www.veneziatoday.it, 1 aprile 2015
Al detenuto cinese era stato concesso di dedicarsi a un mestiere all'esterno della struttura. Ricerche in corso. "Caso più unico che raro".
Gli viene concesso di dedicarsi ad un mestiere onesto all'esterno del carcere, ma non si presenta sul posto di lavoro e non fa ritorno in cella: è quanto accaduto sabato al penitenziario Santa Maria Maggiore di Venezia, dove un detenuto cinese si è reso "uccel di bosco". Essendo irreperibile, di fatto risulta evaso e sono quindi scattate le ricerche per assicurarlo alla giustizia.
Ne dà notizia il sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), spiegando: "Purtroppo si può verificare, anche se la percentuale dei detenuti ammessi al lavoro all'esterno che non fa poi rientro in carcere è minima". Donato Capece, segretario del sindacato, aggiunge: "Ovviamente a questo punto la sua condanna si allungherà. Ma il lavoro all'esterno per i detenuti è utile (e la stragrande maggioranza di chi ne fruisce ha un comportamento ineccepibile) proprio per creare le condizioni di un percorso rieducativo finalizzato a intessere rapporti con la famiglia".
Il sindacato ribadisce poi che scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una funzione anche sociale. Si cita l'esempio di chi, sorpreso alla guida in stato di ebbrezza, lavora (senza essere retribuito) nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale. Il leader del Sappe evidenzia però che anche il grave episodio del mancato rientro del detenuto in carcere a Venezia è "sintomatico della presenza di criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia. E a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale".
www.ligurianotizie.it, 1 aprile 2015
La polizia penitenziaria ha individuato e sequestrato due telefonini abilmente nascosti nel doppiofondo delle scarpe in gomma destinate ad un detenuto straniero nel carcere di Marassi. A comunicarlo è il Sappe precisando che la scoperta è stata fatta grazie alla professionalità acquisita dal personale addetto ai controlli pacchi destinati ai detenuti. In passato si è assistito ai lanci di involucri contenenti droga e telefonini i quali, dalla confinante strada, venivano catapultati nei cortili passeggi di Marassi, mentre oggi i famigliari dei detenuti cercano di occultarli nei pacchi a loro destinati.
"Ma l'attenzione della Polizia Penitenziaria di Marassi benché sia alta - precisa il Sappe - non può essere lasciata solo alla scaltrezza del poliziotto di turno. È necessario che vengano organizzati corsi di formazione e si adottino strumenti tecnologici, anche se sarebbe meglio prevedere la schermatura degli istituti per annullare il segnale telefonico. Se ne parla da anni ma ad oggi, solo tanti progetti ma nessuna vera iniziativa è stata intrapresa, nel frattempo, una grossa responsabilità incombe sul Poliziotto di turno e se invece del telefonino o droga entrasse accidentalmente un'arma? La responsabilità verrebbe imputata solo sul poliziotto di turno con l'accusa di omesso controllo? Per questo il Sappe ligure chiede che alla Polizia Penitenziaria gli venga affidato solo il compito della sicurezza e con gli strumenti adeguati, ma da subito ci vuole il reparto cinofilo antidroga".
di Valentina Frasca
www.ragusah24.it, 1 aprile 2015
L'incontro faceva parte delle due giornate dal titolo "Cultura e legalità - Raccontare il disagio" promosse dal comune di Ragusa. "Scrivere è la torcia che illumina la caverna quando stiamo cercando l'uscita, ha detto Federico Moccia, uno dei tutor dell'iniziativa.
"La dignità non ce la deve toccare nessuno. Tanti di noi, se avessero avuto di che vivere serenamente, non avrebbero commesso reati. Ma è giusto che chi ha sbagliato paghi. Io sono stato fortunato perché ho trovato chi crede in me. Ho 63 anni, e ho capito che non c'è nulla al mondo per cui valga la pena di spendere qui dentro un solo giorno della nostra vita".
