza del Ticino e dei suoi deodoranti speciali per cassetti è ancora vivo nella mente di poliziotti e investigatori. "Grazie a un trucco, per circa sei anni, il cantone italiano si è trasformato in una piccola Giamaica a 50 chilometri da Milano a disposizione di narcotrafficanti e ragazzini sballati", ricorda Gueniat.
Al netto di qualche scivolone va precisato che la Svizzera, al contrario dell'Italia, ha sempre svolto un ruolo da pioniere in materia di politiche sulla droga. Nel 1986, è stato il primo paese a inaugurare spazi speciali per i tossicodipendenti, le cosiddette "stanze del buco", e nel 1994 ha introdotto la prescrizione medica di eroina. Anche le pene per i consumatori di cannabis sono lievi: 100 franchi, la stessa ammenda di chi viene sorpreso viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto.
Oltre a essere dirigente di polizia e docente, Gueniat siede nella Commissione globale per le politiche sulle droghe, quella che, se andrà a buon fine l'esperimento di Ginevra, proverà a formulare una legge federale che riunirà i 26 cantoni. Insieme a lui c'è Ruth Dreifuss, anziana leader socialista più volte ministro ed ex presidente della Repubblica. In passato è stata una delle principali ispiratrici delle rivoluzionarie politiche sulle droghe al punto di guadagnarsi il nomignolo di "spacciatrice della nazione".
Ma lei tira dritto e lascia che siano i fatti a parlare: "Grazie alla riduzione del danno abbiamo debellato le piaghe di eroina e Aids fin dagli anni 90. Ora è tempo di aggredire il commercio illegale e di far sì che chi decide di fumare erba possa farlo in sicurezza". Come? "Con la coerenza. Regolamentando la sostanza come è stato fatto per alcool e tabacco. È molto più efficace incoraggiare la gente a osservare delle regole piuttosto che imporre un divieto al quale di certo si trasgredirà".
Dopo che nel 2004 il sostituto procuratore di Bellinzona Antonio Perugini bruciò l'ultima piantagione di marijuana sulle Alpi, agli svizzeri non rimase altro che dedicarsi alla coltura indoor. Ma a differenza delle piccole grow room olandesi, la coltivazione assunse subito dimensioni industriali con enormi piantagioni nascoste in hangar e capannoni. "Io una volta ne ho scoperta una da 30mila piante", ricorda il comandante Gueniat che spiega: "Ogni anno vengono prodotte 130 tonnellate di cannabis per un mercato che vale quasi un miliardo di euro gestito da clan criminali italiani, spagnoli ed est europei".
Così, se l'offerta è incontrollabile, tanto vale provare a lavorare sulla domanda rendendo la marijuana cantonale più conveniente e sicura di quella del mercato nero. Con molte regole: vendita solo ai residenti maggiorenni dopo essersi iscritti a un apposito registro "per disincentivare il turismo dello sballo come in Olanda". Ma soprattutto ferrei controlli sulla qualità: dal seme allo spinello, perché, secondo uno studio dell'Università di Berna, la canapa indoor svizzera è piena di sostanze pericolose come pesticidi ed erbicidi.
"Come possiamo permettere che più di 500mila consumatori si intossichino quotidianamente con prodotti vietati nel riso o nel mais?". Gli fa eco Madame Dreifuss: "Vogliamo provare a portare avanti un metodo equidistante sia dal proibizionismo che da un sistema completamente liberalizzato, dove le risorse che prima si spendevano in repressione vengano destinate a campagne di sensibilizzazione, prevenzione e recupero".
Come in Uruguay, appunto, paese in cui in poco più di un anno "le tossicodipendenze sono diminuite, il business delle narcomafie è stato intaccato la protezione sanitaria per i consumatori è superiore agli standard previsti dalla convenzione Onu sulle droghe". Una bella sfida che forse solo la piccola, laica e pragmatica Svizzera può permettersi di affrontare. Nel frattempo però, a migliaia di chilometri di distanza, il nuovo presidente uruguagio Tabaré Vázquez ha già iniziato a prendere le distanze dalla politica sulle droghe del suo predecessore.
di Daniela De Robert
www.articolo21.org, 29 marzo 2015
Da undici anni dà voce al mondo del carcere. Per undici anni ha rappresentato un ponte tra il mondo prigioniero e il mondo libero. Ora però Sosta forzata, il giornale della Casa circondariale di Piacenza, dovrà chiudere.
di Giuseppe Gargani
Il Garantista, 29 marzo 2015
Non si interviene sullo strapotere delle toghe. Innalzare le pene per la corruzione non è la via giusta e la prescrizione "infinita" è la negazione del diritto.