A parlare è Salvatore Saitto, arrestato per la prima volta nel 1974 per reati politici e condannato a 5 anni di reclusione, di cui i primi 5 mesi trascorsi in totale isolamento. Saitto, napoletano di origine e libero dal novembre 2014, è il vincitore dell'edizione 2014 del concorso letterario "Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere", destinato ai detenuti di tutta Italia e curato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, socio fondatore di Inverso Onlus, associazione per la diffusione della letteratura tra le categorie socialmente svantaggiate.
C'era anche lei, ieri pomeriggio, nella casa circondariale di c.da Pendente, a Ragusa, per presentare la quinta edizione del Premio ed invitare i detenuti a partecipare. Con lei anche due "tutor" d'eccezione del concorso: lo scrittore e regista Federico Moccia e il giornalista di Repubblica Massimo Lugli.
È stato il comune di Ragusa ad organizzare l'iniziativa, e in rappresentanza di Palazzo dell'Aquila erano presenti il sindaco Federico Piccitto, l'assessore ai servizi sociali Salvatore Martorana, e il Presidente del consiglio comunale, Giovanni Iacono. "La cultura dev'essere il ponte tra chi sta dentro e chi fuori" ha dichiarato Piccitto. "Invece, purtroppo, quello che arriva alla gente sono solo i problemi delle carceri, non le storie di chi ci vive. Questo concorso è importante perché fa emergere il vero volto dei detenuti, attraverso ciò che vogliono dirci con i loro racconti e le loro poesie".
"Nel corso della mia visita di dicembre" ha aggiunto Iacono: "avevo promesso che sarei tornato prima di Pasqua, e così è stato. Il mondo delle carceri e quello che sta all'esterno sono distinti solo apparentemente; in realtà, se il secondo inizia a vedere e ad accogliere nel giusto modo chi fa parte del primo, permettendo un reinserimento sociale e professionale, questo potrà essere non più solo un luogo di reclusione, ma anche di speranza".
Creare uomini nuovi, quindi, che hanno imparato la lezione e hanno nuovi progetti di vita. Questo dev'essere il fine ultimo dei luoghi di prigionia. E a ribadirlo è stato, nel suo saluto iniziale che ha aperto il lungo incontro, anche la direttrice della struttura penitenziaria, Giovanna Maltese.
Tante sono state le tematiche affrontate, soprattutto quando è arrivato il Sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri. Dalla contumacia alla carcerazione preventiva, dall'immigrazione clandestina ai tempi della giustizia, dall'importanza del garantire la certezza della pena alla rieducazione, fino alle prescrizioni e alle pene pecuniarie.
"Sono un magistrato", ha affermato: "ma conosco davvero la realtà delle 200 carceri italiane solo da un paio d'anni, da quando cioè sono entrato nella squadra di Governo. In questo lasso di tempo ho capito quanto sia importante la sinergia tra le istituzioni per far si che i detenuti possano non solo scontare la loro pena, ma utilizzare il tempo della loro condanna imparando un mestiere e rendendosi utili e per questo stiamo lavorando ad una riforma sul lavoro penitenziario e al miglioramento delle strutture affinché possano diventare delle "carceri – imprese". Un detenuto che fuori si sentirà accettato ed integrato, e non nuovamente condannato, sarà un uomo che non tornerà a delinquere. E questo rappresenterà un bene per se stesso e la collettività tutta. Per questo - ha concluso il Sottosegretario - stiamo procedendo al finanziamento di 600 progetti in tutta Italia".
Sono 40, al momento, i detenuti del carcere di Ragusa che lavorano alle dipendenze del Ministero. Tre, invece, quelli coinvolti in un laboratorio per la produzione di torrone grazie ad una cooperativa esterna che sarà presente, e porterà i lavori dei detenuti, anche all'Expo' di Milano. L'obiettivo è di arrivare alla piena occupazione e del resto loro, i carcerati, molti dei quali hanno raccontato il difficile percorso che li ha portati fin lì, lo hanno detto chiaramente: "Non sopportiamo l'idea di stare a guardare i muri tutto il giorno! Aiutateci ad imparare".
Sull'importanza del reinserimento si sono concentrati anche il Prefetto di Ragusa, Annunziato Vardè, e Rosetta Noto, responsabile per il reinserimento sociale della struttura penitenziaria, che ha voluto rimarcare come solo una minima parte di chi è finito in manette ha scelto questa vita, il resto vi è stato costretto dalle circostanza e dalla sfortuna e merita, quindi, una seconda chance.
Tornando al concorso letterario, sono circa 2000 i lavori che, in quattro anni di concorso, sono pervenuti agli organizzatori. Storie di vita vissuta guardando il sole a righe. Antonella Bolelli Ferrera ha invitato tutti a partecipare. "Saranno 20, alla fine, i racconti selezionati per la finale e abbinati ad un tutor che seguirà il detenuto passo dopo passo nella trasformazione del racconto", ha spiegato. "I tutor sono tutti personaggi di altissimo profilo che incontreranno il detenuto, leggeranno il suo racconto, apporteranno le piccole correzioni necessarie e scriveranno l'introduzione. Tutti e 20 gli scritti saranno poi inseriti in una raccolta dalla quale la Rai trarrà spunto per un film. Proprio com'è accaduto per La mala vita con Luca Argentero e Francesco Montanari. Quello che facciamo è premiare il coraggio di raccontarsi, non il racconto più bello o scritto meglio".
"Scrivere è la torcia che illumina la caverna quando stiamo cercando l'uscita", ha detto Federico Moccia, uno dei tutor sin dalla nascita di Goliarda Sapienza, 5 anni fa. "Io, prima di questa esperienza, non mi ero mai posto domande sulle realtà carcerarie e grazie ai detenuti ho imparato molto. Nel corso della mia carriera ho spesso scritto di giovani che, con grande naturalezza, commettevano degli errori. Loro, però, quasi sempre avevano qualcuno che glielo facesse notare. Queste persone non sempre l'hanno avuto".
"Ho fatto dieci giorni di carcere, da ragazzino" ha raccontato Massimo Lugli. "Nessuno nasce con la natura da delinquente e non resta delinquente se non lo vuole. C'è sempre una scelta e questo concorso letterario ne può offrire una. La galera è dura, dei miei 10 giorni a 18 anni ricordo la noia mortale e solo il sonno ti strappa al dolore. Ma c'è una cosa - ha concluso il giornalista tutor, rivolgendosi direttamente alla platea di detenuti - che nessuno può chiudere a chiave qua dentro ed è il vostro spirito. Mi piacerebbe che partecipaste non per vincere, ma per quello che la lettura e la scrittura vi possono dare. Un momento di evasione, scrivendo potete volare fuori, dove volete".
In chiusura c'è stato spazio anche per un piccolo show messo su da un gruppo di detenuti guidato dall'attore e regista Gianni Battaglia che a breve inizierà il suo secondo corso di teatro all'interno della casa circondariale. Battaglia ha letto anche le toccanti poesie scritte da alcuni reclusi e ha concluso dicendo "proprio quando ormai mi ero convinto che il teatro non servisse a niente, ho capito che, in realtà, può salvare persino delle vite".
www.cronopolitica.it, 1 aprile 2015
Si correrà domenica 12 aprile a Palermo la 32° edizione del Vivicittà, la gara podistica che ogni anno tocca numerose città italiane. Anche quest'anno la gara podistica internazionale è dedicata alla memoria di Mario Bignone, capo della sezione Catturandi della Polizia di Stato di Palermo scomparso prematuramente all'età di 43 anni nel 2010. L'edizione 2015, organizzata dal Comitato provinciale Uisp Palermo e dal Comune di Palermo in collaborazione con la Lega atletica Uisp Sicilia, è all'insegna delle novità.
Il Vivicittà si correrà sulla distanza classica di 12 km per la gara competitiva mentre rimane su 3 km per la passeggiata ludico-motoria. Il nuovo circuito di quattro chilometri (da ripetere tre volte), interamente ricavato nel centro storico della città, ospita un numero immenso di monumenti, palazzi nobiliari, chiese, conventi, mercati, edifici storici e torri da lasciare senza fiato. La zona partenza ed arrivo è posta in viale della Libertà (davanti al Giardino Inglese) ed il circuito è un susseguirsi di emozioni.