Il Governo italiano e per esso il presidente Matteo Renzi ritiene di aver completato la riforma della giustizia riducendo le ferie ai magistrati, modificando la legge sulla responsabilità civile e aumentando le pene per i reati di corruzione. E in più, avendo ottenuto dal Parlamento il primo sì alla "prescrizione lunga" che è come dire "l'abolizione della prescrizione", ritiene di aver risolto tutti i problemi.
di Francesco Grignetti
La Stampa, 29 marzo 2015
Nel testo era previsto anche il carcere per i giornalisti che pubblicano quelle irrilevanti. Il ministro: "Contributo importante dalla commissione, ma non tutto diventerà legge".
È sempre la riforma delle intercettazioni, che Renzi vuole vedere entro il 2015, a far discutere. Il ministro Andrea Orlando giunge a Reggio Calabria per il congresso di Magistratura democratica e ripete: "La rivisitazione delle intercettazioni era già inserita nei dodici punti della riforma della giustizia e poi nel disegno di legge che ora si trova alla Camera".
di Marco Scorzato
Giornale di Vicenza, 29 marzo 2015
Intervista al deputato David Ermini, responsabile Giustizia del Pd.
"Quella del benzinaio è legittima difesa, e va garantita la sicurezza. No a indulto o amnistia"
Processi infiniti, incertezza della pena, carcere per pochi e poche carceri. Tra le note dolenti della giustizia italiana c'è l'imbarazzo della scelta. David Ermini, deputato e responsabile nazionale Giustizia del Partito democratico, l'altra sera era a Schio a discutere della "riforma" della materia con il deputato Filippo Crimi e con Diego Marchioro e Chiara Guglielmi, candidati renziani al Consiglio regionale.
Libero, 29 marzo 2015
Indennizzi per ingiusta detenzione? Un vero salasso, per lo Stato italiano. Oltre che un significativo indicatore di come troppo spesso, nel nostro Paese, finiscano dietro le sbarre degli innocenti, ritenuti tali dalle sentenze definitive. Le ultime, preoccupanti cifre le ha fornite lo scorso gennaio il viceministro della Giustizia, Enrico Costa.
di Gilberto Corbellini e Elisabetta Sirgiovanni
Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2015
È sbagliato mescolare i violenti criminali con gli altri malati mentali. Un errore simile fu fatto ai tempi della legge 180. Il 31 marzo 2015 chiuderanno definitivamente gli ultimi istituti deputati in Italia alla cura e detenzione dei malati psichiatrici criminali: gli Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Di "manicomi criminali", come li si chiamava all'epoca della loro istituzione nel 1870, sostenuta dalle teorie di Cesare Lombroso, ne sono rimasti sei: ad Aversa (1876), a Montelupo Fiorentino (1886), a Reggio Emilia (1897), a Napoli (1922), a Barcellona Pozzo di Gotto (1925), a Castiglione delle Stiviere (1939) e a Pozzuoli (1955). Gli Opg rientravano nelle misure di sicurezza controllate dal Ministero della Giustizia per colpevoli di reati gravi che, pur non ritenuti imputabili per le azioni commesse, in quanto diagnosticati infermi di mente, sono pericolosi per la società.
Un tempo si definivano "pazzi morali". Perché li chiudono? Nel corso del 2010 una Commissione di inchiesta del Senato, dopo sopralluoghi in queste strutture, che ospitano oggi in tutto 700 pazienti circa, rileva in alcune di esse condizioni di degenza sconcertanti, documentate da video e fotografie: scarsa presenza di personale medico e mezzi, sovraffollamento, degrado strutturale e igienico-sanitario, reclusi in pessime condizioni e privi di supporti educativi o ricreativi.
Come nel caso di un paziente tenuto nudo in stato di contenzione, legato con garze e con un evidente ematoma sul cranio della cui causa non c'è traccia nelle cartelle. Ma fu trovato anche un internato che, pur avendo ottenuto dalla magistratura l'autorizzazione al trasferimento, veniva trattenuto per mancanza di struttura territoriale adeguata, o altri due malati con ferite non documentate e vari casi di patologie fisiche non curate.
In un video si dichiara di aver conosciuto un malato internato anni orsono solo perché usava vestirsi da donna. La descrizione dell'ospedale di Castiglione delle Stiviere (Mn) nella relazione della commissione, invece, si discosta positivamente dalle altre.