I podisti, infatti, potranno godere dei tanti monumenti che incanteranno gli occhi ed il cuore dei partecipanti con colori e profumi che si fonderanno durante i dodici chilometri della gara. Come lo scorso anno, insieme ai tanti cittadini che percorreranno le vie centrali della città, anche un gruppo di detenuti del carcere Ucciardone.
Un importante evento che coniuga l'amore per lo sport con un tema vitale, quale la libertà. Un grande momento di sport per i detenuti e i cittadini che correranno fianco a fianco, senza più barriere. Continua, inoltre, il protocollo intesa firmato dalla Uisp Palermo con il carcere Ucciardone. Il 18 aprile i detenuti, preparati da due operatori sportivi durante il corso dell'anno, correranno all'interno della casa circondariale per dare vita ad un passaggio di testimone tra le due corse cittadine. Le iscrizioni sono aperte nella segreteria organizzativa che si trova all'interno dello Stadio di Atletica Leggera Vito Schifani, sito in Viale del Fante 23. Il costo d'iscrizione fino all'8 aprile è di 12 euro.
Per ogni iscritto alle gare, un euro sarà destinato in beneficenza in Libano dove grazie a Vivicittà sono state allestite le prime 8 palestre per la soft-boxe e formati, attraverso 4 cicli formativi, 10 istruttori. Dal 9 all'11 aprile sarà comunque possibile iscriversi applicando una penale di 3 euro ad iscritto. La passeggiata Ludico-Motoria avrà inizio alle 9,30 con partenza sempre dall'ingresso principale del Giardino Inglese di via Libertà. Il costo d'iscrizione è di 6 euro e comprende il pacco gara contenente la t-shirt, il pettorale, altri gadget e ristoro finale. Per informazioni contattare la segreteria organizzativa ai numeri 3397149566 - 3283666552, oppure tramite email
Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2015
Nell'ambito del progetto "Oltre lo sport. Custode e manutentori d'impianti sportivi" rivolto a detenuti e finanziato dalla Fondazione Cariciv - Bando 2014 in terza edizione, questa mattina si è svolta la prima partita di calcio a 5 solidale, tra una delegazione degli alunni delle quinte classi dell'Ite "Guido Baccelli" di Civitavecchia e una rappresentanza di reclusi ospiti presso la Casa di Reclusione "Giuseppe Passerini" di via Tarquinia, 20.
Gli studenti che hanno partecipato all'iniziativa, insieme ad alcuni docenti ed al dirigente scolastico, hanno avuto modo di prepararsi all'evento, attraverso riflessioni sui problemi e le situazioni legate ai temi della giustizia e del sistema carcerario, su come sono le condizioni di vita dei detenuti oggi, cosa fare per contribuire alla lotta alla devianza ed alla criminalità e sulle modalità di collaborazione al loro reinserimento sociale, laddove possibile.
Prima di disputare la partita ai ragazzi è stata illustrata l'architettura e la storia del penitenziario: l' edificio è un'antica fortificazione cinta da mura, in mattoni, che in epoca antica è stata adibita a colonia penale, precedentemente granaio del Vaticano, oggi carcere a trattamento penitenziario differenziato (media sicurezza).
La partita è stata vinta dai ristretti con il risultato di 4 a 1. A breve l'evento, unitamente al progetto, verrà realizzato anche presso la Casa Circondariale "Nuovo Complesso Penitenziario Aurelia - Km 79,500" - Città. Per la realizzazione dell'avvenimento sportivo si ringrazia la Dottoressa Anna Angeletti - Direttrice C.R. con la Prof.ssa Stefania Tinti - Preside dell'ITE "G. Baccelli", l'area educativo trattamentale Dottoressa Alessia Giuliani, il personale di polizia penitenziaria, le insegnati Marinella Scaccia e Manila Di Gennaro, gli alunni che hanno partecipato ed infine il presidente dell'Asd Trinità Emanuele Fustaino per la collaborazione.
di Michele Giorgio
Il Manifesto, 1 aprile 2015
"Quando la sera vado a riprendere i miei due figli, non ho la certezza di trovarli vivi". È la frase agghiacciante pronunciata l'altro giorno da una giovane madre eritrea intervistata dalla radio militare israeliana. Parole che descrivono uno dei drammi più gravi che vivono tanti eritrei, sudanesi e altri migranti africani in Israele, costretti per necessità a lasciare i figli per tutto il giorno in asili nido improvvisati e privi di strutture minime. Sono dei "depositi per bambini" a tutti gli effetti, dove le condizioni sono disumane e pericolose: dall'inizio dell'anno sono morti cinque piccoli, l'ultimo, di soli 4 mesi, tre giorni fa. A lanciare l'allarme è una Ong locale, "Ali di Crembo". I suoi volontari denunciano che in Israele ci sono decine di questi "depositi" che ospitano oltre 2000 bambini, su una popolazione di migranti eritrei e sudanesi di circa 42 mila persone. Bambini di fatto abbandonati a se stessi che sono stipati per ore ed ore in ambienti poco areati, quasi senza cibo, spesso con un unico pannolino per tutto il giorno. Una neonata è morta soffocata dal proprio biberon.
È intervenuta anche la leader del partito Meretz, Zahava Galon, che ha lanciato un appello al premier Netanyahu affinché intervenga con urgenza. Ma è improbabile che l'esecutivo scenda in campo facendosi completamente carico della condizione di questi bambini, visto che ha imposto negli ultimi anni un giro di vite sull'immigrazione. Israele di recente ha ulteriormente irrigidito la sua posizione. I migranti africani, riferiscono i media locali, nei prossimi giorni saranno convocati e messi di fronte alla scelta se stabilirsi in Uganda o in Ruanda (con voli pagati da Israele e con assegni per far fronte alle prime necessità) oppure andare incontro alla deportazione con la forza. Si opporrà rischia di essere rinchiuso nel carcere di Saharonim, nel deserto del Neghev. Duemila africani si trovano già nella cosiddetta "struttura aperta" di Holot, di fatto un altro centro di detenzione per migranti sempre nel Neghev.
Nonostante le proteste dei centri per i diritti umani locali e internazionali, le autorità israeliane proseguono la loro politica. Secondo i dati del governo lo scorso anno 5.803 immigrati avrebbero scelto di "lasciare" Israele e di andare in Ruanda e Uganda. Resta incerta anche la condizione dei richiedenti asilo. Israele negli anni passati ha riconosciuto questo status in pochissimi casi nonostante un numero elevato di migranti provengano da paesi sconvolti da gravi conflitti armati o dove sono sistematicamente violati i diritti umani. Le autorità invece ritengono che gli africani entrati illegalmente nel Paese lo abbiamo fatto per cercare lavoro e non per sfuggire a guerre e persecuzioni. Le norme per le espulsioni perciò sono applicate spesso anche nei confronti dei richiedenti asilo. Le risoluzioni delle Nazioni Unite obbligano gli Stati a rendere pubblici gli accordi di "trasferimento" dei richiedenti asilo e ad accertarsi che poi siano protetti nel paese di accoglienza.
Tel Aviv al contrario continua a non rivelare i punti degli accordi con Ruanda ed Uganda. "Dubito che tali patti siano messi per iscritto. Gli stessi Stati coinvolti negano che ci siano delle intese", denuncia Oded Peler, responsabile per i migranti all'Associazione per i Diritti Civili "(gli espulsi) sono accolti in Paesi terzi senza avere uno status giuridico né la rassicurazione che non saranno consegnati alle autorità dei loro Stati d'origine. Israele è tenuto a comunicare quale è il prezzo che paga per potersi disfare dei richiedenti asilo, in soldi, in armi o in altri modi".
di Marco Perduca
Il Manifesto, 1 aprile 2015
Le aspettative alla vigilia della 58esima sessione della Commissione sulle droghe dell'Onu non erano particolarmente alte, ma qualcosa s'è mosso. Per riassumere gli sviluppi positivi bisogna citare gli Usa: "Abbiamo adottato politiche intelligenti sul crimine" hanno esordito gli Stati Uniti sottolineando come all'incarcerazione di chi consuma sia da preferire la cura. Un messaggio preciso, anche se non totalmente corrispondente alla realtà delle politiche giudiziarie nazionali. Altrettanto chiara l'invocazione della "latitudine" cioè lo spazio di manovra all'interno delle tre Convenzioni Onu sulle droghe per modificare, a impegni internazionali vigenti, leggi e politiche sugli stupefacenti.