Nell'ambito del decreto legge cosiddetto "svuota-carceri" (22 dicembre 2011, n. 211) e sull'onda dell'atmosfera creata dalla condanna dell'Unione Europea per la situazione carceraria in Italia, si decide frettolosamente di far fronte alla situazione con un articolo che subisce rinvii fino all'ultimo (Dl 30 maggio 2014, n. 81) e che impone la definitiva chiusura degli Opg in favore di nuove strutture locali dette Rems (Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria), gestite dalle Regioni e dal ministero della Salute. I pazienti più pericolosi verranno trasferiti nelle Rems, gli altri nei reparti psichiatrici degli ospedali territoriali.
A oggi, solo dieci Regioni su venti si dicono pronte a gestire questo cambiamento, il ministero della Salute minaccia il commissariamento per le altre e cresce lo sconcerto tra gli operatori della salute mentale che si sentono impreparati a fronteggiare la situazione. A metterci il carico, le assurde pretese delle associazioni in difesa della chiusura che chiedono l'abolizione anche delle Rems, e la riabilitazione completa degli internati.
Il diciannovesimo secolo fu il secolo del "sistema degli asili", quando si consolidò la cura del malato psichiatrico in luoghi specializzati, che costituivano un'evidente evoluzione terapeutica rispetto alla precedente carcerazione. Fu il medico francese Philippe Pinel nel 1793 a iniziare la sua battaglia per la fondazione di questi istituti proprio con un atteggiamento di tipo etico, che intendeva liberare il paziente psichiatrico dalle mostruosità della detenzione come incatenamenti e violenze brutali.
Negli anni Sessanta libri come Asylums (1961) del sociologo canadese Erving Goffman o Manicomi come lager (1966) del giornalista italiano Angelo del Boca denunciavano gli orrori dei trattamenti manicomiali, e in Italia si affermava un movimento culturale, ispirato al pensiero di Franco Basaglia, avverso ai manicomi in quanto frutto anche se non soprattutto di una concezione medica della malattia mentale. Queste idee contenevano gravi errori, dovuti a pregiudizi anti-illuministi e antiscientifici.
Quello che il clima ideologico anti-asili degli anni Settanta ha diffuso in Italia è un ragionamento infondato e insidioso, oltre che ascientifico: collegare l'attenzione etica al paziente neurologico e psichiatrico con l'idea falsa che le malattie mentali non esistano affatto e, in particolare, che non possano essere dannose per chi le ha e per coloro che gli sono intorno. Come accade per qualunque malattia, non tutte le condizioni psichiatriche richiedono interventi o causano gravi sofferenze o predispongono a comportamenti gravemente dannosi per sé o per altri. Ma alcune di esse sì.
Le malattie psichiatriche non sono il frutto dell'immaginazione dei clinici o peggio uno strumento di potere e repressione, perché quando è così non si tratta di malattie psichiatriche. Anzi, è proprio chi sostiene che le malattie del cervello esistono e vanno diagnosticate e trattate adeguatamente a ritenere che l'isolamento pressoché carcerario e che le situazioni di svilimento e degrado del paziente sono non solo inaccettabili dal punto di vista etico, ma vanno contrastate perché controproducenti e inutili ai fini della cura e del suo benessere.
Aiutare la costruzione di strutture che puntino alle migliori condizioni per il trattamento dei malati psichiatrici criminali non dovrebbe sfociare automaticamente nell'idea che queste persone non siano malate, o peggio che non siano pericolose socialmente. Si va dai killer seriali a sangue freddo, agli stupratori, agli stalker, agli affetti da psicosi deliranti e allucinatorie violenti: tutti con alto grado di recidivismo. In molti casi, per sfortuna, la medicina non è ancora in grado di guarirli e riabilitarli ed è compito delle istituzioni e dei governi garantire la sicurezza per tutti gli altri.
Non è il caso di cadere negli stessi errori della legge 180, impropriamente chiamata Basaglia e approvata nel clima politico tormentato del 1978, appena quattro giorni prima del rapimento di Aldo Moro. Anche in quel caso la chiusura degli ospedali psichiatrici prevedeva un'organizzazione territoriale dell'assistenza, che è stata valutata negli anni qualitativamente inefficace e inadeguata non solo localmente da chi doveva gestire con scarsi mezzi e risorse le esigenze del settore della salute mentale, ma anche in modo documentato dalla letteratura internazionale. Mescolare pazienti criminali, potenzialmente manipolatori o violenti, ad altri pazienti vulnerabili è in più una scelta azzardata e ingiustificabile, perché i primi necessitano di cure e attenzioni ancora più specifiche, come la psichiatria forense ha insegnato.
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