Il nuovo corso del Paese che ha inventato la "guerra alla droga" ha contribuito a impostare il dibattito relativo all'Ungass, la sessione speciale dell'Assemblea generale prevista per il 2016.
Le nuove posizioni americane erano state precedute dai toni inusualmente concilianti dell'Incb, l'organo che controlla l'aderenza delle politiche nazionali alle Convenzioni sugli stupefacenti, e dell'Unodc, l'ufficio delle Nazioni Unite che coordina le campagne di "controllo alla droga".
Attenzione socio-sanitaria, depenalizzazione, ferma condanna dell'uso della pena di morte per reati connessi alle droghe e "sviluppo alternativo" per contrastare le colture illecite sono diventate le nuove parole d'ordine. Segnali di buon senso che fino a qualche tempo fa non avevano diritto di cittadinanza all'Onu di Vienna.
Certo, nessuno mette in dubbio che sia arrivato il tempo di riformare le Convenzioni e molti paesi continuano a stigmatizzare anche la sola menzione della possibilità di "legalizzare", ma i tempi della parola d'ordine "Un mondo senza droga, possiamo farcela" con cui Pino Arlacchi convocò la Ungass del 1998 son morti e sepolti.
Tutto pronto quindi per un cambio di passo nel 2016? Non proprio, e a far notare che modulare i toni non basta ci hanno pensato i latino-americani. Il ministro della giustizia colombiano Yesid Reyes ha infatti denunciato in plenaria che "la guerra alla droga non è stata vinta" e che "diventa imperativo ideare, proporre e concordare, a livello globale, nuovi approcci che ci permettano di affrontare il problema della droga in modo più efficace La riduzione dell'offerta della cocaina non ha funzionato" ha detto Reyes, occorre quindi "esser flessibili quanto il mercato delle sostanze". Parole chiare, salutate da un applauso generale, anch'esse sicuramente più avanti delle politiche nazionali, ma che hanno messo in evidenza un sentire comune del continente sudamericano confermato da Messico, Uruguay, Guatemala.
Altro segnale incoraggiante il coinvolgimento delle organizzazioni non-governative nelle sessioni tematiche e negli eventi organizzati a latere del dibattito ufficiale. Proprio come in altri consessi dell'Onu, anche a Vienna, le Ong possono tranquillamente prendere la parola, far circolare documenti e, in alcuni passaggi, come a proposito della proposta di proibire la ketamina, giocare un ruolo attivo per influenzare positivamente i negoziati.
Il 7 maggio prossimo, al Palazzo di Vetro, si terrà un dibattito di alto livello per continuare la preparazione della sessione del 2016.
A New York si affrontano le questioni politiche, c'è da sperare che i paesi che si sono esposti a Vienna confermino la risolutezza manifestata e che, finalmente, l'Europa assuma la leadership di questo nuovo atteggiamento affinché l'Ungass lanci un processo riformatore che ci porti alla chiusura definitiva col proibizionismo.
di Federico Rapini
www.ilprimatonazionale.it, 1 aprile 2015
Nei giorni in cui il tema degli italiani detenuti all'estero torna sotto la luce dei riflettori, causa l'inizio del processo nelle Filippine ai danni di Daniele Bosio, è bene ricordare che secondo le stime della Farnesina sono più di 3000 gli italiani detenuti all'estero. Tra tutti sicuramente sono i 2 marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, a fare più notizia. Come nel caso dei due militari detenuti da più di 3 anni in India, il Governo italiano negli altri casi fa molto poco se non nulla per riportar i propri cittadini a casa. Anzi, talvolta contribuisce a farli condannare.
Tra le storie più raccapriccianti c'è quella di Roberto Berardi, imprenditore di Latina che dal gennaio 2013 si trova nel carcere di Bata, in Guinea Equatoriale. In Africa dal 2012, Berardi entra in contatto con Teodorin Obiang, figlio del Presidente della Guinea Equatoriale, con il quale comincia rapporti di lavoro tanto da creare una società, la Eloba Construction SA, il cui 60% nelle mani di Obiang e il 40% all'italiano. Nel dicembre 2013,l'imprenditore di Latina scopre che la sua società ha buchi milionari, impegnandosi di tasca propria a risanarli, pagando dipendenti e fornitori. Chiede allora spiegazioni ad Obiang che di tutta risposta lo fa arrestare.
Qui inizia l'odissea. Il carcere di Bata è uno dei posti peggiori del mondo, dove i detenuti sono tenuti in pessime condizioni igienico-sanitarie, vengono pestati e torturati quotidianamente. Ad oggi Berardi ha contratto più volte la malaria, un enfisema polmonare, il tifo e perso 30 kg.
"Il Principe", così viene chiamato Teodorin Obiang, è oggetto di un mandato di cattura internazionale emanato dagli Usa, ma tutt'oggi è libero. Il governo italiano, tramite la Farnesina prova timidamente a risolvere la questione, considerando le pressanti e giustificate richieste dei parenti di Berardi. Ma nulla. Al console Massimo Spano non viene neanche permesso l'accesso al carcere. Il processo è una farsa con testimoni che dopo le accuse spariscono nel nulla. Roberto viene condannato a due anni e mezzo di carcere più 1,5 milioni di dollari da restituire. La famiglia di Roberto Berardi è disperata e chiede anche aiuto al Vaticano, pensando che la cattolica Guinea Equatoriale accolga la richiesta nell'Angelus da parte del Papa.
Ma la situazione, è il caso di dirlo, non la smuove neanche "l'Onnipotente". Il nostro connazionale ha anche tentato la fuga dal carcere, ma giunto davanti l'ambasciata spagnola, nonostante le suppliche, questa non ha aperto neanche i cancelli. Questa vicenda mostra chiaramente la considerazione che il nostro governo gode all'estero. Un governo fantoccio che abbandona i propri figli.
Chi a suo tempo fu abbandonato dall'Italia fu Carlo Parlanti. Accusato falsamente dalla ex compagna di maltrattamenti e stupro, ha scontato nove anni nel carcere americano di Avenal in California. Anni dopo il suo ritorno in Italia, Carlo Parlanti ha descritto tutte le anomalie del suo processo, compreso "l'aiuto" che la Polizia italiana diede a quella americana per cercare di incastrarlo. Parlanti fu arrestato a Dusseldorf, in Germania, per le accuse citate sopra. Sarebbe dovuto essere stato messo in libertà previo cauzione, anche perché la signora White, la denunciate di Parlanti, fu fotografata, nei giorni seguenti ai presunti abusi, in buona forma e senza evidenti segni di percosse.
Parlanti in carcere fece due scioperi della fame lamentando le difficoltà incontrate nell'acquisire la documentazione medica avanzata dalla White, la quale in precedenza fu anche dichiarata instabile da un tribunale californiano in seguito alla separazione dall'ex marito. L'aiuto della polizia italiana a quella americana venne con l'invio di un documento preso abusivamente da un vecchio fascicolo del 1989, dove il Parlanti veniva accusato di maltrattamenti da una sua ex compagna. Quel caso però fu archiviato senza che mai si arrivasse alle indagini. Dopo essere tornato in Italia, Carlo Parlanti ha avuto modo di raccontare la sua versione dei fatti e ha denunciato l'ispettore di polizia italiana e l'attaché di ambasciata che hanno provato ad incastrarlo. Parlanti ha anche denunciato le pessime condizioni di vita a cui era soggetto nel carcere americano, dove ha contratto l'epatite C.
Non sono, quindi, solo i paesi del Terzo Mondo, come la Guinea Equatoriale, a trattare come bestie i detenuti, ma anche stati che si ergono a paladini della democrazia come gli Usa. E tramite l'associazione "Prigionieri del silenzio" i cui portavoce sono lo stesso Carlo Parlanti e Katia Anedda, si vengono a scoprire queste storie che hanno dell'incredibile.
Come quella di Claudio Castagnetta, ricercatore arrestato in Canada per disturbo della quiete pubblica. Il suo corpo viene ritrovato senza vita dopo due giorni in cella. Secondo le istituzioni canadesi si è suicidato, ma il ministero canadese in seguito inviò delle scuse che lasciano perplessi.
Senza parole lascia anche la storia di Simone Renda, bancario morto in un carcere messicano. Portato in cella perché trovato nudo e non in grado di muoversi nella sua stanza d'albergo. Solo dopo si venne a sapere che soffriva di una malattia che non gli permetteva di rimanere a lungo senza bere.
Questi sono solo pochi esempi dei migliaia di italiani detenuti più o meno giustamente all'estero. Italiani abbandonati dalle istituzioni italiane che latitano. D'altronde la giustizia e la vita di un italiano valgono molto meno che mantenere "buoni rapporti" anche con stati dove la pena di morte è ancora in vigore.
www.contropiano.org, 1 aprile 2015
"Regni" governati da mafie che abusano, praticano estorsioni, obbligano a prostituirsi donne già costrette a vivere in condizioni degradanti, ammassate in piccoli spazi, carenti di tutto, dai servizi igienici al cibo: questo il ritratto delle carceri femminili del Messico, disegnato dalla Commissione nazionale dei diritti umani, ente statale autonomo che ha studiato le condizioni di vita di 77 dei 102 istituti di pena del paese, capaci di contenere fino a 12.692 donne.
La discriminazione di cui la donna in Messico soffre quotidianamente si riflette anche nelle carceri, secondo l'organismo che annota carenze e problemi che non si riscontrano fra i detenuti maschi in almeno 65 prigioni; piaghe già segnalate in un rapporto del 2013 ma rimaste senza risposta. Maltrattamenti e abusi sessuali sono all'ordine del giorno, così come "mazzette" estorte dalle guardie coinvolte in reti di attività criminali guidate dai detenuti ospitati nella sezione maschile dello stesso istituto di pena. Così, mentre in 51 centri le recluse dormono ammassate sul suolo fra insetti e topi, in altri 20 sono costrette a prostituirsi, altre, finanche all'interno degli stessi impianti, beneficiano di celle private con tv al plasma, forno a microonde, frigo e telefono cellulare, sottolinea la Commissione.
I penitenziari dove gli abusi sono più massicci sono quelli dello stato meridionale di Guerrero - che la tragedia dei 43 studenti di Aytzinapa ha fatto conoscere al mondo per la violenza - seguiti da quelli degli stati di México, Puebla, Sinaloa, Michoacán e Oaxaca. I problemi, tuttavia, non si limitano ad aree circoscritte, ma si riscontrano dal nord al sud del territorio nazionale.
Agi, 1 aprile 2015
Son state ridotte le pene comminate a 22 condannati negli Stati Uniti per reati di droga. La decisione è stata presa da Barackk Obama, che ha motivato in altrettante lettere ai detenuti la scelta: "Avete dimostrato -scrive il presidente americano- di essere in grado di imporre una svolta alla vostra vita". I detenuti, alcuni dei quali avrebbero dovuto scontare l'ergastolo, saranno rilasciati il prossimo 28 luglio.
"Hanno già trascorso diversi anni in carcere, e in alcuni casi anche più di un decennio -ha spiegato il consigliere della Casa Bianca Neil Eggleston - più a lungo di diversi detenuti condannati con il sistema giudiziario odierno per lo stesso crimine". Rispetto alla presidenza di George W. Bush, che aveva ordinato 11 provvedimenti di condono, Obama ne ha emessi 43, ovvero il triplo.
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